Cinque economisti e un banchiere «mondiale» consigliano l’Italia 
Potreste fare così
Economisti della cultura e un manager che per molti anni ha gestito per la Banca mondiale progetti di sviluppo basati sulla valorizzazione del patrimonio culturale. Li abbiamo intervistati in occasione del «Master in World Heritage and Cultural Projects for Development» dell’Università e del Politecnico di Torino, svolto il 29-30 maggio in partnership con l’International Training Centre dell’Ilo e il World Heritage Center dell’Unesco.
DAVID THROSBY – Australia
Chi è: australiano, settantenne, è uno dei padri fondatori della disciplina. Dal 1974 è professore di Economia alla Macquarie University di Sydney.
Da leggere: Economics and culture (Cambridge University Press, 2001), il libro più diffuso sul tema, tradotto in sette lingue tra cui l’italiano (Economia e cultura, il Mulino, 2005); il suo seguitoEconomics of Cultural Policy (Cambridge University Press, 2010) apre un dibattito sul valore pubblico della cultura.
La sua visione: i cerchi concentrici della cultura.
Il sistema culturale ha una struttura a cerchi concentrici con al centro le arti visive, performative e letterarie, che guidano l’innovazione originando la creatività nei cerchi successivi. Il lavoro degli artisti e le loro idee si muovono dal centro attraverso i vari livelli del modello: verso i musei, il cinema, la fotografia, le biblioteche e gli archivi, prima, e poi verso l’editoria, la televisione, i media e, più in là, verso la pubblicità, la moda, il design, l’architettura. Il processo di diffusione non è però a senso unico, ma avviene come un’osmosi in tutte le direzioni. Si crea un mondo del lavoro in cui molti si formano nel centro e poi lavorano in settori completamente differenti.
Quale consiglio per l’Italia?
«Esito a offrire consigli, ma penso che l’agenda sulle industrie culturali e l’economia della cultura debbano avere un ruolo fondamentale nelle riunioni di Governo. Oggi sappiamo che la politica culturale riguarda più Ministeri, coinvolge istruzione, commercio, sviluppo industriale e tutte queste componenti devono essere coordinate in una politica culturale. Il ministro della Cultura dovrebbe coordinare le attività culturali dei diversi Ministeri».
ALLEN J. SCOTT – Stati Uniti
Chi è: inglese di nascita, ma anche cittadino americano e canadese. Settantenne, è professore emerito di Politiche pubbliche e Geografia economica alla University of California, Los Angeles, dove ha insegnato dal 1981 al 2003.
Da leggere: The Cultural Economy of Cities (Sage Publications, 2000) fonda il ragionamento sul binomio città-creatività; in italiano lo sviluppa Città e regioni nel nuovo capitalismo (il Mulino, 2011, traduzione di Social Economy of the Metropolis: Cognitive-Cultural Capitalism and the Global Resurgence of Cities, Oxford University Press, 2008); il più recente è un trattato esaustivo sul temaA World in Emergence: Cities and Regions in the 21st Century (Edward Elgar, 2012).
La sua visione: la città postmoderna dell’economia della cultura.
L’ordine economico del mondo è passato dalla manifattura e dalla produzione di massa a una nuova economia basata su creatività intellettuale, industria culturale e produttività innovativa. Le tecnologie digitali hanno cancellato il lavoro standardizzato e ciò che conta sono le abilità cognitive. Le industrie creative come cinema, musica, videogiochi, moda, design, architettura sono il fulcro dello sviluppo economico ovunque nel mondo
e sono localizzate nei maggiori centri metropolitani, compresi quelli che furono la periferia del mondo come Hong Kong, Shanghai, Pechino, Singapore, Bangkok, Città del Messico, Buenos Aires, San Paolo. Una nuova economia cultural-cognitiva per Paesi a diversi stadi di sviluppo.
Quale consiglio per l’Italia?
«La grande ricchezza di tradizioni, arte, architettura e altri beni culturali italiana ha determinato la forte tentazione di concentrarsi solo sulla conservazione. Penso che ora occorra guardare alla nuova economia culturale italiana, con le nuove industrie culturali e creative che si stanno sviluppando sempre di più: gioielli, moda, architettura, editoria, enogastronomia. Settori potenzialmente molto importanti dell’economia, anche rispetto alla capacità d’esportazione, che vanno sostenuti».
