Distretti culturali: parola ai referenti operativi, facilitatori dei sei territori
Abbiamo ascoltato la testimonianza delle due referenti operative dei Distretti Culturali di Fondazione Cariplo, Noemi Satta e Guya Raco, che per gli anni di maturazione del progetto hanno accompagnato i sei territori verso la loro definizione strategica. Il segreto del successo? La relazione, l’accompagnamento e l’osservazione della Governance nei dettagli e la forza di fare sistema
Come è nata l’esperienza dei Distretti?
Noemi Satta: Sono stata chiamata da Fondazione Cariplo per la mia esperienza sui processi partecipativi e sul marketing territoriale, basata sull'analisi e la costruzione di strategie culturali, nel 2009 quando il progetto viveva già da 5 anni. Mi hanno selezionata per il ruolo di referente operativo, una funzione che doveva creare un collegamento fra il team di progetto «Distretti» in Cariplo e i territori selezionati per questo programma.
Una sorta di facilitatore e nello stesso tempo quasi di accompagnatore. Di fatto ho agito un percorso di formazione e presa di consapevolezza su due binari: inizialmente battezzata «maghetta» -scherzosa definizione coniata da Cristina Chiavarino (direttore area arte e cultura in Fondazione Cariplo) e Lorenza Gazzerro (project leader insieme ad Alessandro Rubini del progetto Distretti culturali) - ho imparato a giostrare tra la definizione formale di referente operativo, e il lavoro concreto dell’essere nei territori in ascolto. Questo ha comportato effettivamente essere snodo delle informazioni, finalizzato alla produzione di documenti e relazioni interne, ma soprattutto all’individuazione dei nodi critici insieme ai referenti del Distretto, delle possibilità di risoluzione, senza agire come consulente ma sempre nel ruolo di sparring partner nella gestione del progetto.
E' un ruolo che ha preso forma sul campo, chiarendosi in un percorso di consapevolezza, fatto anche di esperimenti ed errori, con l'obiettivo non secondario di osservare la costruzione, in mano al capofila, delle sue reti territoriali (reti reali di relazioni strategiche tra nodi diversi tra loro). Non un intervento top-down, calato dall’alto dalla Fondazione, ma l'ascolto dei bisogni, delle necessità concrete, delle disponibilità, per far emergere quasi in forma maieutica, dal basso, la rete, e le possibili vie di sviluppo all’interno del tracciato di progetto distrettuale, attraverso l'esercizio della messa in comune.
Guya Raco: Sono arrivata un anno dopo di Noemi, con un background legato al fundraising per il Terzo Settore, quello che opera in «provincia» fatto di quelle che i big del nonprofit considerano le piccole e medie organizzazioni, ma che nelle comunità e nei territori fanno la differenza. La capacità di lettura del territorio è un’attitudine nata quindi dall’esperienza, ma che in qualche modo mi caratterizza come indole. Entrare in relazione, in contatto ed in qualche modo «donarsi», apre tante opportunità di dialogo e aiuta a leggere i diversi contesti territoriali ed organizzativi nei quali ci si trova ad operare.
Anche per l’esperienza dei Distretti è stato così: tante le situazioni, le persone, le relazioni attivate. L’empatia unita alla professionalità richiesta dal ruolo mi ha guidato in ogni passo. Come dice Noemi, abbiamo definito il nostro ruolo durante la pratica, con l’obiettivo della facilitazione e del coordinamento, basato non solo sulle competenze di entrambe, ma anche sulle relazioni umane e sulla fiducia. Abbiamo dismesso maschere istituzionali, pur rimanendo nella professionalità, mostrandoci trasparenti, in ascolto, in supporto, come due «maghette» devono fare. Per evitare di essere percepite come estranee, con l’etichetta «di quelle che vengono dalla grande città», abbiamo puntato sull’elemento relazionale andando oltre le posizioni istituzionali. Il risultato è stato quello di essere vissute come un interlocutore fidato con il quale confrontarsi e da cui avere buoni suggerimenti.
La facilitazione dei processi è stata praticata con grande umanità e con una visione su lungo periodo così da attivare effetti virtuosi. Ci siamo accreditate attraverso le risposte tecniche e il problem solving che abbiamo messo a disposizione dei team progettuali, sempre in stretto contatto con i project leader del Progetto Distretti culturali di Fondazione Cariplo.
