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Direttori dei musei: grandi riforme, piccole virtù e un passato che non passa

  • Pubblicato il: 18/05/2018 - 08:04
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Marco Cammelli, da Aedon n 1/2018

Riprendiamo la riflessione su Aedon, rivista di arti e diritto on line, di Marco Cammelli, direttore della testata quadrimestrale, giurista e presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. 
Rubrica di ricerca in collaborazione con il Museo Marino Marini


Riforme di ampia portata che non si sono limitate al piano legislativo ma che hanno investito frontalmente la dimensione istituzionale e amministrativa, per lungo tempo del tutto inalterata. Il che spiega, accanto ai diffusi apprezzamenti e ai dati che ne hanno confermato l'impatto positivo, anche le critiche in qualche caso molto accese e le resistenze non marginali di una parte degli apparati. Critiche e resistenze che se non provano di per sé la fondatezza del disegno, ne attestano però in modo inequivocabile la portata e l'incisività delle innovazioni. Né le une né le altre hanno impedito alla Rivista di esaminare con attenzione la maggior parte delle misure adottate valutando ragioni, obiettivi e profili giuridici e amministrativi degli strumenti utilizzati. Senza astenersi dal segnalarne, insieme ad un innegabile apprezzamento, incertezze da superare, lacune da colmare o integrazioni da apportare specie alla fase (decisiva) della loro attuazione.

Non è invece il momento di valutazioni complessive perché il quadro è assai ampio e variegato mentre la verifica delle diverse fasi di attuazione, un profilo importante almeno quanto quello della progettazione delle riforme, risulta ancora parziale e in qualche caso appena avviata. Si tratta in ogni caso di una riflessione che richiede un maggior numero di dati e riscontri e un più netto distacco anche temporale tra chi osserva e fatti esaminati. Vi si porrà mano a tempo debito.

C'è però una vicenda, quella della nomina di direttori non italiani dei musei, peraltro ancora aperta visto il rinvio alla Adunanza plenaria operato dalla sesta sezione del Consiglio di Stato (sentenza 2 febbraio 2018, n. 677), che per gli aspetti tecnici e l'elevato valore simbolico da cui è segnata merita una particolare attenzione. Trattandosi di ricorsi esaminati in più sedi giurisdizionali e con esiti diversi, cui in corso d'opera si sono aggiunte misure di vario genere anche legislative (di interpretazione autentica) tese a sciogliere i nodi emersi o a scongiurarne i possibili effetti, il groviglio di elementi sostanziali e procedurali che ne è risultato è così complesso che non può essere neppure parzialmente richiamato in questa sede. E ancor meno si presta alle consuete semplificazioni che invece, numerose e spesso sopra tono, si sono puntualmente verificate.

Per questo ci limitiamo solo a un punto di principio e di significato generale: quello dell'ammissibilità dell'accesso di cittadini europei a posti di lavoro della pubblica amministrazione italiana.
Il principio della libera circolazione dei lavoratori sancito dall'ordinamento europeo (art. 45 Trattato) è il criterio di partenza di portata generale che investe naturalmente anche le pubbliche amministrazioni salvo quella parte di posizioni e di funzioni che "implicano esercizio di poteri pubblici o attengano all'interesse nazionale" (art. 38, co. 1 d.lg. 165/2001).

Dunque ratio chiarissima: libero accesso a tutta l'area della PA salvo le funzioni che per la loro delicatezza, attenendo al nocciolo duro della "puissance publique" (sicurezza, difesa, magistratura, ecc.), richiedevano il raddoppio: oltre al rapporto di servizio, il rapporto di cittadinanza. E chiarissimo anche il regime normativo: la regola è l'ammissibilità, la limitazione è l'eccezione e questa come tutte le deroghe va riferita a un ambito circoscritto e interpretata in modo restrittivo. Proprio per questo il d.lg. 29/1993 richiedeva un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nel quale fossero "individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana" (art. 37, co. 2).

Fin qui tutto chiaro, se non fosse che ben prima che la questione dei direttori dei musei assurgesse agli onori della cronaca si sono registrate in sequenza una serie di curiose anomalie: diverse nei tempi e nella forma, univoche nel significato.

La prima consiste nel fatto che dopo appena un anno dalla normativa del 1993, il decreto che doveva operare la concreta "individuazione" di queste posizioni da sottrarre all'apertura (d.p.c.m. 7 febbraio 1994, n. 174) ha escluso dalla applicazione del principio comunitario tutti i posti dirigenziali di tutte le pubbliche amministrazioni. Il che, come è evidente, non solo è il contrario della normativa europea e nazionale di cui si richiedeva l'applicazione, ma contraddice anche la logica e il significato delle parole, visto che "individuare" è separare una parte (anzi, più precisamente, una piccola parte) dal tutto.
La seconda è che il decreto in questione è rimasto intatto malgrado da allora (24 anni) l'estensione e la superiorità dell'ordinamento europeo (specie a partire da Lisbona, e quindi dal 2009) rispetto alle normative nazionali sia enormemente cresciuta in particolare per il profilo del divieto di regole o pratiche discriminatorie. Superiorità puntualmente affermata, e precisata anche in questa specifica materia, da una ininterrotta serie di pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che hanno collegato la deroga all'esercizio, abituale e non occasionale, di poteri di imperio o di coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico generale. Aspetti che già di per sé aprirebbero la strada alla disapplicazione, o quantomeno alla sostanziale reinterpretazione in chiave assai più riduttiva, del decreto del 1994. Il che si è peraltro già verificato in alcuni casi, come per la presidenza delle autorità portuali, ora aperta a cittadini UE dopo pronuncia della Corte di Giustizia UE in sede di rinvio pregiudiziale e conseguente pronuncia del Consiglio di Stato: il tutto disapplicando il decreto del 1994.

