Conservare e produrre. Quando il museo è cooperazione pubblico-privato
«Sempre tenendo ferma la rotta sui principi ideali di missione dell’istituzione, continuo a pensare - nonostante il parere di alcuni colleghi che stimo molto - che il dialogo e la collaborazione con il privato siano molto opportuni, utili e arricchenti. Sempre di più. E queste relazioni non si improvvisano». Così Annalisa Zanni, direttore del museo Poldi Pezzoli di Milano introduce la sua conversazione sulla sostenibilità del museo, che ha una lunga storia.
Il Poldi Pezzoli nasce con la matrice pubblico- privata
Poldi Pezzoli, nel suo testamento, crea un ente morale-fondazione artistica, riconosciuta per Regio Decreto nel 1881, legata dal punto di vista del regolamento all'Accademia di Brera. Il fondatore pensava alla formazione dei giovani, artisti ed artigiani, e in spirito risorgimentale voleva consegnare un patrimonio per il pubblico godimento. Un approccio da antesignano, in quanto in quel momento storico non c’era nulla di simile. Altri musei sono sorti, ma il Poldi Pezzoli aveva le premesse di lunga vita per una capacità visionaria di chi lo ha concepito, dotando contemporaneamente la fondazione di un vitalizio per renderla autonoma, coprendone i costi di gestione, ma soprattutto, com'era nelle sue intenzioni, per continuare ad acquistare opere antiche e della contemporaneità.
Conservare e produrre
Dopo le due guerre mondiali, con il museo distrutto nel ’43, la rendita non è più stata sufficiente a coprire anche la valorizzazione della produzione contemporanea. La storia di questa fondazione rinasce nel secondo dopoguerra. La ricostruzione è stata operata con fondi del ministero, grazie a Fernanda Wittgens che lottò affinchè avvenisse. E il Museo iniziò nel '51 la sua seconda vita e sono partiti da allora i progetti per trovare fondi dalla comunità.
Affascinati da The Monuments men, non possiamo non chiederle come sono state protette le opere durante la guerra
Erano state portate via, tutte. Messe in salvo nei caveaux di alcune banche, da persone sicure, che mettevano a disposizione luoghi lontani dal centro e, terminati i bombardamenti, in case milanesi quali casa Crespi; sono ritornate in museo quando i lavori sono stati ultimati, nel 1951. Alcune sono state danneggiate, ma pochissimo è andato disperso. Le opere più importanti erano state messe in salvo da Gian Alberto Dell’Acqua, allora Sovrintendente, figura fondamentale per la tutela del patrimonio.
Qual è il vostro modello di governance?
Il nostro consiglio di amministrazione ha avuto storie diverse. Pur essendo privato, per statuto, l’80% dei rappresentanti è stata, fino al 2011, di nomina pubblica, ma non dobbiamo pensare a personaggi della politica. Dal secondo dopoguerra si parla veramente di persone della società civile, quindi avvocati, professionisti, che cercano fondi, che cercano di coagulare intorno al museo le forze attive di una Milano che si riconosce nel museo, con la volontà di sostenerlo. Negli anni '60 si forma anche quella che è l'associazione Amici del Museo, che espande nel territorio questo collegamento e che arriva ad avere fino a 1200 soci.
Nomine pubbliche e denari pubblici?
Sempre meno. Al massimo complessivamente Comune, Regione, Provincia, Ministero per i Beni Culturali hanno coperto il 20% dei costi tra gestione e attività culturali. Nel DNA di tutte le persone che hanno lavorato per questa istituzione c'è stata la consapevolezza che, con diverse responsabilità, il primo gennaio di ogni anno si partiva col bilancio, dove le entrate erano zero, a parte gli ingressi che, rispetto ai costi di gestione, rappresentano una piccola percentuale.
Quindi proprio grazie ai Consigli che nel tempo hanno inventato delle iniziative - come ad esempio la “Dote per il Poldi Pezzoli”, una raccolta fondi promossa dal Sindaco di Milano e da Alberto Dall’Ora tra il 1984-86 per un coinvolgimento di tutta la popolazione, creando un senso di appartenenza. Grazie a ciò il museo è stato aperto ogni giorno, con un servizio didattico gratuito, le audioguide, come una casa della comunità. Un coinvolgimento della società civile, in termini di competenze e canali di comunicazione, perché da soli non si va da nessuna parte.
Avete anche un programma corporate?
Negli ultimi anni è stato sviluppato un programma di corporate membership, individuando delle fasce di affiancamento con quote che portano benefit, quindi opportunità di visite speciali a museo chiuso, incontri, meeting per sessioni di brainstorming-nuove per me, con una perplessità iniziale- e poi la visita. Sempre. Obbligatoria, perché il museo è non un contenitore neutro. Il museo non vuole indottrinare, ma ispirare le persone, legando la bellezza con la creatività e la progettualità. Un’esperienza, anzi una competenza che abbiamo costruito nel tempo con le diverse aziende. E’ per loro un modo diverso di pensare e di “stare” anche nella vita lavorativa. Dagli esiti di questo scambio, l’attuale Presidente Mario Cera ha letto delle opportunità e ha deciso di modificare lo statuto, introducendo la categoria degli Enti sovventori che, con un significativo contributo alla gestione, quindi non spot, possono entrare nel Consiglio di Amministrazione con un loro rappresentante.
