Il Papa alla Biennale
Città del Vaticano. All’Arsenale di Venezia, proprio dove si fabbricavano cannoni e colubrine per la flotta della Repubblica, si apre il Padiglione della Santa Sede per la prima volta nella storia della Biennale d’Arte, giunta alla 55ma edizione (cfr. questa numero di «Vernissage»). È un segno forte della volontà del Vaticano di riannodare un rapporto con l’arte contemporanea dopo oltre un secolo di divorzio. Per ora niente più che un esperimento, «un seme» o meglio, come spera il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e regista dell’operazione, «un germoglio per iniziare un percorso». La Chiesa non teme i tempi lunghi e il cardinale ammette di non sapere né se né quando si potrà ricostruire un rapporto con l’arte del nostro tempo. Ravasi aveva lanciato l’idea di un padiglione vaticano circa sette anni fa (cfr. n. 269, ott. ’07, p. 24) e il progetto è stato infine approvato da Benedetto XVI. Questo debutto ha fatto naturalmente discutere, è ancora avvolto nella diffidenza, ma l’impegno della Chiesa è alto quanto il credito del cardinale Ravasi. La riuscita del tentativo dovrà essere giudicata soprattutto in base agli esiti futuri. Per ora abbiamo il padiglione: un progetto ambizioso per il quale tre diversi artisti hanno realizzato tre gruppi di opere. La scelta è stata compiuta con la supervisione del commissario, il cardinale Ravasi, e da un comitato scientifico strettamente interno al Vaticano, coordinato dal direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci: Micol Forti, direttrice della Collezione d’Arte Contemporanea dei Vaticani, Sandro Barbagallo, critico dell’«Osservatore Romano» e assistente alla direzione dei Vaticani per le Collezioni storiche, Francesco Buranelli, segretario della Pontificio Consiglio della Cultura (presieduta da Ravasi), monsignor Pasquale Jacobone, responsabile del dipartimento Arte e Fede del Consiglio, padre Andrea Dall’Asta, direttore della Galleria San Fedele di Milano. Su una rosa di una dozzina di nomi, per motivi tecnici o legati alla scelta del tema ne sono stati indicati tre: Studio Azzurro, Josef Koudelka e Lawrence Carroll. Si sarebbe voluta anche una presenza femminile: il nome era quello di Doris Salcedo, con un suo spettacolare manto multicolore fatto di petali di fiori freschi. Ma sarebbe stato tecnicamente impossibile conservarlo, per i cinque mesi della Biennale. Anche la proposta di una teca trasparente, climatizzata a 22 gradi, è stata esclusa dall’artista: la chiusura ne avrebbe sminuito l’effetto.
Il nodo «committenza»
Ravasi tiene a sottolineare che non si tratta di opere pensate per un possibile uso liturgico. La parola «committenza», tema molto delicato, è stata usata con assoluta cautela e si è parlato piuttosto di «stimolo culturale». Il tema proposto è nei titoli: quello generale, «In principio», e quelli delle tre sezioni: Creazione, de-creazione, ri-creazione, momenti essenziali del «progetto divino».
Il padiglione della Santa Sede si apre con tre opere di Tano Festa dipinte tra il 1976 e il 1979, citazione esplicita di Michelangelo e della Sistina con la creazione dell’uomo e l’immagine del serpente. «Anche per ricordare, dice Ravasi, che la contemporaneità anche allora non era del tutto estranea, per testimoniare una continuità del dialogo». All’interno: Studio Azzurro ha sviluppato il tema della «Creazione»: una grande videoinstallazione, un percorso con stimoli sensoriali, esperienze interattive e uso pieno dei «nuovi media». La seconda sezione è di Josef Koudelka: le sue fotografie compongono una grande installazione, racconta la «de-creazione», la scelta negativa dell’uomo, il peccato e quindi la distruzione. Infine la «ri-creazione» diLawrence Carroll, con la rappresentazione concreta e simbolica della «nuova umanità». Come si è arrivati a questo esito, con quale fine, con quali ragionamenti? «Il nostro vero problema, il nostro impegno, spiega il cardinale Ravasi, è far sì che gli artisti, con i loro codici linguistici e modalità espressive, tornino a dialogare: non con le componenti liturgiche, lo abbiamo escluso, ma con la religiosità cattolica, quella ebraico-cristiana della Bibbia. Quindi i grandi temi, le grandi narrazioni. Si doveva ritessere un rapporto sulla base di temi precisi. Per questo ho consegnato agli artisti un testo, i primi undici capitoli della Genesi».
