Geografia delle ossessioni
Venezia. Se si fa notare a Massimiliano Gioni che la mostra centrale della Biennale di Venezia 2013, da lui curata, ha qualche analogia con quella del suo lontano predecessoreJean Clair nel 1995, che Michael Kimmelman stroncò su «The New York Times» definendola «morte a Venezia», lui non se ne ha a male, anzi. Come il critico francese, il giovane direttore della 55ma edizione dell’Esposizione internazionale di arti visive ha impresso alla sua rassegna un taglio tra l’antropologico e il patologico. «Il Palazzo Enciclopedico», questo il titolo della mostra, è una gigantesca geografia delle ossessioni di artisti professionisti e molti outsider, i «savants» che, folgorati da una visione divina, da uno shock psicologico o da una crisi esistenziale, votano se stessi a dar forma alle loro visioni, accarezzando il sogno di inglobare nelle loro opere il mondo intero, in tutti i suoi risvolti. Un’utopia, che condanna irrimediabilmente i suoi cultori alla malinconia o alla follia, che nei secoli ha contagiato molti artisti.
Uno dei numi tutelari di questa mostra, che annovera un numero record di autori defunti, potrebbe essere Giovanni Battista Piranesi, che nel suo smisurato sogno (tipicamente settecentesco, enciclopedico ma anche preromantico) di raffigurare ogni sasso o monumento antico esistente in Roma, dichiarò: «Credo che se mi si ordinasse il progetto di un nuovo universo, avrei il folle coraggio di intraprenderlo».
Visionari di ieri e di oggi
La visionarietà è il tratto che maggiormente distingue da quella di Jean Clair la mostra di Gioni, che si apre nelle sue due sezioni al Padiglione Centrale ai Giardini con i disegni di Carl Gustav Jung e all’Arsenale con la maquette del «Palazzo Enciclopedico» progettato negli anni Cinquanta dal dilettante italoamericano Marino Auriti, che vagheggiava un ciclopico museo capace di contenere tutto il sapere umano. Ma anche Gioni, come Jean Clair, punta su un tratto marcatamente museale. Il suo predecessore, non senza polemiche, voltò le spalle alle sedi canoniche della Biennale per allestire la sua mostra a Palazzo Grassi; il giovane curatore italiano, analogamente, «cancella» lo spazio fortemente caratterizzato dell’Arsenale foderando le archeoindustriali Corderie con asettici pannelli bianchi e tramuta il Padiglione Centrale in una sequenza di sale tematiche, in modo tale che, anziché a Venezia, il visitatore potrebbe pensare di trovarsi in qualsiasi Kunsthalle europea.
Ma Jean Clair sostenne la sua costruzione curatoriale e scandì le numerose stanze a carattere documentario a suon di capolavori, da Picasso a Bacon, da Fontana a Morris. Gioni, invece, gioca tutte le sue carte sull’accumulo tassonomico di exempla tutt’altro che illustri o, nel caso di autori-superstar, mostrandone i versanti meno noti: ne sono esempi, alle Corderie, la bella sezione che raccoglie la collezione privata di Cindy Sherman, comprensiva di album fotografici dedicati alle scappatelle transessuali di alcuni newyorkesi negli anni Settanta, la vampiresca scultura «Papa nero e pecora nera» di un ventinovenne Miroslaw Balka, insospettabilmente surrealista, o, ai Giardini, il «Passport» di Carl Andre, sorta di libro d’artista datato al 1960 nel quale l’austero minimalista rivela un cuore byroniano e romantico. Sono autentiche «chicche» che solo a tratti, tuttavia, ravvivano la ripetitività della mostra (aspetto evidente soprattutto nel Padiglione Centrale) che si presenta come un catalogo compilato con intelligenza ma anche, a volte, con un certo compiacimento da «primo della classe».
