Focus Impresa Culturale. Imprese culturali e creative alla ricerca di definizione
Un primo commento dalla prima Conferenza Nazionale sulle imprese culturali - tema al centro dell’impegno di numerosi enti della filantropia istituzionale- organizzata a L’Aquila da Federculture, AGIS, Alleanza delle Cooperative e Forum del Terzo Settore che parte dalla confusione sotto il cielo, con perimetri in continua evoluzione, nonostante il vasto e irrisolto dibattito presente in Europa: di cosa stiamo parlando? “Non è un semplice e ozioso vagabondaggio linguistico e semantico bensì lo scacchiere su cui si gioca la partita dei fondi europei.” Un settore di peso economico rilevantissimo e di crescente potenziale di sviluppo, “enorme, sconosciuto e sottovalutato” che va “sdoganato”. Una nuova proposta di Federculture, integra la visione della Legge in bozza della Commissione Cultura della Camera, con “fiscalità di vantaggio” per le imprese culturali. Visione che dovrà integrarsi con lo scenario aperto sulle Imprese sociali dalla Riforma del Terzo Settore.
Nonostante gli sguardi tra il dubbioso e l’ironico di molti professionisti quando chiedono ammiccanti se davvero ci siano dei ritorni economici nel lavorare con la cultura e che fanno capire come ci sia ancora molto da fare per creare un sentimento nazionale forte sull’argomento troppo spesso vissuto ancora al pari delle gite scolastiche (anche se il fatto che queste siano un business è forse loro un po’ più chiaro), ecco nonostante tutto questo parlare di imprese culturali e creative è diventato urgente. Ed è proprio alle Imprese Culturali che è stato dedicata una Conferenza Nazionale organizzata da Federculture, AGIS, Alleanza delle Cooperative e Forum del Terzo Settore.
Un bene parlarne, indubbiamente, ma che si scontra con un problema sostanziale: non sappiamo di cosa stiamo parlando.
Non abbiamo a oggi, infatti, una definizione che ci faccia capire di cosa si tratti con gli intuibili effetti destabilizzanti sull’intero sistema.
Non c’è certezza su cosa sia culturale e cosa creativo, ad esempio, ed è questa, probabilmente, la ragione per la quale le due cose vanno sempre di pari passo. Perché se è facile definire culturale l’attività di una associazione che mette in scena teatro classico e lo è altrettanto inquadrare nel settore creativo una società che programma videogames le scelte si complicano quando ci addentriamo nella terra di mezzo. Il cinema, tanto per cominciare. È cultura se è drammatico e creativo in caso di cinepanettoni? Oppure la creatività è nelle case di produzione e la cultura nelle sale? Difficile trovare il confine. Difficile anche solo immaginarlo. Pensiamo poi a una casa editrice. È la sua dimensione a traghettarla da un campo all’altro? I suoi autori? La ricercatezza delle copertine? Ancora più complesso se parliamo d’arte: è cultura o è al di fuori del campo? Colti gli artisti e creative le gallerie, le fiere e le case d’asta? La biennale di Venezia, oltre alla mondanità, dove possiamo inquadrarla? E infine: la cultura non persegue profitto mentre la creatività si accompagna al commercio?
La Convenzione per la protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali dell’UNESCO ha definito industrie culturali quelle che producono beni, servizi e attività che per i loro attributi, scopi e caratteristiche sono considerate culturali, indipendentemente dal valore economico intrinseco. L’anno successivo, però, KEA - EUROPEAN AFFAIRS ha pubblicato, per conto della Commissione Europea, uno studio in cui l’epicentro della definizione sono i prodotti finali delle industrie culturali e creative. Secondo tale indicazione le industrie culturali tradizionali sono composte dalle espressioni artistiche (arti visive, danza, teatro, istituzioni museali, etc ...) per cui l’aspetto economico è da ritenersi marginale in quanto frequentemente sostenute da fondi pubblici. Le industrie creative al contrario sarebbero quelle orientate alla produzione di beni culturali destinati al consumo e la cui dimensione economica è molto più evidente come sono il design, l'architettura e la moda.
Nel 2010, all'interno dell'Agenda Digitale europea per la Cultura, la Commissione Europea ha pubblicato il Libro Verde sulle industrie culturali e creative riprendendo e modificando la definizione delle ICC da quella dell'UNESCO: per culturali si intendono le imprese che producono e distribuiscono beni o servizi che incorporano o trasmettono espressioni culturali, quale che sia il loro valore commerciale. Oltre ai settori tradizionali delle arti (spettacolo dal vivo, arti visive, patrimonio culturale), questi beni e servizi comprendono anche film, dvd, video, televisione e radio, videogiochi, nuovi media, musica, libri e stampa.
Al contrario un altro studio dello stesso anno preparato sempre per la Commissione Europea – Directorate General for Education and Culture da Hogeschool vor de Kunsten Utrecht, imprese culturali quelle che producono e distribuiscono merci o servizi legati a una specifica forma di espressione culturale come i settori più tradizionali delle arti visive e dello spettacolo ma anche il cinema, la tv e la radio, i nuovi media, l'editoria e la stampa. Le industrie creative sono invece quelle che usano la cultura come input ma i cui prodotti hanno una funzione ben precisa tornado a comprendere in tale perimetro il design, la moda, la pubblicità e l'architettura.
