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Come può la prospettiva antropologica dar senso al dialogo interculturale? 

  • Pubblicato il: 15/07/2018 - 00:03
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Francesca Vittori

Marco Aime, torinese, insegna antropologia culturale all’Università di Genova. Autore di studi sulle popolazioni alpine e sull’Africa, oratore molto apprezzato e seguito in diversi contesti culturali, ha pubblicato numerosi saggi di studi antropologici. Lo abbiamo intervistato durante l'evento satellite di #ArtLab18 di Fondazione Fitzcarraldo a Genova, al workshop “La Cultura come possibilità”, con le organizzazioni culturali che si occupano di temi migratori. 


 
Come può la prospettiva antropologica dare senso al lavoro culturale? In base alla sua esperienza, quali sono le caratteristiche antropologiche comuni a diverse culture che costituiscono il nesso su cui innescare processi di dialogo interculturale e di significato comune?

La prospettiva antropologica lavora da sempre sull’idea di cultura e, col passare del tempo e con l’elaborazione di molti antropologi, si è arrivati a definire sempre di più la cultura come un processo e non come un dato. La cultura è qualcosa che noi costruiamo sempre in relazione a qualcun altro. La stessa antropologia, che nel suo nome un po’ presuntuosamente si è definita lo studio dell’uomo, di fatto non studia gli uomini ma in realtà studia quello che c’è tra gli individui, cioè le relazioni, il modello in cui gli individui si relazionano, ed è lì che nasce la cultura, è il modo con cui noi ci rapportiamo. Non a caso una delle ossessioni, lo dico ironicamente, degli antropologi, è il modello di parentela: tutte le società hanno costruito la parentela ma l’hanno fatto in modo diverso, ed è la parentela il primo modo di creare relazioni. Quindi bisogna partire già dall’idea che la cultura di fatto è un processo in continua elaborazione, come fosse un cantiere sempre aperto, in cui si smonta e si rimonta, e a volte si prendono anche pezzi da altri cantieri. Non pensiamo alle culture come dei meccanismi coerenti e organici simili a un orologio, sono piuttosto simili a quei vecchi motori che ogni tanto si inceppavano e poi con due bulloni e due martellate ripartivano. Le culture spesso prendono pezzi da altre culture e poi le rielaborano in modo totalmente autonomo. Questa è un po’ la lezione, cioè che ogni cultura di fatto ha già dentro di sé elementi di altre culture; il problema è che spesso tendiamo a definirla come nostra, come pura, come unica, come originale, quando di fatto siamo il prodotto di centinaia di migliaia di anni di scambi, di idee, di geni di vario ordine. 
 
Mi può fare un esempio di quanto le culture siano più interconnesse di quanto riusciamo a immaginare?

Due ambiti che si prestano molto bene sono il cibo e la musica.
Al giorno d'oggi si parla molto di piatti locali, piatti tradizionali, ed una volta ho sentito un Ministro dire “bisogna tornare come ai vecchi tempi a mangiare la polenta”. Ecco,  è da ricordare che fino alla scoperta dell’America il mais non c’era, e anzi è entrato nelle nostre campagne nel 1700. Lo stesso vale per il pomodoro e la patata, che ormai sono piatti tipici della nostra cultura.
La musica è un altro esempio di come quella che spesso chiamiamo musica tradizionale di un determinato paese, di una determinata area di mondo in realtà è il prodotto di influenze. Un mio caro amico musicologo, Guido Festinese, raccontava di aver intervistato quello che viene considerato il più grande musicista tradizionale polinesiano contemporaneo, e alla domanda quali sono le tue radici musicali, lui ha risposto i canti tradizionali della mia isola e i Beatles, perché da ragazzo per radio ascoltava i Beatles. Se prendiamo come radici i Beatles, Liverpool era il porto in cui arrivavano le navi dall’America con i dischi blues dei neri americani. Allo stesso modo il canto degli afroamericani quando incontra in America il folk irlandese fa nascere Bob Dylan: di fatto questi sono i meccanismi per cui oggi definiamo folk americano un genere che è l’incontro dell’Irlanda con il mondo africano.

Ha detto che l’antropologia studia le relazioni tra individui: ci sono delle peculiarità nelle relazioni che possono favorire il dialogo interculturale?

Sì, una relazione perché sia tale deve partire da un presupposto: che io devo riconoscere l’altro. Devo riconoscerlo in qualunque modo, ma devo riconoscerlo. Se non lo riconosco come mio simile, non nasce nessuna relazione; una relazione buona o cattiva deve partire dal riconoscimento, ed è questo che a volte manca oggi. Poi ci sono modi e modi: noi purtroppo oggi viviamo in un’epoca in cui l’altro, lo straniero, viene vissuto come icona e portatore di ogni male. Non è sempre stato così, né nello spazio, né nel tempo, basta pensare per esempio all’Odissea. Ulisse, quando approda nelle varie isole, a parte con Polifemo, viene sempre accolto bene, curato e nutrito, perché lo straniero è anche un portatore di novità e di fortuna, quindi non sempre lo straniero è visto così.