ANDY PRATT – Gran Bretagna
Chi è: inglese, cinquantenne, da settembre 2013 è professore di Economia della Cultura alla City
University di Londra, città dove ha insegnato questa materia passando prima dall’University College London, dalla London School of Economics e dal King’s College.
Da leggere: Creativity, innovation and the cultural economy (Routledge, 2009) una raccolta di saggi sull’innovazione in diversi settori della cultura, curata con Paul Jeffcutt.
La sua visione: il settore culturale opera tra profit e non profit.
La cultura e i prodotti culturali costituiscono una parte importante e crescente di tutte le economie e presentano un grande potenziale per la creazione di nuovi posti di lavoro e professionalità. È interessante ciò che avviene nelle interrelazioni tra i settori profit (come l’industria cinematografica
e discografica) e quelli non profit e informali. In ogni area del settore culturale ci sono operatori che lavorano in parte nel non profit, sovvenzionato
sia dallo Stato sia dal mercato profit. Nella cultura, profit e non profit vanno insieme. L’economia creativa nell’Europa continentale può essere capita solo studiando la tensione tra questi due mondi e non, come spesso accade, sbagliando, affrontando i due temi separatamente.
Quale consiglio per l’Italia?
«Penso che tutti i Governi stiano affrontando la sfida di una rapida transizione dell’economia della cultura, un problema più difficile in Paesi come l’Italia che da sempre hanno investito tempo
ed energie per conservare il paesaggio costruito. L’area emergente, quella che dovrebbe essere all’inizio dell’agenda, riguarda il futuro, dove le nuove professioni e le nuove aree di attività produttiva stanno nascendo. Alcuni accademici proprio in Italia stanno portando avanti un lavoro innovativo nel guardare alla relazione tra le nuove tecnologie e la conservazione delle collezioni museali. Questa è proiezione verso il futuro: nuove tecnologie e dialogo vivo con il passato».
XAVIER GREFFE – Francia
Chi è: francese, sessantenne, è professore di Economia presso l’Università di Parigi 1 - Panthéon-Sorbonne, dove dirige il Master in Economia e gestione della cultura e il Dottorato in Economia dell’arte.
Da leggere: molti i libri in francese e sulla Francia, tra cui La politique culturelle en France (La documentation française, 2009); di sguardo generale sul cambiamento dell’artista da bohémien a imprenditore è L’artiste-entreprise (Dalloz, 2012); in italiano La gestione del patrimonio culturale(Franco Angeli 2003, ristampa 2011) in cui si pone la domanda se il patrimonio culturale sia un fattore di sviluppo o un peso per la società.
La sua visione: la cultura è anche un «bene intermedio».
Oggi la sfida per l’economia della cultura è dimostrare chiaramente che esistono effetti molto positivi sull’economia e sulla società. Ne è esempio l’introduzione delle arti nei programmi scolastici: fa aumentare del 50% le probabilità di successo negli studi, con un enorme risparmio di denaro. Questa valutazione è più importante del finanziare un festival perché bello e ben fatto: è un fattore rilevante, ma con una visione a breve termine. In realtà la cultura è un investimento, migliora la qualità dei prodotti, dei servizi sociali alla persona, l’integrazione e così via. Per molti
questo ruolo della cultura come atto di «consumo intermedio» invece che «finale» è sminuente. Gli artisti spesso si sentono strumentalizzati se coinvolti in qualcosa che non è creatività artistica pura.
Quale consiglio per l’Italia?
«Il Governo francese da molti è considerato un benchmark perché spende molto in cultura e, in proporzione al Pil, investe 5 volte l’Italia. Inoltre le amministrazioni locali spendono quasi quanto il Governo centrale. Ma anche l’Italia è un benchmark per la ricchezza della sua cultura. Credo che le industrie creative italiane, come l’architettura, un grande vanto fin dal passato, dovrebbero oggi essere supportate molto di più.
Se la vastità del patrimonio culturale e creativo italiano è allo stesso tempo anche un problema, poiché è molto più difficile riuscire a finanziare ogni cosa, andrebbero riviste le politiche in una logica di investimento e di riduzione della burocrazia. In Italia i manager del settore culturale sono, per esempio, molto più anziani che in Francia, Paese in cui chi si prende la responsabilità di un’istituzione culturale deve presentare un progetto che viene discusso e che, se approvato, deve essere implementato».
LLUIS BONET – Spagna
Chi è: spagnolo, cinquantenne, professore di Economia applicata e di Economia della cultura all’Università di Barcellona dal 1988, dove dirige i programmi di Master, Dottorato e formazione continua in Gestione culturale.