Come valutate il progetto?
N.S. La dimensione progettuale è stata sfidante, ad esempio la Valcamonica: poco meno di 13 milioni di valore, 36 azioni portate a compimento, la costruzione di relazioni fra enti diversi, come dicevo, la Comunità montana, la Soprintendenza, le Imprese, gli enti locali. Non è stato semplice ricondurre sempre tutto al disegno iniziale o vederlo pur nelle sue trasformazioni, ma avevo chiaro l’obiettivo del mandato. Osservare le relazioni interne ed esterne, il crearsi dei collegamenti, il consolidarsi di un humus che iniziava a fertilizzarsi. Mettere insieme opposti e contrari e animi idealmente in competizione e spinti da moti divergenti non è facile, senza passare per la costruzione di una rete: questo è stato il lavoro del referente di ogni singolo distretto, che osservavo con discrezione e attenzione.
G.R. Replicare una simile esperienza non è facile. Servono non solo importanti disponibilità economiche, ma soprattutto una capacità di visione, una propensione all’investimento su un asse temporale medio lungo, che forse solo istituzioni come Fondazione Cariplo possono avere. Non solo abbiamo imparato molto da questa esperienza, ma anche la stessa Fondazione, basti pensare che il progetto Distretti, ha contaminato il progetto Welfare di Comunità: l’idea di lavorare a stretto contatto con i territori beneficiari, co-costruendo un progetto in dialogo attivo fra le Parti, è prassi acquisita. Sicuramente il progetto è stato una palestra di sperimentazione importante in cui però ho avuto molte conferme sul mio approccio al problem solving: il messaggio che ho speso sui Distretti è stato quello di far presente che senza un confronto franco ed una comunicazione costante relativa anche alle criticità che emergevano non sarebbe stato possibile aiutarli ad uscire dall’empasse. I primi mesi non è stato semplice far comprendere la nostra funzione ed il nostro ruolo: eravamo delegate dalla Fondazione come referenti operative, ma allo stesso tempo libere professioniste slegate dalle dinamiche interne all’ente. Sicuramente è stata un’esperienza unica, che non fa che confermare che la costruzioni di relazioni di fiducia è la chiave di svolta del sistema culturale e più estesamente sociale del nostro Paese.
Che ruolo ha giocato la Fondazione Cariplo?
N.S. Ha giocato un ruolo nuovo e sfidante, non limitandosi alla semplice erogazione. Non solo ha destinato i denari, ha fissato obiettivi intermedi, progressivi, come dei check point per verificare il raggiungimento di determinati punti nodali strategici o gestionali, da cui poteva dipendere l’erogazione, ha messo in stretta relazione strategica la qualità della rendicontazione, con quella del monitoraggio, con quella dello svolgersi strategico, e ha analizzato con attenzione la capacità del territorio di rispondere alle sfide. Per fare tutto questo si è resa disponibile a un ascolto attivo, alla critica e all’elaborazione congiunta.
Come snodo di tutti questi passaggi, eravamo sì referenti operative Cariplo (in stretta relazione con i project leader e tutto il team di progetto) ma al contempo collaboratori esterni della Fondazione Cariplo, e abbiamo potuto mettere in gioco la «terzietà»: entrare in stretto contatto con gli Enti Capofila talvolta più inclini a raccontarsi, a far entrare nella fucina e non solo nel salotto del loro progetto. Ho imparato a tradurre i messaggi, i bisogni, a mettere in relazione le diverse visioni: è stato un esercizio di coaching della Governance multi-dimensionale.
Siamo cresciuti tutti insieme in modo sinergico, avvicendandoci nei momenti cruciali, in una pratica di orizzontalità.
G.R. Fondazione Cariplo ha sperimentato e vissuto un processo di inclusione nell’elaborazione della Governance di territorio e nello sviluppo locale, senza imporre mai nulla ma lasciando i territori liberi di esprimere le proprie vocazioni e propensioni, tant’è che i sei Distretti hanno modelli di Governance molto diverse tra loro. Non solo, credo che la Fondazione, in primis tramite i project leader si sia messa in gioco, si sia aperta al confronto ed agli stimoli che arrivavano dai territori e da noi «maghette». Questo ha permesso di valutare nuove strategie nella sua programmazione, ed il «modello» Distretti culturali è diventato una best practices da replicare e migliorare, come ad esempio nel progetto Welfare di Comunità che ha fin da subito inserito il tema della sostenibilità futura unendo l’innovazione del welfare comunitario al tema del fundraising.
