HUMAN FOUNDATION, 5 ANNI DI IMPATTI SOCIALI. L’ITALIA È PRONTA?
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Rubrica:
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di:
Francesco Mannino
Cosa significa valutare gli impatti sociali? E come farlo nel settore culturale e creativo, soprattutto in presenza di un vigoroso dibattito sul welfare culturale? Se ne è parlato a Roma per il quinto anniversario dell’azione di Human Foundation, con una breakout session dedicata proprio a “L’impatto sociale dei processi creativi”. Abbiamo contribuito alla discussione e ascoltato le voci di molti partecipanti alla giornata.
Secondo qualsiasi dizionario il concetto di “impatto” è collegato all’urto, al cambiamento repentino di stato in seguito ad un fatto traumatico. L’impiego di questo termine nell’osservazione dei fenomeni sociali è proprio legato a capire in che modo o misura una determinata azione produce un cambiamento rilevante per le persone o per le comunità, di qualunque “segno” esso sia.
Per Stefano Zamagni, Paolo Venturi e Sara Rago (Impresa Sociale, 2016) l’impatto sociale è «il cambiamento sostenibile di lungo periodo (positivo o negativo; primario o secondario) nelle condizioni delle persone o nell’ambiente che l’intervento ha contribuito parzialmente a realizzare, poiché influenzato anche da altre variabili esogene (direttamente o indirettamente; con intenzione o inconsapevolmente)». Diviene pertanto necessario poter comprendere nel migliore dei modi tale cambiamento di lungo periodo, al fine di orientare le grandi scelte, quelle che si fanno quando si governa un Paese, un territorio o anche una singola ambiziosa azione sociale (impresa profit o non profit, o azione civica che sia). Proprio per questo motivo anche in Italia il dibattito sulla misurazione o valutazione degli impatti sociali delle azioni pubbliche o delle imprese sociali (e culturali, ma ne scriveremo più avanti) diventa sempre più diffuso, rispondendo ora a bisogni di razionalizzazione (riduzione?) dei costi sociali del welfare pubblico, ora alla possibilità di poter contare su sistemi di riconoscimento del lavoro delle organizzazioni non più sulla base di mera rendicontazione (finanziaria o esecutiva) ma anche sulla loro capacità di costruire concretamente nuovi elementi di benessere sociale.
Di questo si è discusso il 3 aprile a Roma, durante l’evento “Human Foundation: cinque anni di impatto”, svoltosi presso Area81, spazio rigenerato da Fondazione Exclusiva. Il senso dell’incontro è stato introdotto da Giovanna Melandri, Presidente di HF: «Se dovessi provare a sintetizzare il nostro lavoro prenderei a prestito un'immagine dall'ingegneria meccanica: la "galleria del vento". Mi piace pensare, infatti, che Human sia un luogo in cui testare la reale tenuta di strada di modelli sociali innovativi. Intendiamo mettere a disposizione dei decisori pubblici delle evidenze sull’efficacia degli interventi e delle politiche, per rendere scalabili esperienze che hanno prodotto risultati concreti. E’ un disegno tracciato in questi cinque anni con pazienza e umiltà, guardando alla valutazione come ad uno strumento in grado di favorire la crescita delle politiche e delle imprese sociali. Human nasce per canalizzare risorse finanziarie generative verso la dimensione sociale».
Risorse finanziarie sensibili, quindi; o anche «capitali pazienti», dotati di quella visione del futuro in cui la sola massimizzazione dei profitti economici non può che trovare un inciampo in sé stessa, se ad essa non corrisponde una crescita sociale delle comunità di riferimento.
Ma il “sistema Paese” è pronto ad accogliere una pianificazione strategica del benessere delle persone e delle comunità che, a fronte di una riduzione delle risorse economiche a disposizione (grande tema ancora tutto da dipanare con laicità), cominci a valutare la vera efficacia ed efficienza delle azioni progettate, senza mascherare così il brutale economicismo delle azioni di spending review?
