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HOUSING GIULIA. IL SOCIALE E LA BELLEZZA

  • Pubblicato il: 02/11/2015 - 16:11
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NOTIZIE
Articolo a cura di: 
Patrizia Asproni

Sociale e Bellezza. Parola di Juliette Colbert, che i torinesi meglio conoscono come Giulia di Barolo, la nobildonna che nel diciannovesimo secolo insieme al marito Carlo Tancredi Falletti diede il via alla più longeva, incisiva e avanguardistica opera di welfare di comunità che la città (e non solo) abbia conosciuto.
 
Nel pensiero della Marchesa, l’accoglienza era il primo elemento: la “casa” come luogo eletto, prima di tutto, per la ricostruzione della dignità della persona e a sostegno della sua capacità di progettare. Il luogo a partire dal quale doveva promuoversi quel miglioramento della qualità della vita che si persegue, credevano fermamente i Barolo, attraverso la cultura e l’educazione.
 
Ancora oggi, la visione di Giulia mostra tutta la sua forza ed è a fondamento del progetto sociale di Housing Giulia, promosso, insieme ad altri, dall’Opera Barolo. Ma non si realizzerebbe pienamente se il progetto non accogliesse al suo interno, come strumento per realizzare il "sociale”, l’elemento della “Bellezza”.
Per questo ad Housing Giulia ha lavorato David Tremlett, artista britannico ora alla Tate Modern, che insieme a Ferruccio Dotta ha realizzato per gli ambienti comuni della residenza il wall-painting “Rhythm & Form”.
 
È così che nell’accoglienza dei futuri ospiti, attraverso l’arte, si concretizza l’ideale di Giulia: non di semplice assistenza ma di sviluppo, non di carità ma di promozione della crescita umana, nella città e per la città.
 
Alla sua morte, la Marchesa destinò l’intero patrimonio di famiglia all’Opera Barolo, di fatto permettendo all’ente di arrivare ai giorni nostri. Alcuni secoli prima di lei, Anna Maria Luisa Medici, con il “Patto di famiglia” introdotto nel suo testamento alla città, permise che quello che oggi è il patrimonio degli Uffizi restasse a Firenze, contribuendo di fatto a preservarne l’identità.
Donne illuminate e lungimiranti, che hanno fatto pratica del loro pensiero, lasciando in eredità alle generazioni che le hanno seguite i germi del benessere e della coesione sociale, nel nome dell’arte e della cultura.
 
Esiste dunque una “vocazione rosa” alla filantropia? Forse. Di certo (come ben evidenzia il libro sul mecenatismo al femminile di Elisa Bortoluzzi recensito ieri sul Sole24Ore da Pier Luigi Sacco) in queste - e molte altre - donne è presente una visione specifica fatta di pratica concreta, propensione all’impegno e al coinvolgimento diretti e, più di tutto, pensiero trasversale, in grado di coniugare bellezza e benessere collettivo, welfare e cultura.
Ci si può interrogare sul fatto che questo sia o meno l’esito di evoluzioni socio-antropologiche, ma quel che è certo è che il grado di competenza che in questo senso le donne sono in grado di esprimere risponde ad un bisogno sociale, ma anche economico. E, oggi come non mai, all’urgenza di una visione di lungo periodo.
 
da Repubblica Torino, 2 novembre 2015