Da Symbola prospettive di rete
Fondazione Symbola festeggia ogni anno la prima estate con un seminario-festival, sempre molto interessante, oltre che lussurioso per chi ama il paesaggio del contesto: le ondulate colline marchigiane, viste da Treia, uno dei borghi più belli d’Italia. Diviso in due parti e riservata la seconda ad una parata di politici e industriali importanti convocati da Ermete Realacci, nella prima Fabio Renzi raccoglie tecnici ed esperti, diversamente intrigati dalla soft economy, declinata ogni anno intorno ad un tema promettente per il territorio: dalle produzioni green alle industrie culturali
Quest’anno il focus del seminario estivo della Fondazone Symbola è stato sull’economia circolare, quel modo di fare filiera per l’utilizzo totale delle produzioni che era strutturale nel sistema tradizionale, prevalentemente agricolo, a risorse misurate se non scarse, quando la fatica e la distanza contavano nell’economia.
Oggi ne riscopriamo le convenienze per il costo sociale, ambientale ed economico esorbitante assunto dallo smaltimento dei rifiuti, in un sistema produttivo impazzito che ha creduto fosse profittevole buttare via macchine, prodotti e materiali poco utilizzati, per far posto all’impellenza quantitativa delle nuove produzioni.
Perfettamente in linea con la contemporanea enciclica di Francesco (forse si sono messi d’accordo…), in due giorni si è discusso, con una cinquantina di operatori, delle numerosissime declinazioni del tema. Si va dai nuovi materiali risultanti dai processi di lavorazione degli scarti, ai possibili effetti sul progetto di architettura e di paesaggio (Mario Cucinella dedica al tema addirittura un master di architettura, presentato a Treia). Dalle potenzialità di riorganizzazione dei consumi alle nuove attrattività delle offerte di vita sobria e integrata, ad esempio dal contatto con la natura.
Man mano che si raccolgono le idee e le buone pratiche viene in mente la genialità di monsier Lapalice: questa economia (così come la sharing economy) si basa su una scoperta dell’acqua calda, ma oggi sviluppa una grande potenza innovativa. Insomma sembra che basti usare bene per rendere sostenibile anche un’alta qualità della vita, risolvendo uno dei nodi etici della nostra civiltà viziata.
Se capiamo che la qualità delle nostre vite si percepisce (e quindi si deve misurare) in base alla quantità di bene effettivamente goduto e non sulla quantità di merci consumate, il gioco è fatto. L’incantesimo monomaniacale di “consumare è bello” si rompe e lascia un panorama di macerie. Su cui avrà spazio l’economia circolare, dedicata al waste end (come recita il titolo del rapporto di Symbola).
Non è tutto ovvio, naturalmente, perché si devono fare i conti con la resilienza dei processi produttivi industriali, fondati sull’economia del consumo e dello spreco. E’ qui che sta il fronte dell’innovazione e dell’imprenditorialità: declinare il termine sostenibilità, fin troppo abusato, e rendere convincente un miglior utilizzo degli investimenti, pubblici ma anche privati. Occorrono programmi economicamente equilibrati, strategicamente autosufficienti, che mantengono le risorse territoriali e non le drenano dentro macchine produttive senza futuro.
Non a caso uno dei seminari interni agli incontri di Treia era intitolato alla «resilienza dei territori», da porre in contrasto alla resilienza della vecchia (ma ancora finanziariamente vigorosissima) economia, di consumo generale e di rapina locale.
A Treia la resilienza dei territori è risultata come un’inquadratura giusta ma sfocata: sappiamo che sta nella potente connessione tra struttura socioculturale delle comunità abitanti e patrimonio ambientale e storico che abitano, ma non riusciamo a precisare i contorni operativi delle azioni da compiere, dei soggetti che devono intervenire. Perché la resilienza, in questa fase franante della vecchia economia, non può consistere in una difesa passiva, a riccio, che non chiede altro che pazienza e tenacia. Occorre invece la capacità di saltare fuori dalla nave che affonda, occorre un’impresa per tornare a Itaca dopo il fallimento delle guerre. Perché la resilienza dei territori si racconterà come l’Odissea: un’infinita avventura dell’innovazione e della modernità a riprendere i valori e i riferimenti più sani ed essenziali per abitare questo mondo.