Come si può capire i confini tra imprese culturali e creative sono in continua evoluzione per non dire confusione. Se si prende in considerazione il settore ICC in Europa è evidente anche un diverso approccio mentale a seconda della provenienza geografica: nel Nord Europa l'approccio a questo settore è più legato quindi agli aspetti tecnologici e innovativi, quelli più recenti e meno tradizionali del settore creativo mentre nei Paesi dell'Europa Centrale e Meridionale emerge un chiaro orientamento alle attività legate al patrimonio culturale che si focalizzano maggiormente sulle imprese culturali tradizionali.
Questo vasto e irrisolto dibattito presente in Europa impedisce una chiara separazione dei ruoli, ma non è un semplice e ozioso vagabondaggio linguistico e semantico bensì lo scacchiere su cui si gioca la partita dei fondi europei. Allo stesso modo la discussione ha preso piede anche in Italia dove lo scontro, però, si abbina tradizionalmente a quella che viene comunemente definita (con un temine non felicissimo e forse anche fuorviante) fiscalità di vantaggio.
La Commissione Cultura della Camera sta portando avanti, attraverso strade non sempre agevoli e come sempre oggetto di mediazioni contrapposte ma che comunque non hanno impedito il coinvolgimento di operatori culturali e professionisti in un confronto sul campo, il proprio progetto di legge in materia: un testo ormai pronto per l’approvazione in aula e che non è passato indenne dalle forche caudine della Commissione Bilancio e del MEF che ha opposto dubbi di copertura finanziaria e che ha obbligato a una generosa sforbiciata le previsioni normative tra cui proprio gli aspetti fiscali.
In ciò che rimane della bozza del progetto di legge ha comunque trovato forma, ed è il fatto più rilevante, una definizione abbastanza ampia e comprensiva sia degli aspetti culturali che creativi secondo cui questa è quella che ha per oggetto, in via prevalente o esclusiva, l’ideazione, la creazione, la produzione, lo sviluppo, la diffusione, la conservazione, la ricerca e la valorizzazione o la gestione di prodotti culturali intesi quali beni, servizi e opere dell'ingegno inerenti alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, allo spettacolo dal vivo, alla cinematografia e all’audiovisivo, agli archivi, alle biblioteche e ai musei, nonché al patrimonio culturale e ai processi di innovazione ad esso collegato. Una definizione che supera la contrapposizione profit/no profit, ma alla quale qualcuno obietta di non considerare alcuni settori creativi come la moda e il design (scelta che si può immaginare dettata dal fatto che la creatività inclusa nel perimetro del progetto sia quella a base culturale e non la creatività in termini più generici).
Federculture, dal canto suo, ha lavorato a una propria proposta. In questo caso il cardine su cui impernia l’intero impianto è la fruizione pubblica delle attività di tutela e valorizzazione delle attività e dei beni culturali. Anche in questo caso l’alveo delle ICC ricomprende ogni attività sia profit (le imprese creative) che no profit (imprese culturali) con un deciso appoggio a queste ultime favorite da previsioni di agevolazioni a fronte del loro interesse pubblico e della propensione alla sopra citata fruizione pubblica: aliquote IVA ridotte (4% o 10%), esenzione da IMU e tributi locali o loro applicazione a valori fissi, semplificazioni in materia di donazioni e decontribuzioni per il lavoro dipendente. Una proposta che, però, pare destinata a fermarsi in attesa di capire meglio la riforma del terzo settore, il ruolo delle imprese sociali e gli sviluppi possibili delle società benefit.
Tutto questo distinguere, classificare, porre su piani diversi, in ogni caso, al di là di una necessaria e non più prorogabile definizione non è forse neanche il vero problema: quello che di questa corsa alle ICC dovrebbe davvero importarci è il loro riconoscimento, quello di un settore economicamente rilevantissimo, la sua definizione (cosa che, ad oggi, ancora manca), il suo sdoganamento.
Il mondo delle imprese culturali e creative è enorme, sconosciuto e sottovalutato. Si parla di ZES (zone economiche speciali) a cui destinare particolari attenzioni fiscali quando, probabilmente, faremmo un servizio migliore nell’immaginare l’Italia come un’unica, grande e meritevole ZES.
Mancano i fondi, forse, anche se davvero servirebbe un’analisi economica sui ritorni economici dell’investimento (investimento e non costo) della politica in cultura (tutta la cultura indipendentemente da soggetti, forme, luoghi e modi). Di certo non mancano le idee per strutturare e rafforzare il settore. Ciò che più manca, spesso, è la sensibilità alla materia (anche da parte di quelli che dovrebbero averne più cura e i politici e professionisti più illuminati ne sanno qualcosa), manca visione di una economia diversa e più attuale, mancano prospettiva e coraggio. Cultura, anche.
Franco Broccardi, BBS-Lombard
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