La sindrome dell'accumulo
E se nella pittura dei dilettanti, categoria osannata dalla mostra, l’ingenuo utilizzo di troppi colori finisce per produrre uno stanco effetto grigio-sporco, allo stesso modo l’enfasi sull’accumulo enciclopedico in una mostra dà origine a un sostanziale azzeramento, nel quale diventa difficile godere dei necessari punti forti, pure presenti tra le opere degli oltre 150 espositori. È come se Gioni si fosse lasciato contagiare dalla sindrome accumulativa dei fratelli Collyer, citati in catalogo in un saggio di Christopher Turner, due newyorkesi nella cui abitazione ad Harlem, nel 1947, la polizia rimosse 130 tonnellate di rifiuti e cianfrusaglie raccolte in trent’anni di vita. Eppure, anche nel mare magnum di opere d’arte vere o presunte stipate da Gioni nelle due sedi della mostra, non mancano sale straordinarie, come la «Wunderkammer» che alle Corderie accoglie esempi di erotismo surrealista, da Bellmer aCarol Rama; oppure, al Padiglione Centrale, il labirintico «archivio» di 150 piccole sculture modellate in creta da Fischli e Weiss tra il 1981 e il 2012, tentativo di un’aneddotica e arguta catalogazione del mondo, tra quotidianità ed eventi epocali (micidiale la formella con canna di fucile che sbuca da una finestra e intitolata «22 novembre 1963», data dell’uccisione di John Kennedy); o, nella stessa sede, il «cabinet de curiosités» con la collezione di minerali di Roger Caillois, all’insegna della sua interpretazione visionaria della scienza. E ancora: la collezione di bambole realizzate con impressionante e feticistica precisione anatomica del fotografoMorton Bartlett, che così intendeva crearsi, dopo il trauma infantile dell’orfanatrofio, una «famiglia parallela», o la raccolta di 387 modellini di edifici creati con inquietante eppure ludica meticolosità da un impiegato delle assicurazioni austriaco, tale Peter Fritz, una sorta di inconsapevole precursore dei coniugi Becher.
Della serie...
La serialità, uno dei tratti distintivi dell’arte contemporanea, è l’ossessivo filo conduttore di tutta la mostra, un terreno nel quale si incontrano professionisti e autodidatti: ecco la mappatura dell’azzurro del cielo composta da KP Brehmer accanto ai «cenotafi» ideati come prospetti architettonici nello stile dell’architettura effimera delle Esposizioni Universali daAchilles G. Rizzoli, oscuro disegnatore tecnico, uno dei quali concepito come trasfigurazione della figura materna, cui l’autore era morbosamente legato. Ecco la catalogazione delle acconciature femminili nigeriane nelle foto di J.D. ’Okhai Ojeikere e l’«erbario» fotografico raccolto da Christopher Williams, le forme vegetali plasmate da Roberto Cuoghi e i surreali e contorti tronchi nei collage di Patrick Van Caeckenberg. La zoologia fantastica e non nelle statuine di Levi Fisher Ames, figlio di agricoltori della Pennsylvania che con quel suo circo in miniatura vagava per gli Stati Uniti dell’800, è abbinata al bestiario di Christiana Soulouispirato a Jorge Louis Borges e ai 367 disegni di José Antonio Suárez Londoño dedicati ai diari di Kafka.
L’allestimento per analogie spesso degenera nello stucchevole, proprio come lo sono certi allestimenti tematici dei musei dove, facendo credere che le «Ninfee» di Monet abbiano anticipato il dripping di Pollock, si strizza l’occhiolino al pubblico desideroso di analogie fasulle. E c’è da giurare che qualche professore di storia dell’arte in gita alla Biennale quest’anno farà notare ai suoi annoiati studenti che Rudolf Steiner era come Joseph Beuys e viceversa, dal momento che entrambi, per spiegare le loro teorie, disegnavano splendidi schemi alla lavagna. E stucchevoli, alla lunga, si rivelano, nel Padiglione Centrale, le onnipresenti elaborazioni grafiche e pittoriche a sfondo generalmente religioso o esoterico dei vari Crowleye Harris, Schröder-Sommerstern, Guo Fengyi (un ex operaio cinese convertito alla pittura come pratica terapeutica per la sua artrite), della spiritista svedese Hilma af Klint, della dentista praghese Anna Zemankova, dell’ex marinario, poi internato in un ospedale psichiatrico brasiliano, Arthur Bispo do Rosário, della guaritrice svizzera Emma Kunz ecc., intervallate qua e là da tocchi «etno» come una suite di disegni tantrici, gli ex voto del Santuario di Romituzzu o le bandiere vudu haitiane.