Symbola, radunando quanto di meglio si conosca, mostra il ritardo di progetto su questo tema in Italia, trascurato dalle strategie politiche ed economiche più importanti. Si (rac)contano esperienze interessanti nelle aree protette, in distretti che riescono a fare rete di risorse territoriali. Emerge la differenza dell’Italia centrale, che ha ancora viva, nel suo DNA, la storia dei comuni medioevali e dell’economia locale fondata su uno stile di impresa collettiva e artigianale, che qualche volta approda ai mercati globali, a testimonianza (ma solo testimonianza) che si può fare così. Ma si capiscono anche quanti fallimenti sul medio periodo, quanta fatica costi mantenere queste esperienze oltre gli entusiasmi iniziali, in un sistema che non aiuta le iniziative locali e le getta subito in un mercato globale e solo economicista, che burocratizza ogni strategia. Soprattutto si ascoltano le pene di chi si scontra con un sistema che non premia la collaborazione e il progetto comune e integrato, valutando solo l’efficienza settoriale e non l’efficacia complessiva, circolare, per il territorio.
Quasi a dimostrazione di questo tristo contesto storico la terza giornata, destinata da 5 anni agli approfondimenti tematici del rapporto “Io sono cultura”, che Symbola, con Unioncamere e altri, dedica ai numeri dell’incidenza economica del settore culturale privato.
Sin dall’inizio per la copertina del rapporto si è scelto stupendamente il viso di Lina Cavalieri, immortalata in mille atteggiamenti da Fornasetti, nei suoi piatti degli anni ‘60.
Quest’anno Lina guarda strabicamente una mosca sul suo naso. Metafora perfetta per un tipo di indagine preziosa, che rischia ogni giorno di essere soffocato in polemiche sterili e di settore, sui valori statistici di un fenomeno che va considerato soprattutto per gli effetti qualitativi sull’intero sistema Paese.
Sono polemiche risuonanti solo nelle stanze delle poche dozzine di operatori che si occupano di economia della cultura, ma rischiano di appannare il valore più ampio della strategia di Symbola, che porta a interessarsi di industrie culturali operatori che si occupano di riciclo dei pneumatici esausti o di demanio militare. Ogni anno, ascoltando in modo integrato questi rapporti, gli operatori della nuova economia (soft, green o circolare che sia) si ritrovano più consapevoli a pensare: “Io sono cultura”.
Da Treia dunque si porta a casa quest’idea intrigante, che la cultura oggi è strumento strategico di sviluppo, ma solo se ci rendiamo conto che ad esempio i funzionari del Ministero dell’Economia, incaricati di “valorizzare” il patrimonio pubblico, sono agenti culturali come e più degli organizzatori di festival, visto che possono distruggere o esaltare il valore culturale di migliaia di edifici storici demaniali. O che nella crisi sopravvivono soprattutto gli organizzatori di cultura che lavorano nel III settore e hanno il loro main business in altri comparti della vecchia economia e che quindi non risultano nelle statistiche ufficiali. O che, come ci ha detto un dirigente pubblico: “oggi contano sempre meno i ruoli e le competenze, conta la voglia di impostare il proprio lavoro in termini di servizio per un progetto comune”.
Dunque siamo di nuovo lì, agli uomini di buona volontà, quelli che hanno orecchi per sentire e testa per rispondere con impegno.
Certo serve contarli, anche se è molto difficile. Forse sarebbe più utile a tutti sapere dove sono e cosa fanno.
Allora diciamoci, tra uomini di buona volontà: passiamo dalle statistiche alle mappe, ci sarà più facile conoscerci e fare rete.
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