Per esperienza personale posso raccontare che nell’area del Sahel, in tutte le case appena entrati nel cortile, in genere all’ombra, c’è un vaso di terracotta pieno d’acqua; chiunque, non importa da dove venga, può entrare, sedersi e bere acqua, perché l’accoglienza è un dovere e in questo caso è possibile riscontrare il riconoscimento dell’altro. Da altre parti dell’Africa c’è ad esempio un modo di relazionarsi col diverso che viene chiamato “Metodo della relazione scherzosa”. Tra alcuni gruppi etnici africani, tra i quali intercorre questo tipo di relazione, se ci si incontra invece di salutarsi normalmente ci si insulta sui luoghi comuni, sullo stereotipo che io ho dell’altro e poi ci si abbraccia. Questo sistema è un modo secondo me molto acuto e sottile di non negare la differenza, anzi, la si sottolinea, perché viene detto quello che si pensa dell'altro, però allo stesso tempo la si può mettere sul piano dello scherzo e la differenza può convivere. Spesso il problema che si riscontra, e devo dire che molte colpe le ha anche l’antropologia, soprattutto nell’epoca classica, cioè tra gli anni ‘10 e gli anni ’60-’70 del ‘900, quando si è sviluppata la grande antropologia, è la tendenza che c'è stata sia a produrre opere monografiche in cui ogni antropologo picchettava il suo popolo, la sua etnia, sia a descriverne soprattutto le differenze; si esaltava ciò che di diverso aveva dai vicini e magari era il 10% e il 90% era assolutamente uguale, però ogni antropologo cercava di distinguersi dicendo “i miei fanno così, a differenza di quelli lì”.

Questo poi è anche un procedimento su cui molto spesso, in modo più impulsivo, emotivo, di pancia, facciamo tutti, cioè tendiamo a vedere la differenza e non invece quello che ci potrebbe accomunare. Lo posso raccontare con un aneddoto: molti anni fa, credo fossero gli anni ’70, abitavo in un quartiere nel centro di Torino, ricordo di aver incontrato un anziano pensionato al circolo di bocce che frequentava con i suoi coetanei, che aveva comprato un portacenere che mi ha detto in dialetto piemontese “l’ho comprato da un marocchino, però era una brava persona”. Poi, continuando a chiacchierare con lui, ricordo che ad un certo punto mi racconta che erano al circolo dove lui giocava a carte e bocce con i suoi coetanei, un signore marocchino gli offre un caffè e l’anziano mi racconta “sai, abbiamo cominciato a parlare e questo signore mi raccontò che è dura essere lontani dalla famiglia, da soli, in un paese in cui tutti ti guardano male e ti trattano male, e io lo capii perché sono stato sette anni in Belgio e so cosa vuol dire essere lontani, essere maltrattati”. Cosa era successo paradossalmente? Che in quella mezz’ora questo signore piemontese col suo tasso endemico di razzismo, senza volerlo, aveva estratto dalla categoria marocchini che per lui non erano brave persone questo signore, e si era rapportato da uomo a uomo, scoprendo di avere in comune un’esperienza drammatica, difficile, dura come quella dell’emigrazione, che probabilmente non condivideva con i suoi coetanei con cui giocava a bocce. Quindi a volte, se andassimo al di là del luogo comune come nella scena del bellissimo film di Clint Eastwood, Gran Torino, in cui Eastwood interpreta il bieco americano razzista che ha combattuto in Vietnam e che odia gli asiatici e che poi quando conosce realmente i vicini di casa asiatici dice di avere più in comune con loro che con i suoi figli, ecco, semplicemente conoscendo andremmo al di là del luogo comune. 

Credo quindi che il problema delle relazioni sia duplice: il riconoscimento e il dialogo. La maggior parte di coloro che oggi strepitano contro chi arriva non hanno mai parlato con loro. Non voglio dire che sia semplice e che sempre accada così, non accade così neanche tra di “noi”, però è anche vero che se inchiodiamo le persone all’etichetta che abbiamo di loro non avremo mai la possibilità di conoscerli.  Ci si accorge invece che magari dialogando con una persona che magari è di fede diversa o altro, che anche gli altri sono disposti a negoziare e quindi si può benissimo arrivare a dei compromessi.

Racconto ancora un aneddoto che mi ha raccontato Ilda Curti, che è stata assessore a Torino alle periferie, in una visita in un campo nomadi a Torino. Ilda vide il capo che aveva la Mercedes con sopra immagini di Padre Pio e chiedendogli se lui non fosse mussulmano, lui rispose “Beh, La Mecca è lontana e Dio è uno solo”. Aveva risolto a modo suo una questione teologica. Non dobbiamo pensare che siano tutti dei fondamentalisti: la gente tende a mediare come tendiamo a mediare tutti noi. Se a volte non partissimo dal pregiudizio e dialogassimo, scopriremmo di avere magari più cose in comune rispetto a quelle che ci distinguono, e quelle che ci distinguono non è detto che non permettano di convivere. Anche perché, voglio dire, anche tra di noi ci sono differenze, non siamo uguali, però abbiamo la presunzione di pensarci uguali e che gli altri siano tutti diversi. Non è casuale che molto spesso quelli che più strepitano e urlano contro gli stranieri siano quelli che non ne hanno mai incontrato uno. Al Suq festival ho parlato di questo libro “L’isola del non arrivo. Voci da Lampedusa”, di questa ricerca che ho fatto a Lampedusa. Ero partito proprio dalla domanda: “come mai i lampedusani non protestano?”. La risposta è: “perché i lampedusani incontrano persone, li vedono in faccia e nel momento in cui tu sei lì, sul molo, e vedi arrivare delle persone, non è più nero, non è più musulmano, è uno che ha freddo, che ha paura, che ha fame e che ben venga che si sia salvato.” Non è che siano più buoni, è che riconoscono la persona.