Su questo aspetto Stefano Zamagni, intervenuto nel corso della mattinata, ha fatto chiarezza. Secondo il professore bolognese infatti il grande limite per l’affermazione dell’approccio della valutazione degli impatti sociali tra le organizzazioni non profit, centrali nella articolazione del welfare italiano, si articola in tre nodi principali. Il primo sta nell’erogatore pubblico di risorse, che coincide con chi orienta le scelte strategiche e quindi deve decidere cosa finanziare e cosa no: se infatti la valutazione dei risultati si limita a verificare che gli output («i prodotti, beni capitali e servizi risultanti da un intervento, ovvero, i risultati immediati delle attività svolte dall’organizzazione») corrispondano ai “protocolli” redatti ex ante, nonché ad una esattezza contabile, mancherà sempre la capacità di cogliere il cambiamento, con un forte orientamento dei valutatori a guardare al passato di quei protocolli e non al presente di ciò che è avvenuto nel frattempo grazie all’azione sostenuta, o alla innovazione intrinseca dell’idea progettuale. In secondo luogo la finanza privata: in questo caso, quando si deve sostenere un progetto se ne valutano soprattutto i collaterali, ovvero la capacità di garantire il puntuale pagamento del debito in caso di insuccesso, con altre risorse (immobiliari o altro) messe a garanzia all’inizio della operazione dal richiedente. Ancora una volta si valutano fattori esterni al progetto in sé, ovvero le “spalle coperte” di chi se ne farebbe carico. Infine Zamagni ha indicato il mondo universitario come corresponsabile di una visione orientata alla profittabilità delle imprese in senso economico che, per un perverso effetto collaterale, avrebbe convinto il Terzo Settore a sottrarsi alla valutazione strutturata dei propri impatti sociali in quanto utili solo a chi deve raggiungere il massimo profitto. Zamagni ha rassicurato i partecipanti che la Riforma del Terzo Settore, in atto con la imminente approvazione dei decreti attuativi, introdurrà anche in questo mondo l’articolata strumentazione della valutazione, così da aiutare le organizzazioni non profit ad intraprendere un nuovo approccio metodologico e progettuale riguardante il proprio ruolo. E ai “conservatori” Zamagni ricorda che “la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non la custodia delle ceneri”.
L’incontro ha ospitato alcune breakout sessions pomeridiane, tra cui “L’impatto sociale dei processi creativi”, tema molto caro a Il Giornale delle Fondazioni. In merito abbiamo raccolto alcune battute sul rapporto nel settore culturale e creativo tra i principali protagonisti dell’evento, prima di ascoltare i protagonisti della sessione pomeridiana. La domanda per tutti è stata la stessa: in che modo valutiamo l’efficacia sociale di un progetto culturale? Tale valutazione può convivere con quello che sembra essere un approccio quantitativo alla misurazione del settore culturale, basato sui fatturati annui e sul numero di visitatori/partecipanti ad iniziative o luoghi della cultura?
Secondo Giovanna Melandri, il mondo della cultura (quello che gestisce i luoghi, i servizi ma anche la produzione creativa) deve essere misurato con un set di dati “tangibili” affiancato da altrettanti intangibili, ”contano l’aumento della domanda e dell’offerta, l’accesso ai luoghi, la fruizione, ma anche la crescita di coscienza critica e autonoma dei partecipanti”. Non si tratta, per il Presidente di Human Foundation, di una contrapposizione tra indicatori, ma di una nuova convivenza tra essi. “La formazione di pubblici diversi (esclusi, lontani) è un obiettivo sociale, ma per perseguirlo servono nuove risorse, integrate e ibride: pubbliche ma anche private, come d’altra parte in tutta la dimensione sociale.”
