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Il lavoro culturale paga?

  • Pubblicato il: 15/04/2018 - 09:03
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Patrizia Asproni

Percorsi formativi protratti spesso oltremisura (…), remunerazioni inadeguate (…). Proliferano  distorsioni nel mondo del lavoro dalle quali il settore culturale sembra interessato più ancora di altri. (…) Nel tempo si è radicato l’equivoco: nell’assunto non dimostrato – né dimostrabile – che il lavoro culturale possa essere svolto, con parità di risultato, a titolo volontario.” Una riflessione di Patrizia Asproni. “Non consola che si tratti di un tema  non solo italiano, come testimonia la recente e poco edificante vicenda che ha riguardato il Victoria&Albert Museum di Londra, che ha ritenuto di poter reclutare con pubblica call una figura curatoriale di alto livello, pescando tra chi avrebbe potuto permettersi di ricoprire il ruolo a titolo gratuito”.

Rubrica di ricerca in collaborazione con il Museo Marino Marini


Da un tempo ormai superiore al decennio la fotografia del mercato del lavoro mostra una scena caratterizzata dalla penuria di occupazione, ma anche dall’abbassamento della sua qualità e dall’inadeguatezza delle remunerazioni, specie per quanto riguarda la fase dell’accesso al mondo del lavoro che interessa soprattutto i più giovani.
Spesso, infatti, anche dopo percorsi formativi protratti spesso oltremisura, per capitalizzare l’attesa di iniziare a lavorare, il pegno che si paga per conquistare una prima collocazione professionale è di accettare una valorizzazione economica davvero minima (o addirittura assente) nel segno del famigerato mantra “fa curriculum”, pur portando in dote all’organizzazione competenze elevate e specialistiche.
 
Proliferano così distorsioni dalle quali il settore culturale sembra interessato più ancora di altri.
La ragione è da ricercare nella tradizionale – obsoleta – concezione secondo la quale la sua natura è strettamente non economicistica e quasi contrapposta a qualsiasi vocazione produttiva: del comparto della Cultura si è storicamente sottinteso che potesse sostenersi, dal punto di vista organizzativo, anche in una quota consistente attraverso il contributo spontaneo e non professionale. D’altro canto, le attualissime questioni che riguardano la sua sostenibilità in un contesto attraversato dalla crisi hanno determinato la pratica, decisamente miope, di tagliare posti di lavoro e iniziative più o meno trasparenti di progressiva sostituzione del lavoro con l’apporto del volontariato, piuttosto che un più saggio e lungimirante investimento sulle professionalità.
 
È proprio qui che nel tempo si è radicato l’equivoco: nell’assunto non dimostrato – né dimostrabile – che il lavoro culturale possa essere svolto, con parità di risultato, a titolo volontario.  Niente di più falso.  Se infatti, come oggi appare indispensabile, si intende stimolare la produttività e la capacità di autosostenersi di un settore, non vi è possibilità di farlo se non scommettendo sulle competenze e quindi su risorse umane adeguatamente qualificate, abbandonando ogni pretesa di sostituirle con profili generici.
 
Non consola che non si tratti di un tema solo italiano, come testimonia la recente e poco edificante vicenda che ha riguardato il Victoria&Albert Museum di Londra, che ha ritenuto di poter reclutare con pubblica call una figura curatoriale di alto livello pescando tra chi avrebbe potuto permettersi di ricoprire il ruolo a titolo gratuito. Ovviamente scatenando una feroce polemica sia fra gli operatori che nell'opinione pubblica e sui social network, costringendo il museo non solo a ritirare l'annuncio, ma a scusarsi pubblicamente per " the huge mistake".
Mentre è chiaro che se da un lato cresce questa tipologia di offerta/non offerta di lavoro/non lavoro, dall’altro chi ha dedicato il proprio percorso di studi e formazione alla cultura con l’ambizione di ricavarne un’occupazione – magari nella non peregrina convinzione che le proporzioni e la qualità del patrimonio culturale italiano potessero rappresentare, anche agli occhi dei policy makers, un asset per la crescita economica e non -  non può che restare quantomeno contrariato di fronte alla pratica istituzionalizzata di vedere la propria competenza rimpiazzata dalla semplice, seppur apprezzabile, buona volontà.
 
  • Pare questo lo spirito della circostanziata protesta di un collettivo di professionisti culturali che hanno interpellato, per esempio, il FAI in merito alle iniziative di apertura speciale dei siti culturali nelle Giornate di Primavera, sollevando – pur nel riconoscimento del pregio di tali iniziative dal punto di vista della promozione del patrimonio e della divulgazione -  alcuni interrogativi sull’impiego del personale volontario, e in generale sulla sproporzione tra il numero dei dipendenti dell’organizzazione e quello dei volontari (229 vs oltre 7mila).

 
In senso costruttivo, poi, il medesimo collettivo ha promosso una proposta legislativa che ambisce a ritoccare in diversi punti la normativa sul settore culturale puntando a smontare il paradigma della sostituzione delle prestazioni e delle figure professionali – specie nel settore pubblico – con contributi e figure provenienti da organizzazioni di volontariato, affidando a queste ultime il ruolo di supporto e in ogni caso non superando mai, in termini di presenza, il numero di regolari dipendenti dell’istituzione culturale interessata. Né tantomeno equiparando il lavoro volontario a quello regolare sul piano organizzativo.
Parimenti, secondo la proposta, compiti specialistici quali conservazione, promozione, valorizzazione, catalogazione, studio e attività educative, andrebbero riservati ai professionisti assunti e l’apertura di musei e siti culturali mai subordinata alla sola ed esclusiva presenza di volontari.
 
Tutto questo non deve apparire, tuttavia, una demonizzazione del genuino e generoso impegno degli appassionati di cultura. Ma qual è allora la combinazione virtuosa tra la possibilità di offrire un contributo utile e giusto e la necessità di arginare la possibilità che questo subentri inadeguatamente all’impiego delle professionalità e delle competenze?
La risposta è una sana integrazione, in cui i livelli di servizio (come appunto l’apertura dei luoghi della cultura) siano garantiti dal “vero lavoro” e non vincolati solo a scelte volontarie e in cui l’apporto di coloro che si rendono disponibili gratuitamente venga capitalizzato in termini di assistenza e supporto alle mansioni affidate ai professionisti. Senza che i volontari divengano, peraltro in assenza delle competenze necessarie, prestatori di lavoro surrogati.
Il prezioso tempo messo a disposizione a titolo volontario dalle persone è piuttosto da considerarsi come una forma di mecenatismo, perché corrisponde a una donazione di valore che va promossa e coltivata. Ma in nessun caso ritenuta succedanea della professionalità, di cui il nostro settore, oggi più che mai, ha bisogno.
 
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