Il dovere della bellezza
«Non ho adottato l’idea dei simboli, continua Ravasi, come qualcuno mi aveva suggerito: luce, acqua... Vedevo in agguato il rischio di un effetto new age, cioè una grande genericità. Ecco perché ho voluto “stringerli” a un testo, in questo caso la Bibbia con la sua fondamentale componente religiosa ma anche grande codice della cultura occidentale. La bellezza è un diritto primario. L’arte liturgica è iconica, ha le immagini. E quindi in futuro agli artisti dovremo avere il coraggio di proporre un soggetto: per esempio il crocefisso, come hanno fatto Matisse o Dalí. È il passo ulteriore da fare. Non escludo l’astratto, l’evocativo. Sono già una componente nel panorama dell’arte sacra. Pensiamo alle vetrate delle chiese, per esempio Valentino Vago che ha fatto una vetrata di 24mila mq per una chiesa di Abu Dhabi: grandi scenari colorati nei quali fa balenare delle figure sante, fluttuanti in questa immensità. Anche l’iconoclasmo è ricorso a figure geometriche trascoloranti e la stessa tradizione cristiana è ricorsa alla geometria. Ma anche quando proporrò una Madonna, o un Cristo, lo farò attraverso un testo, per esempio un testo evangelico».
Achille Bonito Oliva, storico e teorico dell’arte di oggi, è molto critico sull’operazione Biennale. «Mi pare che il padiglione vaticano confermi il processo di “creazione e de-creazione” tipico dell’arte contemporanea, che passa attraverso passaggi di destrutturazione. In fondo c’è un lato nietzschiano nel percorso del cardinale Ravasi. Vorrei ricordargli che Nietzsche diceva che per creare bisogna prima distruggere e nel padiglione vaticano questo processo viene applicato in un’ottica multimediale, che è ormai il trend di tutte le mostre. In questo modo anche la Santa Sede si adegua al “global” del sistema dell’arte contemporanea. C’è una coincidenza tra l’universalità dell’arte e quella della Chiesa cattolica, una sintonia oggettiva. Una tradizione antica, ma moderna negli esiti linguistici. Tramite i media la Chiesa può così avvicinare nuove fasce di credenti, giovani abituati ormai alla tv, all’iPad, alla fotografia veloce, ai video. D’altra parte questo è un processo inevitabile, il Vaticano non potrebbe partecipare alla Biennale con una presenza più tradizionale, anacronistica. Questo farebbe risaltare ancor più il suo ritardo. Così è stata fatta una specie di antologia: installazione, fotografia e pittura».
I perché del divorzio
Dopo secoli di stretta collaborazione, di identificazione con il mondo dell’arte, dai tempi della Rivoluzione francese questo rapporto si è interrotto. Antonio Paolucci, da storico dell’arte, direttore dei Musei Vaticani, spiega che «è accaduto quel fenomeno che chiamiamo “secolarizzazione”: il tempo laico della vita degli uomini è diventato egemone, la Chiesa, con i suoi valori, si è ritirata. Ci sono stati vari tentativi di recupero: nell’800 i Nazareni, i Preraffaelliti e altri. Però ci si è accorti che erano soprattutto dei ripescaggi, dei revival dell’antico. La Chiesa si è adagiata su stili rassicuranti e consolatori. Con il ’900 si è sentita molto forte la necessità di un’arte sacra che fosse in linea con le attese e gli stili dei tempi. A cominciare è stato papa Paolo VI Montini». L’omelia agli artisti riuniti nella Cappella Sistina il 7 maggio 1964 è alla base della svolta che, dopo cinquant’anni, ha portato la Chiesa alla Biennale. «Noi abbiamo bisogno di voi, ha detto Paolo VI agli artisti, perché compito del nostro ministero è di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri». E aveva continuato: «Bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Voi ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre». E ammetteva poi: «Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori (...). Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo: perdonateci! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi (...). Vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia”, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa (...)». Parole che ispirano quelle di oggi del cardinale Ravasi, che però deve constatare: «Quel discorso non ha avuto seguito. Né la Chiesa né gli artisti hanno raccolto la provocazione». L’unico esito concreto, nel 1973, la creazione della sezione Arte Contemporanea dei Musei Vaticani. «Quella di Paolo VI è stata un’intuizione formidabile, dice Antonio Paolucci: mettere Bacon, Fontana, Capogrossi, Burri all’ombra della cupola di Michelangelo, a pochi metri dalle Logge di Raffaello e dalla Cappella Sistina. Ma quella vaticana è una collezione messa insieme in modo diseguale, lo definirei “rapsodico”. C’è soprattutto quello che arrivava, che veniva donato. Paolo VI avrebbe voluto un Picasso, che però era ateo e non ha mai dato una sua opera al Papa. La collezione si è arricchita con gli anni e testimonia aspetti poco conosciuti di artisti importanti, certifica realtà spirituali inedite di Matisse e Chagall ma anche di Francesco Messina e Lucio Fontana». Ma Paolucci ha sempre amato l’arte classica, il culto del «bello». «Questo è il punto, dice. Credo che l’arte sia sempre contemporanea. Per me, la necessità di un rapporto con l’arte di oggi è una cosa relativa. Se capisci sul serio Raffaello, Michelangelo o Giovanni Pisano e Ambrogio Lorenzetti, puoi capire tutti i Cattelan e i Damien Hirst del mondo».