Quali Policy culturali sono nate?
N.S. Fondazione ha giocato una parte importante, operando in una dimensione innovativa anche sul suo stesso ruolo tradizionale di erogatore. Scegliere di individuare una figura di accompagnamento per la conduzione e svolgimento del processo e facilitazione è una pratica innovativa, soprattutto se si considera che il progetto era pluriennale, con risorse cospicue in campo, con partenariati complessi da attivare e l’obiettivo della costruzione di autonomie e non dipendenze da Fondazione Cariplo o da Capofila. Il referente operativo è stata una figura autonoma che si è posta come terzo fra i due attori erogatore/beneficiario, con un ruolo attivo e di supporto e soprattutto ascolto. Un progetto che ha previsto la struttura centrale che manda un agente che si «sporca le scarpe» calcando le strade del territorio e nello stesso momento sfida per i momenti di verifica e monitoraggio, per la rendicontazione, ma anche per la funzione strategica, di direzione e orientamento.
Come si spiega l’Innovazione?
N.S. Nella cura maniacale della Governance. Non è retorico: lo sforzo di ascolto, coordinamento, confronto è stato sempre in cima ai metodi di relazione. Nulla è stato lasciato al caso, né da parte di Fondazione né dei Territori e nemmeno da noi che abbiamo lavorato con flussi di facilitazione a doppia direzione. Questa è la chiave per la svolta. L’Italia per DNA è a-sistemica, non riesce a creare rete. Sono anni che sa di doverlo fare a tutti i livelli istituzionali e della società civile.
Nonostante il raggiungimento di questo risultato sia percepito come una sfida quasi insuperabile, è necessario avviare processi di alfabetizzazione sul come fare rete e co progettare che chiama in causa tutti.
Chi volesse intraprendere la strada per la costituzione di un Distretto Culturale evoluto, quali elementi imprescindibili dovrebbe applicare?
G.R. Il Capofila deve essere un soggetto che dialoga con la Politica ma «slegato»» e libero dalle sue dinamiche. I cicli di vita sono infatti differenti: un programma come questo deve poter andare al di là dei mandati. E’ necessario che il partenariato ragioni fin da subito sul fatto che la propria autonomia politica e decisionale è correlata a quella economica. Il tema della sostenibilità è quindi fondamentale, così come quello dell’investimento. Questi due elementi portano alla capacità di: creare staff competenti, e quindi di investire sul capitale umano; tessere buone relazioni; radicarsi nel territorio, farne parte; creare esternalità positive che generano fiducia. Tutti temi basilari per qualsiasi strategia di fundraising. Nel progetto Distretti spesso il tema della sostenibilità è stato affrontato in ritardo, o solo in termini meramente economici e quasi mai di patrimonio relazionale, basti pensare che nessun Distretto culturale ha nel proprio team di lavoro un fundraiser.
La strategia su questo punto rappresenterà la nuova sfida per i Distretti e il loro cambio di passo.
Fare sistema è la svolta, perché da soli non si va da nessuna parte. Anche se la visione sussidiaria nel settore culturale è ancora molto presente.
Quali risultati sui territori?
N.S. Nel distretto della Valle Camonica tutti ormai abbracciano il marchio della Valle dei Segni: la comunicazione qui fin dall’inizio è stata intesa come asse strategico per riconoscersi e investire sulla propria identità. Un rilancio sensibile, anche prendendo un solo progetto tra i tanti portati avanti, è rappresentato dalla collana della Corraini, che ha permesso una reinvenzione del linguaggio per parlare di patrimonio artistico, creando forse una cura «omeopatica» per chi è malato di resistenza al cambiamento soprattutto negli istituti culturali più tradizionali. Il progetto di residenza artistica «Aperto» ha richiamato molti artisti contemporanei che si sono messi in relazione con i creativi e le comunità locali, non sempre avvezze all’arte contemporanea ma disponibili al confronto, attivando numerose sinergie. Si possono citare ancora i progetti come «segno artigiano uno e due», davvero innovativi per la messa in circolo di forme e significati nuovi, diversi dal folklore alpino, tra i primi a caratterizzarsi in questo modo nei nostri territori di valle, e di qualità anche rispetto alle principali operazioni di innovazione artigianale d’ambito nazionale.
