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Hassan Khan sogna in bianco e nero

  • Pubblicato il: 07/12/2012 - 10:21
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Lidia Panzeri
Hassan Khan in concerto a Venezia

Venezia. Ultimo appuntamento per il 2012 con gli artisti che espongono alla fondazione François Pinault. A chiudere il ciclo l’artista egiziano, ma nato a Londra nel 1975, Hassan Khan, una presenza costante nei maggiori musei e nelle mostre internazionali: da Manifesta 13 (2012) alle biennali di Gwangju (2008), di Sydney (2006) e di Istanbul (2003). All’ultima Biennale di Venezia del 2011 era stato nominato presidente della giuria.
Khan espone il video «Jewel» nella mostra «La voce delle immagini», in corso a Palazzo Grassi fino al 13 gennaio.
L’incontro con il pubblico veneziano è stato duplice: una conversazione con Andrea Lissoni, curatore di HangarBicocca, a Punta della Dogana (il 26 novembre) e un concerto al Teatro Fondamenta Nuove, uno spazio d’avanguardia (il 27). È stata in quest’ultima occasione che l’artista, con la sua prestanza fisica, ha rivelato le sue eccezionali doti di performer. Quattro brani tra i più famosi del suo repertorio, che spazia dalla musica tradizionale chaabi, rielaborata al sintonizzatore, a quella elettronica, spesso frutto di ibridismi, con momenti di intenso lirismo alternati a esplosioni di grande vitalità collettiva.
Del resto la musica e la performance sono elementi costitutivi dell'arte di Khan. A cominciare proprio da «Jewel»: due uomini che danzano davanti a un video dove nuota un pesce pelagico. È da quest’opera, definita da Caroline Bourgeois, curatrice della mostra, «surreale», che prende inizio il dialogo con Andrea Lissoni.

Qual è l’origine di «Jewel»?
Un sogno a occhi aperti: ero in taxi e qualcuno in strada ha acceso una lampadina, con luce intermittente. C’erano i rumori della strada e la musica. Ho registrato tutto. Poi ho buttato via tutto. Per farne un’opera d’arte, con un procedimento molto complesso.
L’uso della pellicola di 35 mm in bianco e nero?
Per prendere le distanze dalla realtà, a differenza dell’uso del cellulare. Una presa di distanza ribadita, anche, dall’ambientazione in una stanza grigia.
A proposito di spazio, come riesce a dare l’idea di profondità?
Grazie allo schermo sospeso verso l’infinito, con il pesce che man mano si fossilizza, trasformandosi in un simbolo, che segna l’enorme distanza di un tempo arcaico, spiazzando le normali coordinate spazio temporali. Un modo di uscire dalla ripetizione, non per creare un effetto, ma per indurre a un nuovo significato.
Poi ci sono due uomini che danzano.
Persone che si muovono al ritmo della musica ma anche lo creano.
Sembrerebbe esserci una differenza sociale tra i due danzatori.
No, sono entrambi degli emarginati; uno è un immigrato dalla campagna.
In un altro suo video ricorre all’uso del cellulare.
Lo spunto è un litigio in strada per una questione di soldi. È un modo di scoprire le persone attraverso un fatto banale. Ho girato la scena per tre ore, con attori, senza rivelare loro in precedenza che avrei usato il cellulare, uno strumento pratico, ma privo dell’aura della telecamera. Anche in questo caso il film è in bianco e nero per non distrarre lo spettatore. Nell’editing la scena dura 11 minuti e ho chiesto agli attori di doppiarsi. L’audio del cellulare è, infatti, di scarsa qualità.
Ultimamente introduce spesso degli oggetti.
Come a Kassel con il nodo  di vetro intrecciato. Al posto di un mostro, come in «Jewel»,  un oggetto noto come questo nodo o la colonna di ferro, esposta a Instanbul, e tratta dalla ringhiera di un balcone. Oggetti che rimandano a un mondo interiore, alla memoria, messi a confronto con dei video.

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da Il Giornale dell'Arte , edizione online, 4 dicembre 2012