Per le nuove chiese manca «il modello»
Per l’architettura la Chiesa ha fatto molto di più, i rapporti non si sono mai interrotti. «Basta elencare, ricorda Ravasi, le tante archistar che hanno progettato chiese. Non sempre capolavori, spesso discutibili come quella di Fuksas a Foligno o di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo. Questo rapporto parte da Le Corbusier a Ronchamp, da Michelucci, con la chiesa dell’autostrada del Sole, o da Alvar Aalto a Riola. Il problema è che il culto cattolico, a differenza di quello protestante, ha un suo apparato, indispensabile allo spazio sacro: l’altare, l’ambone, il battistero, il tabernacolo, le immagini. L’architetto tende a trascurarlo. Tutto il suo interesse è per le linee, le forme, la luce e la funzionalità acustica. In passato l’interazione tra architetti e artisti era normale, se entriamo in una chiesa barocca non troviamo nessuna dissonanza tra architettura e opere d’arte. Adesso è difficile indurre l’architetto a tener conto della liturgia. È un vero problema. Per esempio: l’altare, simbolo del cibo divino, deve essere incastonato all’interno di una liturgia. Ho visto l’ambone di Giuliano Vangi nella cattedrale di Arezzo, immenso, sproporzionato, non equilibrato. Per questo il percorso che vogliamo fare con l’arte contemporanea dovrebbe avere anche questo approdo: evitare la cesura con lo spazio architettonico».
Paolucci accentua la critica: «È mancata una committenza, per molti anni gestita dai parroci». Si riferisce soprattutto alle 45 chiese costruite nella periferia di Roma dal 2000 a oggi. «Alcune sono belle: quelle di Richard Meier a Tor tre Teste o di Piero Sartogo alla Magliana, ma all’interno trovi un Padre Pio in gesso o peggio una riproduzione della Trinità di Rubliov e la Madonnina di Lourdes. Il contrasto diventa stridente. Anche per l’architettura c’è frantumazione: la “forma chiesa” non l’ho ancora vista. Non emerge il “modello” di chiesa, come è successo nel Medioevo e nell’età barocca, quello che rappresenta la cultura, la sensibilità, l’immaginario di un culto. Ma sarebbe presuntuoso e stupido dare una linea, imporre uno “stile cattolico” contemporaneo».
Un’arte in libertà vigilata
Achille Bonito Oliva ricorda che «la Chiesa ha sempre favorito la produzione artistica con un messaggio educativo. La propaganda è stata al centro dell’architettura barocca per riaffermare il suo primato messo in discussione da Lutero. La grande rottura con la Chiesa è avvenuta con la sfida delle avanguardie del ’900. Ma pensiamo anche a Dalí, che ha realizzato opere con riferimenti religiosi espliciti. Era un’eccezione guardata con sospetto dalla Chiesa. Diversi artisti hanno proposto contenuti apertamente o larvatamente legati ai temi dell’iconografia cattolica. Magritte, alla ricerca della surrealtà, inventa una nuova iconografia vicina alla sensibilità del secolo, suggestioni culturali che portano l’artista anche a una ripresa di temi ottocenteschi. Con il ’900 italiano c’è un uso parrocchiale di immagini che si ripetono da secoli. La Chiesa, già inondata di capolavori antichi, non sentiva il bisogno di testimonianze attuali. Quando Fontana vinse il concorso del 1951 per la quinta porta del duomo di Milano, gli si preferì il figurativo Minguzzi. Il suo “taglio” pareva sospetto. Meglio Manzù: i suoi cardinali tranquillizzavano la curia romana con il rassicurante linguaggio della tradizione». Ma Bonito Oliva entra con una polemica diretta anche in uno dei nodi più delicati che hanno segnato il lungo distacco dell’arte contemporanea dalla Chiesa e poi del desiderio, insoddisfatto negli ultimi vent’anni, di riannodare i fili spezzati che definisce «tentativi di addomesticare l’arte contemporanea, modi per tastare il terreno e verificare la disponibilità degli artisti. La risposta è stata negativa, perché significava un trasferimento dei contenuti. Adesso, invece, l’operazione è più sottile: passare dal figurativo all’astratto, accettare l’astrazione come campo della intensità, della creatività, come simulazione della creazione del mondo attraverso l’arte, ma un’arte in libertà vigilata».
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da Il Giornale dell'Arte numero 332, giugno 2013