Poi ci sono gli outisider che credono di essere artisti o viceversa (di qui, tra gli altri esempi, l’«altarino» eretto nel nome di Marisa Merz) o di artisti che semplicemente fingono di esserlo, come la celebratissima e molto snob Trisha Donnelly, che forse a corto di idee ripresenta all’Arsenale, nello stesso spazio di due anni prima, la medesima opera: autrice e curatore si affannano a spiegare che è un modo per contestare la psicosi da novità o da «evento» che accompagna i visitatori di ogni Biennale. Non meno insopportabile, nei pressi, il finto trasgressore John Bock, mentre il brasiliano Paulo Nazareth se la cava con un puerile accumulo di prodotti alimentari intitolati, com’è d’uso nell’industria del cibo, ai santi cui è devota sua madre, altro, l’ennesimo, esempio di collezione-catalogazione.
Ansia da catalogazione e mania di onniscienza
E mentre, nello spazio dell’Arsenale all’aperto, un ignaro fotografo scattava fotografie a raffica all’involucro architettonico (griffato Alvaro Siza) che contiene il «teatrino» in cui l’attore Marco Paolini recita i suoi monologhi, pensando che si tratti di una scultura di Giulio Paolini, arrivava la notizia dei Leoni d’Oro. Oltre a quelli alla carriera conferiti a Marisa Merz e a Maria Lassnig, molti si aspettavano un premio a Ryan Trecartin, autore del coup de théâtre alla fine della Corderie, con una gigantesca (e splendida) triplice installazione video dedicata alla bulimia da intrattenimento nel trionfo dei reality show televisivi: lo spettatore può accomodarsi sulle surreali sculture-sedili predisposte dall’artista. Invece la giuria sceglieva Tino Sehgal, performer molto amato da Gioni e dal suo mentore (e predecessore, nel 2003) Francesco Bonami. Gli attori di Sehgal, nel Padiglione Centrale, inscenavano una specie di litania orientale il cui unico legame con il tema della mostra è l’ossessività, in questo caso quella dei mugolii degli «oranti». Il premio a Sehgal è del resto una delle poche concessioni allo star system dell’arte in un disegno curatoriale che ha accuratamente evitato la presenza di opere inutili o scontate, quelle che fanno da vetrina alle gallerie finanziatrici dei progetti dei loro artisti.
Ora che la Biblioteca di Babele preconizzata da Borges si è realizzata con internet e nell’era dell’informazione compulsiva in tempo reale, Gioni ha creato la sua enciclopedia visiva dedicandola alla mania dell’onniscienza e all’ansia da catalogazione, nel nome di Aby Warburg o del «museo senza muri» di Malraux. E se all’università gli studenti che non hanno idee forti o innovative producono tesi compilative, il cui pregio, quando c’è, si ferma alla completezza della documentazione raccolta, anche Gioni non prende posizione: si limita a raccogliere, collezionare e documentare, attingendo, quasi sempre con competenza e inventiva, dall’immenso repertorio che la civiltà dell’immagine mette a disposizione di chiunque.
Il ‘900 ha celebrato l’epica dei critici anticipatori e militanti se non creatori di tendenze, avanguardie e movimenti; gli anni Duemila sanciscono, sino a ora, la sparizione del critico a favore del curatore-demiurgo che, in quanto tale, non è creatore ma devoto ordinatore.
da Il Giornale dell'Arte, edizione online, 4 giugno 2013