THE DESTRUCTION OF MEMORY: LA DISTRUZIONE FISICA DEL PATRIMONIO CULTURALE MONDIALE E LE CONVENZIONI UNESCO
In contesti di scontri militari, la preservazione fisica del patrimonio culturale è sempre stata un obiettivo cruciale. Tuttavia, con l'emergere di forme di conflitto armato non convenzionali (terrorismo, guerriglia), i casi di distruzione dei beni culturali nelle zone interessate si sono moltiplicati, dimostrando la necessità di integrare la convenzione ONU dell'Aia con azioni mirate di prevenzione e, nel contempo, di effettiva persecuzione dei crimini contro il patrimonio culturale mondiale
Il 27 settembre 2016 Ahmed al-Faqi al-Mahdi è stato condannato dal Corte di Giustizia Internazionale dell'Aia a nove anni di prigione per la distruzione di nove mausolei e dell'ingresso di una moschea nella città di Timbuktu in Mali, avvenuta su suo ordine nel 2012. Questa sentenza, primo caso assoluto di condanna per crimini contro il patrimonio culturale mondiale, rappresenta un punto di svolta nella lotta contro la distruzione indiscriminata dei beni culturali in contesti di conflitto armato più o meno formalmente e tradizionalmente inteso.
Quando si parla di patrimonio culturale mondiale, viene naturalmente in mente il ruolo che svolge – o dovrebbe svolgere – il principale organo internazionale destinato a tutelare e promuovere i beni artistici e storici nel mondo, ovvero l'UNESCO.
Tuttavia, nonostante il ripetersi nel tempo di casi di distruzione di beni culturali – non da ultimo, l'abbattimento del tempio di Palmira in Siria da parte delle milizie ISIS, il relativo vuoto normativo riguardante la protezione fisica – e la punibilità di coloro i quali la mettano in pericolo – del patrimonio culturale mondiale è ancora presente, a dimostrare quanto organi come l'UNESCO debbano ancora trovare piena applicazione del proprio ruolo, soprattutto in contesti di difficile diplomazia politica.
In effetti, come raccontato in modo puntuale nel documentario del 2016 The Destruction of Memory, diretto dal regista australiano Tim Slade (tratto dall'omonimo libro del giornalista britannico Robert Bevan), lo sforzo promosso in seno all'ONU da singoli appassionati sostenitori della salvaguardia del patrimonio in contesti bellici, nel corso del tempo ha trovato l'irrevocabile opposizione di quei Paesi che più avversano un'eccessiva restrizione della legittimità di azione in conflitti armati, come Cina o Russia.
Il principale documento di riferimento al riguardo resta tutt'oggi la Convenzione (e relativo Protocollo) per la Protezione delle Proprietà Culturali in Caso di Conflitto Armato, firmata a L'Aia nel 1954 ed aggiornata nel 1999. Per quanto questa possa in effetti costituire un punto di riferimento nelle azioni di protezione del patrimonio, essa non assicura, al contempo, la definizione di sufficienti strumenti di dissuasione per evitare il perpetrarsi periodico di atti di violenza sui beni culturali nel mondo.
L'interessante documentario di Tim Slade, infatti, ripercorre i casi più gravi ed eclatanti di violenza sul patrimonio, indicando come essa, negli ultimi decenni, si sia configurata quale una forma collaterale di pulizia etnica, volta ad eliminare i simboli di identificazione di una specifica etnia o comunità. La grave accezione con cui oggi si intendono questi atti e la dimensione eclatante degli episodi (come la distruzione di moschee e biblioteche islamiche in Bosnia da parte delle milizie serbe, durante il conflitto nei Balcani ad inizio anni '90; o l'abbattimento dei Buddha di Bamyan per mano dei talebani, in Afghanistan nel 2001) hanno portato ad una maggiore consapevolezza dei rischi per il patrimonio e, con essa, alla definizione di azioni più concrete e risolutorie, che hanno riguardato contemporaneamente due aspetti cruciali: la tutela preventiva del patrimonio e l'assicurazione alla giustizia dei responsabili.
Da una parte, la creazione del''International Committee of the Blue Shield (ICBS) ha dato impeto all'impegno verso la preservazione dei beni minacciati da conflitti armati in tutto il mondo, promuovendo la partecipazione multi-laterale di istituzioni museali e di governi nazionali nella definizione ed implementazione di iniziative preventive sui beni più a rischio, nei luoghi dove questo pericolo risulti più imminente. Attivando protocolli conservativi e corsi di conservazione e protezione dei beni materiali destinati al personale operante in loco (conservatori, operatori museali ed archeologici, ma anche membri dei corpi di polizia e militari), il Committee si prefigge di mitigare anticipatamente i rischi fisici e, nel contempo, di promuovere una maggiore consapevolezza delle necessità di protezione e preservazione del patrimonio da interventi lesivi.
Dall'altra parte, il perseguimento dei responsabili di crimini legati esclusivamente ad atti di violenza sui beni culturali (e non accessoriamente a quelli rivolti alle persone fisiche) portato avanti dai procuratori del Corte di Giustizia Internazionale dell'Aia testimonia la consapevolezza della gravità di atti di questo tipo, in tutto e per tutto assimilabili alle forme già riconosciute di crimini contro l'Umanità. Infatti, l'insostituibilità dei beni culturali, già riconosciuta dall'UNESCO, si è finalmente combinata, nella giurisprudenza internazionale, con il ruolo sostanziale che il patrimonio culturale ha quale detentore dei segni di identificazione di specifiche comunità.
In questo senso, dopo svariati tentativi falliti di condannare i responsabili di distruzioni indiscriminate al patrimonio (come nel caso dei generali colpevoli dell'abbattimento delle antiche mura di Dubrovnik durante la guerra Serbo-Bosniaca), il segnale dato lo scorso settembre con la condanna di al-Mahdi non è soltanto una vittoria del diritto applicato alla tutela dei beni culturali ma, in senso più cruciale, uno sprone per organi come l'UNESCO, affinché assumano con più forza il loro mandato di protettori e promotori del patrimonio materiale ed immateriale mondiale. Il tutto soprattutto alla luce degli obiettivi di sviluppo sostenibile individuati dall'ONU per il 2030 (goal 11.4) e che coinvolgono anche il patrimonio culturale, non solo in ottica di promozione e fruizione ma, evidentemente, anche in quella di tutela fisica e preservazione per le generazioni future.
Con l'emergere di pratiche di conflitto armato che trascendono quelle tradizionalmente intese e vissute fino alla Seconda Guerra Mondiale, e che risultano molto più complesse da normare e controllare, la definizione di accordi più stringenti e di sanzioni più rigide deve essere un'obiettivo prioritario per l'UNESCO, che va ad affiancarsi al lavoro preventivo e di tutela già praticato da questo organo. Se la speranza, infatti, è che il patrimonio culturale raggiunga uno status di intoccabilità riconosciuto da tutti, è anche fondamentale che, qualora atti di violenza si dovessero verificare, questi possano essere perseguiti e puniti in modo sistematico e certo, per fare da monito contro ogni tentativo futuro.
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Irene Popoli, Centro ASK Bocconi e Centro ABC Stockholm School of Economics