Carlo Borgomeo, Presidente di Fondazione CON il Sud, soggetto erogatore che sostiene tanti progetti di riuso dei beni comuni, entra ancor più nel merito, rinunciando volentieri al concetto di misurazione degli impatti, a favore del più adatto termine di valutazione: “la sostenibilità economica di un progetto culturale è importante per comprenderne la concretezza anche dopo la fine del contributo erogato, ma di esso è indispensabile intuire, comprendere e valutarne l’incidenza nella valorizzazione delle identità comunitarie di un territorio, affinché esso sia soprattutto una leva sociale, un agente di cambiamento”. Eppure Borgomeo ammette che ancora non è facile valutare in maniera completamente esaustiva, e che ancora molto deve essere fatto in termini di strumenti e indicatori. Ma ciò è necessario perché è chiaro che il vecchio welfare non tornerà, e che bisognerà riprogrammarlo con un ruolo dei decisori pubblici che sarà nuovo, eppure indispensabile.
In questo senso Fabio Mazzeo, Presidente di Fondazione Exclusiva ci chiarisce che “la valutazione degli impatti sociali in particolar modo nel settore culturale non è una scienza esatta, ma una materia in divenire, con una metrica (strumenti) che va adattata di volta in volta. Il lavoro di Exclusiva è quello appunto di produrre ricerca, formazione e innovazione sociale, in cui la creatività sia interpretata come chiave per risolvere problemi concreti): un processo che si completa con il valutare e monitorare il grado di riuscita e di soddisfazione dei bisogni intercettati in origine”. Un approccio “per rapporti umani”, basato sul dialogo, sul monitoraggio, e su un vero e proprio osservatorio sul talento.
Ermete Realacci, Presidente Fondazione Symbola, ci ricorda che il problema dell’Italia non è la presenza di competitività (che c’è ed è quantificabile), ma il fatto di sapere (o meno) valorizzare quel “fattore impalpabile” (e forse pertanto non facilmente misurabile) che fa la differenza del nostro Paese. Symbola ha evidenziato che tale fattore sia composto da un lato dalla propensione alla produzione creativa di qualità (indagata dal Rapporto “Io sono cultura”), più genetica che politica: trovare le radici di questo gene (o genio) è la chiave per comprendere l’innovazione; dall’altro dalla capacità di produrre coesione (indagata dal Rapporto “Coesione è competizione”), che evidenzia quelle aree di impresa italiana basate sulla generazione di rapporti sociali solidi, interni alle imprese, ma anche con i territori e con i soggetti chiave di essi.
Con queste premesse abbiamo partecipato alla sessione pomeridiana dedicata agli impatti sociali dei processi creativi, a cui hanno preso parte come speaker Daniela Bianchi, Consigliera Regione Lazio, Roberto Covolo, Project Manager di Ex Fadda, Luca Fois, Creativo e Docente di Design al Politecnico di Milano e Michele Trimarchi, Economista della cultura, Tools for culture. Alla networking session invece sono stati presenti Maria Pia Adenoia-Responsabile Communication Services Network ENEL, Andrea Billi-Progetto ACTORS OECD, Claudio Bocci-Direttore Federculture, Annalisa Cicerchia- Docente di Management delle imprese creative - Università di Roma Tor Vergata, Alberto Improda- Presidente del Centro Studi e Ricerche Improda, Andrea Masala-Responsabile rapporti istituzionali Arci Roma, Davide Paterna-Direttore Open House Roma, Marco Ratti-Responsabile Knowledge Center Banca Prossima, Giorgia Turchetto-Segretario Generale Fondazione Exclusiva, Leonardo Zaccone-Founder Roma Makers e moderato da Agostino Riitano (Fondazione Exclusiva) e Francesca Panunzi (Human Foundation).
Secondo l’economista Michele Trimarchi alcune caratteristiche del settore culturale sono infungibili, così insostituibili che potremo valutarle con strumenti e tempi ancora tutti da progettare. Si può valutare l’impatto di una biblioteca o di un teatro con gli strumenti di un centro commerciale? Forse, continua Trimarchi, è rilevante seguire la percezione che i gruppi sociali hanno del cambiamento prodotto dai fatti culturali, con calma e perseveranza. Trimarchi invita a pensare il welfare culturale con un approccio dialettico, progressivo, capace con lentezza e leggerezza di comprendere il suo portato sociale, lontano dalle ansie da prestazione produttiviste, ma concentrato sul ruolo che esso deve svolgere per i contesti di riferimento.