In generale la Valle Camonica ha usato il Distretto come una piattaforma di rilancio della propria identità di territorio contemporaneo, rimettendo sotto una veste nuova anche le ambizioni turistiche e usando l’esperienza distrettuale per mettere insieme enti e persone intorno a obiettivi e progetti.
Tutte le evoluzioni anche strategiche dell’offerta della Valle dei segni ne sono testimonianza.
Cremona ad esempio ha percorso un grande rilancio strategico, ha trovato la sua formula per parlare in maniera facile di cose difficili, con uno sguardo esteso lontano, evitando lo scollamento con il pubblico più largo, e al contempo scegliendo delle strade precise.
Il distretto è diventato il modo e il metodo per privilegiare un atteggiamento di scelta e selezione strategica, scegliendo alcune direzioni invece che altre, rinforzando e trasformando l’identità e il posizionamento. Il rinnovo del Museo del violino è passato anche dal mettere la liuteria al centro di una filiera di laboratori universitari di alta ricerca su analisi diagnostiche per il restauro non invasivo o per il filone dell’Ingegneria del suono di altissima specializzazione: questi sono alcuni esempi. Il Distretto in questo si è trasformato in una piattaforma di abilitazione, un luogo di ricerca, un polo formativo internazionale. Il brand «liuteria» è un plusvalore di immaginario, attrazione di risorse e cervelli da tutto il mondo. Il territorio ha coltivato la sua vocazione. Il violino è un oggetto caldo che può essere declinato anche su una dimensione popolare. Questa scelta di posizionamento ha permesso la costruzione di senso intorno a una nuova identità dei luoghi, dove l’attrazione dei flussi turistici diventa corollario di una visione inedita, per i nostri territori, di internazionalizzazione del patrimonio culturale.
Monza e Brianza hanno una caratura molto interessante, forse anche perché naturalmente policentriche. Il Distretto ha permesso un’abilitazione, nonostante tutti i cambiamenti che hanno investito l’ente capofila, la Provincia, di un modo diverso di valorizzare il patrimonio. Ad esempio la Filanda di Sulbiate, spazio di ex archeologia industriale molto grande localizzato in un piccolo centro, ha permesso un’attivazione cittadina, promosso da artisti creativi, makers, attraverso la cornice Making in progress, per creare prima la comunità e il contenuto e poi attivare il contenitore. Nuove idee, multi-disciplinari e inter-generazionali, con il lancio di Call for ideas per la valorizzazione dell’asparago rosa di Mezzago, attraverso il progetto «Pimp the asparagus» che integra progetti creativi di design e comunicazione con la promozione della filiera produttiva.
Per quante pecche e difficoltà ci siano e ci siano state nel percorso, questi citati non sono dei semplici episodi, ma cambiamenti nel modo di intendere la progettazione culturale e la multidimensionalità del fare politiche culturali nei territori, ben interpretati dai Distretti, che fanno capire il valore dell’investimento fatto.
G.R. L’esperienza di Le Regge dei Gonzaga ha sviluppato sinergie con il Politecnico con l’attivazione del Centro di Conservazione Preventiva e Programmata a «servizio» degli attori del territorio ed al contempo la creazione della rete di imprese in seno a Confindustria Mantova Gonzaga Heritage, che racchiude 8 realtà imprenditoriali del territorio con alta specializzazione sul restauro preventivo programmato. Interessante poi l’esperienza Cantieri aperti brand creato da Elena Froldi, coordinatore del Distretto, che ha unito il «tour» sul territorio alla scoperta dei beni gonzagheschi, alla conferenza tecnico scientifica sui restauri, all’attivazione dei volontari il tutto miscelato in un format di successo. Un elemento interessante è che in un distretto caratterizzato dai beni gonzagheschi, una delle progettualità future è la digitalizzazione di alcune esperienze di visita che ci riporteranno alla corte dei Gonzaga, in partnership con AEDO, una delle imprese creative avviate con la prima edizione del bando IC.
