Cuore di mamma
In un momento di flessione delle nascite nel nostro Paese, il tema della “mamma” sbanca anche sul fronte dell’arte. Un fronte inaspettato che rivela un desiderio sociale di valori di protezione, di comunità generative, inclusive.
A Parma, alla Fondazione di Palazzo Magnani, è in corso Mater. Percorsi simbolici sulla maternità, un viaggio dal paleolitico ai giorni nostri. Soprattutto però c’è attesa per l’appuntamento che a Milano a Palazzo Reale vedrà all’opera il numero uno dei curatori italiani, Massimiliano Gioni, per una mostra impegnativa e di grandi dimensioni prodotta da Fondazione Trussardi in occasione di Expo. Titolo: La grande madre. Un percorso che si snoda tutto nel 900 e nei nostri anni. Di altissimo livello la scelta di autori e opere: un vero museo temporaneo di oltre 2mila metri quadri, nel quale si combinano storia dell’arte e cultura visiva. Massimiliano Gioni ha rilasciato la sua prima intervista a Giuseppe Frangi, Direttore di Vita, sulle ragioni della mostra e il senso di questo percorso.
Da dove nasce l’idea di una mostra su questo tema? Si intravvede una linea di continuità «junghiana» con la sua Biennale…
In realtà da quando ho mostrato il Libro Rosso di Jung passo sempre per junghiano, ma devo confessare che non ho un interesse particolare rispetto a Jung e le sue teorie, se non forse nei confronti del suo interesse per le immagini, che per altro a sua volta aveva mediato dalla storia dell’arte e dal concetto di «Urbild» di Jacob Burkhardt. Ciò che mi interessa rispetto a Jung quindi è soprattutto l’idea di un pensiero e di una conoscenza che si esprimono per immagini, che in fondo è ciò che affascina anche molti artisti
La mostra è sul potere delle donne. Potere negato e potere affermato. Potere in quanto «oggetto» tematico da sempre e poi anche come «soggetto» nel 900. Ma nel 900 si può tracciare una linea femminile nell’arte? È una corrente parallela?
Non credo esista una linea femminile dell’arte, perché in fondo non penso che l’arte rispecchi le caratteristiche biologiche di chi la crea. Però credo che esista un modo per raccontare la storia dell’arte da una prospettiva che non sia maschilista o maschile, ad esempio prediligendo letture trasversali o comunque dando molto più spazio ad artiste donne. Ma non per questioni di quote rosa e conteggi e proporzioni, quanto piuttosto per sgretolare un canone che è troppo spesso univoco e sclerotizzato su posizioni eccessivamente conservatrici. In questa mostra ci sono tanti capolavori, ma anche oggetti di poco valore, cartoline, poster, oggetti trovati: ecco, credo che invece di cercare una presunta arte al femminile si debba piuttosto ripensare una storia dell’arte che non prediliga soltanto un tipo di gestualità enfatica, prepotente, maschile, ma nella quale trovino spazio anche gesti minori, oggetti minori, che possano aiutarci a ricostruire storie più complesse, meno monolitiche, più stratificate. Quindi non un’arte al femminile, ma forse una storia dell’arte minore, che proprio in virtù della sua modestia riesce a catturare con più accuratezza i sussulti anche più lievi e restituirci tante storie piuttosto che un’unica narrazione ufficiale.
La celebre mostra che Szeemann sognava di fare e non riuscì mai a realizzare aveva nel titolo la parola “Mamma”. Lei ha scelto invece “madre”. Una differenza che significa qualcosa? Il suo è un percorso che muove su una linea “archetipa”?
Non credo negli archetipi, sarebbe davvero un poco naïf da parte mia. Però mi affascina che in un certo momento storico si potesse crede a immagini universali, transtoriche e transculturali: mi interessa più questo momento storico, questa tensione universale - e secondo alcuni assolutista - questo sogno universale che ormai ci sfugge e che non possiamo più recuperare. Rispetto alla scelta del titolo e la preferenza per la madre rispetto alla mamma, le ragioni sono molteplici: la grande madre è divinità creatrice. In un certo senso è meno consolatoria della mamma: è una figura anche autoritaria, che può incutere paura. La mamma è una figura passiva e conciliante. La madre, invece, immediatamente solleva anche il problema dell’autorità, che è al centro di questa mostra.
È corretto dire che, per quel che riguarda l’arte del 900, il tema della maternità entra in gioco per lo più come esperienza negata?
In generale credo di sì. E non ci sono molte immagini positive della maternità in mostra, ma credo dipenda dal fatto che per molta parte del Novecento, e soprattutto per le artiste donne, la maternità è stata un destino al quale sfuggire per proclamare la propria indipendenza e per potersi allontanare da modelli di vita predefiniti. Senza cadere in generalizzazioni e stereotipi, credo sia lecito dire che gli artisti nel corso nel Novecento sono anticonformisti, insofferenti nei confronti dello status quo, che è spesso rappresentato proprio da concetti tradizionali di famiglia. Quindi l’istituzione del matrimonio e della famiglia sono finiti spesso sotto attacco nel corso del Novecento, e proprio da parte dell’arte e degli artisti.
Diceva Szeemann: «C’è una consapevolezza del potenziale raddoppio dell’energia anche in quei casi in cui si è rinunciato alla maternità e la sublimazione riporta al circuito dell’energia». A volte si ha la sensazione che tra esperienza di maternità ed esperienza artistica ci sia una sorta di inconciliabilità. Rispetto alla vita normale, le artiste mamme sono percentualmente molto meno. È una lettura che condivide? La generazione artistica contiene qualcosa di biologico che surroga quella fisica?
In realtà sono molto sospettoso di queste conclusioni così definitive e di presunti collegamenti tra biologia e creatività. Spero proprio che la mostra proponga una visione più sfaccettata e complessa, in cui si complichi e scardini proprio il nesso che legava destino e anatomia. Come dice Duchamp a proposito del suo Grande Vetro, in diversi momenti del Novecento era importante opporsi a un’idea della donna come moglie, madre, come creatura sottomessa a una certa idea di famiglia e di Stato. E non ne faccio neanche un discorso politico, ma piuttosto storico: la storia dell’arte del Novecento si intreccia proprio alla storia dell’emancipazione dall’immagine ottocentesca della famiglia e dei modelli sessuali e di genere tradizionali. Per molte delle artiste in mostra quindi si tratta di sfuggire la maternità e la famiglia per diventare indipendenti, per non essere condannate a un ruolo subordinato.
Un’ultima domanda: cosa le suggerisce la circostanza di proporre una mostra come questa in un paese come l’Italia in cui l’esperienza della maternità è in continuo declino? Un paese in cui il trend delle nascite è così basso dall’essere ben lontano dal garantire un ricambio di generazioni...
È una bella domanda, in effetti, alla quale non avevo pensato. La mostra si conclude con alcune opere che guardano alla genetica post-umana, come nuove possibilità di maternità che trascendano le categorie tradizionali di coppia e famiglia. Ma non avevo pensato alla crescita zero. D’altra parte sappiamo che in Italia come in molte altre nazioni europee la crescita è affidata all’immigrazione e alle nuove famiglie di stranieri: ecco, forse questa è la chiave. Non tanto come risolvere la crescita zero, ma piuttosto come sviluppare la capacità di una nazione di reinventare concetti come quelli di madre patria e lingua madre per inventare un nuovo senso di appartenenza, che non replichi modelli maschilisti e maschili. La mamma, questa volta sì, è sempre più ospitale del padre…
Giuseppe Frangi, Direttore del Magazine Vita
Articolo tratto dal numero di aprile 2015