Annalisa Cicerchia è dell’avviso che proprio il ricorso ai soli indicatori quantitativi rischia di ridurre la potenza vera del settore culturale e creativo in termini di impatti sociali, rischiando paradossalmente di spingere piuttosto alla ricerca di soluzioni “magiche” e mai concrete. Quanto valgono due ore di danza in un museo per una persona affetta dal Parkinson? Forse poco da un punto di vista quantitativo, ma il massimo da un punto di vista umano.
Claudio Bocci, Direttore di Federculture, ragiona sulle metriche di accountability: quando una pubblica amministrazione deve affrontare la questione della validità di una scelta strategica in campo culturale, non può limitarsi alla mera rendicontazione economica: è necessario che essa di doti di strumenti di valutazione complessiva del progetto, della sua capacità di efficacia sociale e di durevolezza. Qui Federculture immagina che la auspicabile definizione di impresa culturale possa immettere nel settore elementi di maggiore stabilità e agibilità.
Chiudiamo questa rassegna di interventi (che non è qui possibile riportare tutti) con la voce di Roberto Covolo, speaker di apertura della sessione. Covolo, impegnato nella gestione di Ex Fadda. un esperimento pugliese per la realizzazione di un nuovo spazio pubblico per l’aggregazione, la creatività e l’innovazione sociale, si dichiara da subito interessato a comprendere cosa il loro lavoro produce tra le persone e le comunità di riferimento, ma allo stesso tempo ammette di essere “una pratica in cerca di teoria” per ciò che concerne la valutazione degli impatti, più “interessata a valorizzare il capitale umano locale attraverso forme di welfare sussidiario generativo”, che a quantificare schematicamente presunti risultati oggettivanti. Operazione tra l’altro onerosa, che spesso le organizzazioni culturali non possono intraprendere. Covolo ragiona più su forme di “valutazione di comunità”, per prendere in considerazione le forme di reputazione che una organizzazione crea intorno a sé a seguito delle proprie azioni (“al bar o dal barbiere, per intenderci”), mediante un approccio di prossimità con le persone, e magari capendo quanto il procedere delle attività messe in cantiere via via coincida con il senso del possibile manifestato prima che esse prendessero forma, o in altri termini, se Ex Fadda riesca a “produrre un cambiamento nella traiettoria della vita delle persone che entrano in contatto con quella esperienza”. Infine Covolo immagina una valutazione “tra pari”, non dall’alto della ricerca accademica ma tra operatori impegnati nelle stesse imprese seppur con le ovvie differenze tra l’una e l’altra.
Una via democratica alla valutazione dell’impatto sociale che conclude una giornata ricca di approfondimenti e visioni grazie all’azione di Human Foundation, ma che particolarmente riporta il dibattito sulla domanda di partenza, ovvero perché valutare gli impatti e con quali strumenti, magari tenendosi lontani da ansie da prestazione e da retoriche efficentiste, a maggior ragione se esse rischiano di portare a interventi politici paradossalmente orientati al taglio indiscriminato di diritti sociali, come spesso il dibattito sull’innovazione sociale ha fatto soprattutto nei paesi ispirati da politiche neoliberiste. Perché si formi, invece, un ragionamento serio e strutturato su cosa il settore culturale stia producendo nelle dinamiche sociali del Paese, e come stia contribuendo a tenerlo insieme e coeso, questo Paese occorre un ragionamento che porti al riconoscimento del welfare culturale come una realtà evidente e sempre più diffusa; frutto ancora di politiche isolate e sporadiche (Sacco, 2017) ma – grazie ad un dibattito sempre più serrato e scientificamente consolidato - in cerca di metriche, di linguaggi comuni e di strumenti che ne possano validare l’efficacia nella produzione di benessere diffuso e perdurante.
Bibliografia:
S. Zamagni, P. Venturi, S. Rago, Valutare l'impatto sociale. La questione della misurazione nelle imprese sociali, Rivista Impresa Sociale, 8.2016
P. L. Sacco, Appunti per una definizione di welfare culturale, Il Giornale delle Fondazioni, 3.2017
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