Il Distretto culturale della Valtellina ha la propria ossatura sul paesaggio ed in particolare su «La Via dei terrazzamenti» che collega Morbegno a Tirano in un percorso ciclo pedonale tra i terrazzamenti, alla scoperta di paesaggi inaspettati e di tesori nascosti. Interessante il dialogo costante con gli ordini professionali del territorio che hanno affollato tre cicli di incontri sul paesaggio valtellinese e le sue trasformazioni, sulla conservazione preventiva e programmata che ha aperto ad un filo sempre più costante con la regione Val Poschiavo. Importante anche l’adesione al network internazionale L’Alleanza Mondiale per il Paesaggio Terrazzato che rappresenta tutti quei territori che hanno la presenza dei terrazzamenti.
Il Distretto DOMInUS (Distretto Culturale dell’Oltrepò Mantovano per l’unicità e lo Sviluppo) ha lavorato e sviluppato linee di intervento che vanno dal paesaggio ai beni storico artistici, e ai beni immateriali, sul tema del 900. Anima di questo territorio è la coesione territoriale e sociale che ha permesso di superare, grazie alle reti relazionali presenti ed alla cultura del “fare insieme”, il dramma del terremoto del 2012, ferita ancora aperta e visibile in gran parte del territorio. Il Distretto, mi piace pensare, che abbia contribuito a far sì che le politiche di sviluppo culturale del territorio non si fermassero. Il Distretto, come specchio del proprio territorio, ha trovato nelle proprie radici e nella propria fierezza la leva per andare avanti.
Si può dichiarare che la Cultura sia infrastruttura sociale?
G.R. Il valore sociale dei legami, delle «alleanze» stanno tornando al centro dell’attenzione dei territori. Il settore culturale non è ancora del tutto maturo per affrontare questi temi, spesso non percepisce il valore di aprirsi al confronto con le proprie comunità di riferimento, e non intendo solo in senso geografico. Ci sono ancora posizioni di principio per cui uno sponsor è solo una cassa dalla quale trarre denari, quando invece la partnership, la costruzione di relazioni virtuose e contaminazioni rende forti, quando i dati dimostrano che sono i donatori che fanno la differenza e non gli sponsor, ma anche su questi due termini c’è ancora molta confusione. Fare sponsoring o fundrasing sono cose diverse: nel primo caso vendo, attivo scambi di tipo commerciali, nel secondo attivo il dono, e non ho doni se no ho relazioni, e quindi l’asse è spostato sulla costruzione di patrimoni relazionali, che mi obbligano al dialogo, ad ascoltare l’altro. Questa consapevolezza non va però concentrata solo sulle Istituzioni o sui grandi enti filantropici, il dato ci dice che il «mercato» più attivo sono gli individui, le persone.
La Cultura è infrastruttura ma deve ragionare sul proprio impatto sociale, ponendosi domande come: «Come cambia la vita alle persone intorno? Come contribuiamo a risolvere i bisogni delle nostre comunità? Come si verifica e misura l’impatto della mia attività? Cosa lascia la cultura in termini di utilità sociale, come collante e legame?». Tornando ai Distretti, in questo momento devono alzare l’asticella della propria performance, devono dimostrare di essere diventati poli di capacitazione e crescita collettiva, antenne di pensiero strategico per nuovi modelli di Governance partecipata, autonomi dalla Politica e in continuo dialogo con la società civile. Un’altra importante sfida da vincere è la questione delle competenze. Il tema delle risorse umane è delicato: ma solo investendo sul capitale umano, sulla professionalizzazione, sulle competenze con un’attenzione continua alla formazione e all’accompagnamento si potrà aumentare l’abilitazione dei territori. Ma spesso le competenze vengono considerate un costo, e non un investimento, ed i costi si tagliano, mentre gli investimenti si valutano.
N.S. Sottoscrivo tutto quanto detto da Guya e aggiungo, per chiosare che lavorare sui dettagli (Quale formazione oggi? Quali competenze? Come parliamo di innovazione sociale e culturale? Stiamo parlando di tecnologie o di capacità di cooperare a tutti i livelli? Cosa vuol dire fare partecipazione? Di che tipo di Governance abbiamo bisogno? Quali reti vogliamo formare? Come fare progettazione partecipata? Come legittimare i processi di cambiamento nei territori? Come assicurare sostenibilità nel tempo? Come continuare a produrre cultura) e al contempo avere chiarezza delle macro-direzioni (selezione del personale che abbia delle chiare competenze di lettura e analisi strategiche) ha fatto la differenza nel processo dei Distretti culturali e lo farà anche nel futuro per quei territori che vorranno imbarcarsi in questa avventura faticosa ma entusiasmante.
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