Per guardare ci vuole orecchio
Venezia. Dal 7 giugno al 3 novembre la Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina ospita la mostra «Art or Sound»: in un percorso dal Cinquecento ai giorni nostri più di 180 oggetti e opere d’arte indagano l’intima relazione tra musica e arti visive. La sezione storica della mostra si propone di rileggere lo strumento musicale come entità plastico-visiva, come oggetto artistico capace di generare suono. Lo dimostra la varietà di manufatti preziosi esposti, come le chitarre e i violini seicenteschi in marmo intarsiato di Michele Antonio Grandi e Giovanni Battista Cassarini, provenienti dalla Galleria Estense di Modena, o la lira-chitarra dorata prodotta dall’Atelier Pons nel tardo Settecento. Tra gli automi musicali figurano i preziosi orologi settecenteschi a forma di gabbietta degli svizzeri Jaquet-Droz e Henri Maillardet, e il pirofono, uno strumento a gas ideato nel 1870 da Frédéric Kastner in grado di produrre, se suonato, segnali luminosi. Il percorso prosegue con i contributi dell’avanguardia artistica novecentesca, che ha il merito di aver introdotto il rumore nella pratica musicale: non mancano, a proposito, gli «intonarumori» di Luigi Russolo e il «Ciac-Ciac» di Giacomo Balla, realizzati tra il 1913 e il 1914. Fondamentale in questo senso è la figura del compositore e artista statunitense John Cage, del quale sono esposte le partiture originali di «Water Walk» e «Variations I», elaborate tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. In relazione alla seconda metà del Novecento, in questa mostra curata da Germano Celant, l’intreccio tra arte e musica è illustrato in mostra dai dispositivi musicali dei Nouveaux réalistes, basati sulla distruzione e l’assemblaggio fortuito di elementi, dai pianoforti di Artschwager e Beuys e da opere come «Oracle» (1962-65), l’environment sonoro di Robert Rauschenberg composto da oggetti di recupero e materiali d’uso comune al cui interno è incorporato un sofisticato sistema audio capace di catturare le frequenze radio disponibili nel luogo in cui è esposto.
Merita attenzione la sezione dedicata agli artisti contemporanei: dal metronomo di Martin Creed («Work No. 97», 1994) agli strumenti di Pedro Reyes fabbricati con le armi confiscate dall’esercito messicano ai cartelli della droga («Imagine», 2012); dal tamburo di Anri Sala («A Solo in the Doldrums», 2009), in cui il movimento delle bacchette viene attivato dalle vibrazioni generate da sonorità non udibili dall’orecchio umano, all’assemblaggio scultoreo di Haroon Mirza («Lo-Tech Proposed», 2006 e 2014), che traduce il tentativo dell’artista britannico di amplificare il suono prodotto dai flussi di corrente elettrica. Diverse le opere interattive, che richiedono un coinvolgimento diretto del visitatore per esprimere il proprio potenziale sonoro. È il caso di «Marble Sonic Table» (2011) di Doug Aitken, un tavolo-batteria di marmo dotato di bacchette che il pubblico può suonare liberamente, o di «Crossfading Suitcase» (2004) di Loris Gréaud, un dispositivo basato sul principio della sincroterapia tramite il quale il visitatore, ricevendo in ciascun orecchio sollecitazioni sonore di diverse frequenze, viene indotto a un «sonno a occhi aperti». Nella selezione delle opere, Celant non ha dimenticato di includere quella che ha ispirato le sperimentazioni sonore delle generazioni successive: il mitico «Handphone Table» (1978) di Laurie Anderson, un tavolo su cui è possibile ascoltare musica attraverso il proprio corpo, appoggiandovi sopra i gomiti e portando le mani alle orecchie.