Questo non ha creato delle criticità? Questo modello americano...
Non c’è da avere paura. E’ un modello di governo duale con un comitato di gestione per la quotidianità e un Consiglio di Amministrazione che si riunisce tre/quattro volte l'anno e delinea gli indirizzi. A tre anni di distanza devo dire che l'esperienza è positiva, molto.
Al di là della formula, poi sono le persone che debbono essere “giuste”. Ciò che mi ha colpito è che le persone nominate dagli enti sovventori sono entrate orgogliose di poter partecipare, orgogliose di essere presenti. Non mancano mai, sono professionisti.
Di quali aziende?
Camera di Commercio di Milano, Fondazione Banca Del Monte, Banca Popolare Commercio e Industria, Credit Suisse, Banca Popolare di Milano... Banche, non c'è un industria. Queste persone propositive creano link all’interno delle proprie competenze e conoscenze. Ad esempio il Presidente Mario Cera è uomo di legge, avvocato e docente di diritto commerciale all'Università di Pavia, oltre che Vice Presidente Vicario di Ubi, è un uomo che offre anche le sue competenze giuridiche per tante questioni del museo. Ovviamente in modo gratuito e anche questo vuol dire aiutare il museo.
Collaborate anche con altre aziende? Come le raggiungete?
Arrivano direttamente, tramite il sito o le agenzie di comunicazione che organizzano eventi e anche tramite i Consiglieri che hanno rivitalizzato il museo, grazie alle loro diverse competenze che spaziano dall’economia all’arte, dalla storia economica alla giurisprudenza, offrendo contributi di idee o di conoscenze, in una ”competizione” costruttiva e generosa.
Una poesia del bene comune
Fondamentale e si vede nelle risposte dei visitatori, sempre più esigenti in termini di partecipazione e di esigenze di conoscenza. Il pubblico è completamente cambiato negli ultimi dieci anni, quando le persone entravano "imparate", non guardavano i cartellini. Oggi c'è l’esigenza di una fruizione più consapevole e di partecipazione attiva. Il cambiamento non ci ha presi in contropiede e continuiamo a studiarlo, diamo l’audioguida gratuita, chiediamo un commento, affinché ci possa orientare. I commenti stanno diventando sempre più numerosi e incisivi, ricchi di osservazioni intelligenti e costruttive. Vengono categorie che non osavano entrare in questo luogo sontuoso, un po' nascosto, sicuramente aristocratico. Gli aperitivi in museo e il dialogo con il design hanno sciolto l’aura sacrale, ci sono stati ospiti inaspettati, soprattutto con la mostra in rete delle quattro Case Museo milanesi.
Avete rinnovato il linguaggio e coinvolto il pubblico
Completamente. Il primo a far uscire il museo dal severo palazzo è stato Italo Lupi, con la sua campagna innovativa di manifesti con ragazzi punk alla fine degli anni '80 diffusa anche in metropolitana che ha quadruplicato il pubblico. Rinnovare il linguaggio significa anche mettersi in ascolto, senza negare la missione che per noi è la ricerca, lo studio, la conservazione delle opere. Grazie alla generosa e indomabile Marta Marzotto, innamoratasi del nostro dipinto di Botticelli, è nato il Club del Restauro. Voleva legare la memoria della figlia al tema dell’immortalità. Ed è nato un nucleo di investitori che sostiene con interventi individuali o una quota annuale, i restauri del museo. Ma si tratta anche di creare piccole comunità di persone, che poi si incontrano, vanno a vedere una mostra, anche di arte contemporanea, dialogano intorno al museo. Tanti piccoli gruppi, perché noi siamo un museo piccolo, non possiamo ospitare delle folle oceaniche. E’ un’attività di coinvolgimento personalizzata, molto impegnativa, ma con ottimi risultati di fidelizzazione. Con le attività educative ci sono persone che tornano ogni mese, perché ogni volta c'è qualcosa di nuovo da vedere o da fare, anche in famiglia. Stiamo intervenendo anche con i malati di Alzheimer.
L’arte fa bene alla salute. Se funziona col malato di Alzheimer, funziona con tutti?
Conosco bene questa malattia, i danni dal punto di vista della memoria e della consapevolezza. Abbiamo creato un percorso con i terapeuti che hanno formato le guide e conducono i laboratori. Ci siamo messi in rete con altre realtà: con Palazzo Strozzi, con Gallerie d'Italia di Banca Intesa, con la Fondazione Manuli che ha promosso gli Alzheimer Cafè. Un’operazione per gli ammalati e per i loro famigliari, affinchè gestiscano il "dolore e rabbia" ritrovando l'affettività. La bellezza è catartica.
Credo molto nel gioco di squadra e continuo a cercarlo. Solo insieme si vince.
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