La terza è la singolare e protratta disattenzione di chi, avendo istituzionalmente il compito di provvedere al governo e alla regolazione degli apparati pubblici delle quali le condizioni di accesso non sono proprio l'ultimo dei problemi, in sede di Esecutivo e soprattutto di dipartimento della funzione pubblica ha omesso di rivedere la disposizione contestata. Vero è che il tema, evidentemente, suscita resistenze inimmaginabili da parte degli apparati - basti rammentare quanto avvenuto contro i tentativi di riforma della dirigenza pubblica - e vero è anche che l'intera materia avrebbe dovuto essere regolata dai decreti attuativi della legge n. 124 del 2015, almeno prima che la Corte costituzionale ne frenasse l'adozione. Tuttavia, è indubbio che il Governo avrebbe potuto, proprio nel mentre avviava così importanti processi di riforma della amministrazione pubblica, mettere mano anche al decreto del 1994. E proprio la registrazione delle nomine di direttori stranieri da parte della Corte dei conti - correttamente avvenuta appunto, in sede di controllo di legittimità, disapplicando il regolamento italiano e applicando la normativa UE - avrebbe dovuto, più che tranquillizzare il Governo, portarlo ancor più rapidamente ad aggiornare finalmente la disciplina dell'accesso ai posti nella pubblica amministrazione, nel rispetto del diritto europeo.

Il risultato, alla fine, è invece non solo di ritrovarsi con un decreto, quello del 1994, che contraddice in re ipsa la ragione per cui ne era stata prevista l'adozione ma di un lungo periodo (un quarto di secolo), peraltro particolarmente delicato e intenso, durante il quale la evidente frizione tra principi comunitari (e nazionali) e disposizione del 1994 ha lasciato nell'incertezza un profilo cruciale: chi può accedere alle posizioni intermedie e di vertice della amministrazione italiana. Il che non è un buon segno per nessuno, compreso il personale (italiano) che vi opera.

Questo dunque è l'antefatto evidentemente determinante della vicenda dei direttori di musei le cui funzioni, sempre ma in particolare dopo le riforme del biennio '14-'16, sono essenzialmente di promozione e valorizzazione culturale oltre che gestionali, cioè in massima parte estranee ai profili autoritativi il cui esercizio legittimerebbe la limitazione dell'accesso di personale non italiano.

Si tratta di una premessa importante della questione oggi posta all'attenzione dei giudici, perché se non si recupera l'inizio della vicenda si giunge al paradosso che quella che era l'eccezione è diventata la regola generale al punto che l'inserimento di cittadini europei in posti dirigenziali della amministrazione italiana (dunque, la regola originaria) oggi sarebbe possibile... solo a condizione di una esplicita e apposita disposizione di legge, a modifica della generalizzata chiusura disposta dal d.p.c.m. del 1994.

In breve, in Italia e dopo 25 anni l'applicazione del principio generale comunitario sarebbe possibile solo grazie a una deroga delle misure derogatorie adottate a suo tempo in sede nazionale: eccezioni che per la loro ampiezza sono divenute, nel frattempo, la disciplina generale in materia.

Ci siamo limitati a un solo profilo, sia pure importante, tra i tanti che la vicenda ha posto sul tappeto e dunque ogni valutazione conclusiva va doverosamente sospesa.

Tuttavia, l'inversione del dettato normativo, il mantenimento senza modifiche del decreto del '94, il paradosso di richiedere oggi una apposita disposizione legislativa per realizzare quanto era da considerarsi già garantito e doveroso un quarto di secolo fa, non possono passare sotto silenzio. Non solo a tutela delle istituzioni, dell'innovazione, dei destinatari delle funzioni e dei servizi pubblici ma anche nell'interesse del personale amministrativo italiano e dei numerosi dirigenti che ne fanno parte in grado di confrontarsi a pieno titolo con esperienze e professionalità provenienti da altri paesi europei. Per di più in luoghi, quali i musei, la cui vocazione è proprio lo scambio e il dialogo inter-culturale.

A meno di non ripiegare sulla strenua difesa di una italianità che ha più a che fare con l'arroccamento di chi avverte le proprie debolezze che con l'orgoglio di chi rivendica la propria professionalità.

da Aedon, rivista di arti e diritto online. n1/2018
 
Ph: Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0