Da leggere: numerosi scritti in spagnolo e sulla Spagna; in italiano La fine delle culture nazionali?(Armando editore, 2010), una raccolta di saggi su globalizzazione e politiche culturali, curata con Emmanuel Négrier.
La sua visione: la cultura motore per la crescita economica locale.
Guardando alla Spagna si trovano esempi positivi e negativi. È un Paese fortemente decentralizzato. L’Amministrazione centrale fa una piccola parte rispetto alle amministrazioni locali e alcune città investono molto in cultura, mentre altre non investono affatto. Ai grandi successi, come Bilbao e Barcellona, si contrappongono altri esempi ad alto rischio di insuccesso o del tutto negativi, con progetti in cui si sono sperperati soldi, perse opportunità e sono stati costruiti grandi edifici senza un vero contenuto, senza comprendere che bisogna attuare processi dal basso,
non solo top-down. Nell’insieme il caso spagnolo ha però dimostrato che in 30 anni è possibile passare da un settore culturale molto sottosviluppato a delinearne uno abbastanza avanzato.
Quale consiglio per l’Italia?
«L’Economia della cultura è uno strumento per analizzare un settore, ma allo stesso tempo è un approccio più profondo per capire come la nuova economia stia cambiando. Penso che in Italia si dovrebbe sviluppare una visione strategica che parta da un preciso studio diagnostico della situazione attuale e poggi su un’idea chiara del ruolo che la cultura può ricoprire per il futuro del Paese nei prossimi 10 anni. In particolare, in un momento di crisi economica e finanziaria, bisogna definire che cosa si può salvare e che cosa no, oltre a come investire negli aspetti strategici. Se il Ministero semplicemente tagliasse la stessa percentuale ovunque sarebbe un errore colossale. Serve quindi avere personalità forte e mentalità aperta, una visione del futuro e la capacità di capire i reali bisogni di un settore che non è mai scontato».
ANTHONY BIGIO – Vari Paesi, per la Banca Mondiale
Chi è: italo-americano, sessantenne, fino a pochi mesi fa senior specialist dell’Unità di Sviluppo Urbano della Banca mondiale e coordinatore delle attività della Banca mondiale nel campo dei beni culturali e del turismo sostenibile, oggi professore di Pianificazione urbana sostenibile alla George Washington University.
La sua visione: turismo sostenibile e beni culturali servono per lo sviluppo.
Le medine o i centri storici nei Paesi in via di sviluppo sono ambienti urbani molto degradati, aree un tempo maestose dove oggi si rifugia la popolazione più povera, al contario dell’Europa dove il centro ha alti valori immobiliari e abitanti facoltosi. Con l’obiettivo di perseguire la riduzione della povertà e la crescita inclusiva, la Banca mondiale lavora con progetti di housing, accessibilità, accesso idrico e sanitario, ridisegno di spazi pubblici in una logica di turismo sostenibile. Azioni che vanno prima di tutto a favore dei residenti, ma che servono anche ad accogliere i turisti in luoghi presentati e mantenuti più efficientemente, con monumenti ben conservati e con una segnaletica stradale che funziona: emerge un turismo lontano dall’idea dei grandi alberghi in cemento, capace di creare opportunità imprenditoriali per gli operatori locali su piccola scala, riabilitando edifici e trasformandoli in hotel caratteristici o bed & breakfast o in sede per attività artigianali. Anche l’artigianato, attività culturale che tipicamente insiste su queste aree, incrementa infatti l’attrattiva del luogo e genera opportunità di lavoro.
Quale consiglio per l’Italia?
«L’Italia ha un’immagine molto forte, a livello internazionale, nel campo della cultura e della gestione della cultura. Questo asset dovrebbe essere strategico. È diffusa l’idea che in Italia ci siano alte competenze, a livello accademico e professionale, per gestire le città storiche e conservare l’incredibile patrimonio di risorse culturali accumulato nei secoli. Competenze costruite per rispondere alle sfide del Paese che dovrebbero essere esportate con molta più decisione. Penso che il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo dovrebbe cercare di rendere il più efficiente possibile questa opportunità, intimamente connessa al brand italiano, specialmente se l’Italia sta cercando nuovi modi di definirsi e di generare attività economiche. L’esportazione dei servizi nella gestione dei beni culturali è un’opportunità importantissima».
da Il Giornale dell'Arte numero 343, giugno 2014
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