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I numeri e la cultura

  • Pubblicato il: 21/11/2011 - 17:34
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Articolo a cura di: 
Stefania Crobe
ADC – Associazione dei dottori commercialisti e degli esperti contabili

Torino. “Economia e cultura vanno insieme?” Questa interconnessione che fino a qualche tempo fa sembrava essere fantascienza, è stata al centro della giornata di studio “Arte e Cultura per creare sviluppo. Una funzione del dottore commercialista. Beni artistici e opportunità di business”,organizzato a Torino lo scorso 16 novembre 2011 dalla ADC – Associazione dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e dall’Ordine dei commercialisti di Torino, con il sostegno della Fondazione ADC onlus.
Nel senso di precarietà del presente, anche chi si occupa di numeri, riflette sulla cultura come via d’uscita, mettendo a confronto diverse professionalità - economisti, imprenditori, amministratori pubblici, docenti universitari, esperti del mondo dell’arte ed esponenti dello spettacolo
Come ha affermato Vilma Iaria, presidente nazionale dell’ADC: “I commercialisti vogliono offrire contributi di idee e di proposte. Le loro competenze possono e devono crescere nel ruolo di supporto e di guida ad enti e imprese che operano nel settore dell’arte, della cultura e della valorizzazione del territorio”.
Tra i relatori Guido Candela, responsabile dell’Osservatorio Economico Beni Artistici di Nomisma, anticipa i dati di una ricerca  2011 sul mercato dell’arte moderna e contemporanea e sugli effetti che l’attività culturale, sostenendo che “l’arte ha un effetto positivo sul turismo solo se ha una presenza continua. L’industria culturale italiana vale il 4,9% del Pil. Se si somma poi il 3% del Pil del turismo culturale, risulta uno dei settori dell’economia nazionale più rilevanti. Dati che non possono essere ignorati.”

Ma la cultura non serve solo ad incrementare i flussi turistici. Troppo spesso siamo rimasti intrappolati in questo cliché che ha trasformato la nostra storia, le nostre radici, le nostre culture in un’immagine da cartolina dai colori cangianti, tanto perfetta quanto incapace di rivelare l’essenza del nostro paese fatta di osmosi tra arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio, memorie storiche e che viene riconosciuta come “made in Italy”.
Partendo da questi presupposti, Walter Santagata, Professore Ordinario Università degli Studi di Torino, facendo un’analisi della situazione culturale, a livello generale su scala nazionale e nello specifico della situazione torinese, basandosi su giudizi di prospettiva storica, lamenta una “cultura ammalata”.
Quando si parla di cultura, di politiche cittadine, il pubblico di visitatori conta molto - soprattutto sul piano del consenso politico e mediatico – ma ciò che più conta, storicamente, e che sembra essere venuta meno, è la capacità di produrre cultura.
Quando confrontiamo le due politiche, quella della conservazione e quella della produzione, dobbiamo riconoscere che la seconda è prevalente per il fatto che se oggi non si produce cultura, domani non avremo nulla da conservare.” Bisogna produrre nuove culture da trasmettere alle generazioni successive, “è necessario non solo occuparsi del patrimonio esistente, ma promuovere la produzione, e con tutte le tecnologie possibili, dal cinema al design industriale, alla moda, per rinnovare la possibilità di una nuova  Firenze dei Medici...”.
Per non cadere in quella che Levi Strauss chiamava “stazionarietà delle culture, l’incapacità di evolvere”.

E i commercialisti ricorrono ad Alessandro Bergonzoni, per moltiplicare i punti di vista, spiegando con l’emozione la necessità dell’arte.