Cresce il ruolo dei privati nelle politiche di sviluppo, ma serve più trasparenza
Dal rapporto dell’Ocse “Private Philanthropy for Development” i recenti sviluppi sul contributo delle fondazioni private nel raggiungimento dei SDG: i trend, le potenzialità e le voci più critiche.
La filantropia, che per definizione è il sentimento di generosità verso il prossimo (dal greco philía "amore" e ànthrōpos “uomo”), oggi fa da motore nella corsa al raggiungimento degli SDGs. A fare da protagonisti però non sono piccoli enti no-profit ma alcuni fra più ricchi della Terra; ossia le “fondazioni filantropiche private”, come quella di Bill e Melinda Gates (Bmgf), di Warren Buffett o del colosso indiano Tata. Tanto è aumentato il contributo di questi “generosi” enti privati che l’Ocse vi ha recentemente pubblicato un report dal titolo: “Private Philanthropy for Development”.
Secondo il Rapporto, il volume dei fondi messo a disposizione dal “terzo settore” ha raggiunto dimensioni considerevoli: circa 24 milioni di dollari fra il 2013 e il 2015. Non molto se paragonato all’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che nel 2015 contava 131.4 milioni di dollari, ma abbastanza per raggiungere obiettivi significativi, specialmente in tema di sanità. Quest’ultima è il settore che più di tutti beneficia del contributo delle fondazioni, soprattutto la salute riproduttiva, per la quale, nei paesi in via di sviluppo, le fondazioni costituiscono la terza maggior fonte di finanziamento. In capo a tutte vi è poi la Bmgf, che con un fondo di 275 milioni di dollari si colloca al secondo posto (dopo gli Usa) nella lista dei donatori per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
I contributi delle fondazioni si rivolgono poi principalmente ai least developed and low-income countries ed in particolare all’Africa, cui è destinato il 28%. Il primo beneficiario è invece l’India che riceve non solo i fondi dai foreign donors, ma anche da enti privati nazionali per un totale di 1,6 milioni di dollari. Infatti, mentre le fondazioni dei Paesi occidentali hanno generalmente obiettivi internazionali, quelle dei Paesi in via di sviluppo, come India, Cina e Messico, si concentrano soprattutto all’interno del proprio territorio.
Il rapporto dell’Ocse guarda allo sviluppo delle fondazioni con entusiasmo; non solo per il crescente contributo economico ai Paesi più poveri, ma anche perché il loro modus operandi stimola la cooperazione fra attori appartenenti a diversi settori: pubblico, privato e no-profit.
Il fenomeno delle fondazioni potrebbe espandersi, ma per il momento rimane concentrato: il Rapporto infatti prende in considerazione 143 fondazioni ma di fatto la maggior parte dei fondi deriva da venti colossi, per lo più americani (74%), mentre la metà di questi appartiene alla celebre Bmgf.
Non mancano poi le critiche di chi mette in dubbio il carattere filantropico di questi grandi enti privati. Linsey McGoey, autrice del libro “No Such Thing As a Free Gift” parla invece di “philantrocapitalim”; ossia di una strategia che nel far perno sulla “fama del benefattore” cela invece interessi ambigui ed una inefficiente gestione delle risorse. Nel mirino ancora la Bmgf, di cui la scrittrice critica per esempio l’utilizzo delle donazioni nei progetti e i loro destinatari; non tanto i piccoli agricoltori quanto piuttosto i grandi giganti come Goldman Sachs, Coca-Cola e Monsanto.
Di fatto, come dice anche il rapporto Ocse, il 97% dei fondi viene gestito sempre tramite organizzazioni intermediarie (e dunque non dalle fondazioni stesse) mentre ciò che manca è una maggiore trasparenza e verifica dei risultati ottenuti. Temi questi, conclude il Rapporto, su cui si dovrà lavorare nei prossimi anni.
Tra ànthrōpos e philía si mettono quindi in mezzo trasparenza e accountability, da sempre necessarie per valutare qualsiasi performance di carattere pubblico, privato o volontario che sia.
Francesca Cucchiara su ASVIS.it, venerdì 13 aprile 2018
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