APPUNTI DI VIAGGIO: VERSO UN WELFARE CULTURALE
Prosegue l’esplorazione del Giornale delle Fondazioni per la definizione di un termine che ricorre: cosa intendiamo per “welfare culturale”?. La parola in questo numero al giovane sociologo Bertram Niessem che lancia un allarme. A risorse pubbliche in contrazione, “ quale tipo di cultura (e quindi, in ultima istanza, quale tipo di paese) potrebbe risultare da una società che focalizzi i propri scarsissimi investimenti pubblici in termini strettamente funzionali che concepiscono la produzione culturale come "soluzione" a dei "problemi"? Dalla nostra lettura dello scenario “ri-lanciamo la palla”: una soluzione a problemi o una traduzione della missione delle istituzioni culturali che veda le persone (e con loro l’ambiente) al centro, senza negare, anzi stando nella sperimentazione? Impossibile? E’ solo un problema di risorse?
L'uso del termine "welfare culturale" è allettante.
Il costante restringimento del finanziamento pubblico negli ambiti del sociale e della salute dei cittadini è un fenomeno che procede con velocità diverse da decenni.
Pensare a un intervento dello Stato nell'ottica dell'uso della Cultura come strumento di costruzione di benessere e di coesione sociale sui territori evoca immagini confortanti di lontani lidi socialdemocratici nei quali la Pubblica Amministrazione non è patrigno autoritario, ma madre amorevole che si fa carico della piena realizzazione delle aspirazioni dei cittadini.
In un'ottica più contemporanea, si può pensare al welfare culturale come all'organizzazione di sistemi di rete di produzione culturale diffusa finalizzati al miglioramento della qualità della vita messi in atto da soggetti ibridi, in una commistione di processi top-down e bottom up che rispondono in modo puntuale alle necessità di territori e comunità specifiche; in questo caso il settore pubblico diviene "partner state", una struttura di facilitazione ed abilitazione di pratiche di innovazione sociale situate.
Per considerare entrambe queste visioni è necessario confrontarsi con alcuni dati duri ed inequivocabili.
L'Italia è il paese in Europa con la percentuale di spesa pubblica per l'istruzione più bassa: nel 2014, 7,9% contro una media europea del 10,2%.
Per quello che riguarda la spesa pubblica destinata alla cultura, siamo penultimi con 1,4% rispetto ad una media EU del 2,1%.
Se da un lato è estremamente promettente immaginarsi lo sviluppo di un settore che unisca la progettazione, la produzione e la distribuzione culturale a pratiche che rendono coese le comunità, che mettono in relazione il "bello" con il miglioramento della salute e la qualità della vita, ci si deve interrogare su quale tipo di cultura (e quindi, in ultima istanza, quale tipo di paese) potrebbe risultare da una società che focalizzi i propri scarsissimi investimenti pubblici in termini strettamente funzionali che concepiscono la produzione culturale come "soluzione" a dei "problemi".
Quasi nulla della produzione culturale dell'ultimo secolo è stato creato in un'ottica "soluzionista" di questo tipo. Non la musica che ha segnato i momenti importanti delle nostre vite, non la letteratura e il cinema che ci hanno fatto immaginare quelle degli altri, non l'arte che ci ha riempito di meraviglia, terrore o sbigottimento. Nè, soprattutto, la mole enorme di sperimentazioni, ricerche, tentativi abortiti che non arrivano al grande pubblico ma che costituiscono la premessa ineludibile alle produzioni meno di nicchia. Questa ricchezza è stata prodotta grazie all'intervento costante del settore pubblico che ha creato le condizioni culturali contestuali perché si potessero sviluppare sia l'iniziativa privata che l'effervescenza culturale diffusa.
La presenza massiva dello Stato nel finanziamento della cultura-in-quanto tale non può essere elusa, e dovrebbe costituire il contrappeso inevitabile ad ogni idea di sviluppo di welfare culturale.
In altri termini, se non ci si pone la priorità politica di un aumento massiccio del finanziamento pubblico alla cultura (in un'ottica che può benissimo essere non assistenzialista, innovativa, efficiente ed intelligente; basta volerlo), “il welfare culturale” rischia di essere un'ulteriore scusa per una classe dirigente colpevolmente disattenta per immobilizzare il paese.
Ma visto che ci meritiamo più di questo, ben venga il “welfare culturale”, come "altra gamba" di un ideale raddoppio della spesa complessiva in cultura.
Bertram Niessen, sociologo, direttore scientifico cheFare
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Ph: Ospedale S. Anna "#naticonlacultura", credits Anna Maria Ottaviani