Ancora Parchi archeologici, i miglioramenti possibili
«Area territoriale protetta di interesse archeologico e naturalistico attrezzata come museo all’aperto. A livello normativo, il concetto di p. a. è stato definito nel 2004 dal Codice dei beni culturali e del paesaggio che, nella sezione dedicata alla fruizione e valorizzazione (…), lo qualifica appunto come «un ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come museo all’aperto». Il p. a., che il Codice inserisce tra gli istituti e i luoghi di cultura, si distingue dall’area archeologica, che consiste più specificamente in «un sito caratterizzato dalla presenza di resti di natura fossile o di manufatti o strutture preistorici o di età antica» (Treccani Lessico del XXI secolo).
La definizione della Treccani.it costituisce l’essenza di decenni di studi e ricerche, tentativi e realizzazioni, più o meno fortunate: gli esiti contemporanei delle pioneristiche ricerche immortalate nelle foto delle Soprintendenze archeologiche, con gli scavi Falchi della fine dell’Ottocento nella Necropoli di Poggio di Guardia a Vetulonia, oppure delle ricognizioni dei viaggiatori del Grand Tour alla fine del Settecento, documentate dalle vedute di Agrigento con il tempio della Concordia in primo piano.
Molte le attese andate deluse in merito «all’area di solito acquisita dallo Stato, da una Regione o altro ente locale, sottratta a usi liberi e generali per essere destinata alla tutela e valorizzazione di un contesto di risorse culturali archeologiche, per la loro importanza ed evidenza non altrimenti difendibili e fruibili», secondo la definizione di Giorgio Gullini nell’Appendice del 2000 all’Enciclopedia italiana. Lo indiziano le notizie provenienti da diversi siti. Il nobile intento iniziale di creare dei luoghi nei quali le testimonianze archeologiche potessero raccontarsi in una felice liaison tra tutela e valorizzazione è stato tradito da risorse insufficienti e da incapacità tutt’altro che episodiche.
Le «Linee guida per la costituzione e gestione dei parchi archeologici», definite dal nel 2008 dal gruppo di lavoro istituito con decreto del Ministro dei Beni e le attività culturali, sono un riferimento normativo troppo spesso lontano dalla realtà. E’ così che muovendosi tra i due tipi di p. a., ovvero quello perimetrato, in cui la componente storico-archeologica risulta particolarmente significativa o evidente, e quello in rete, in cui i sistemi complessi di emergenze archeologiche sono collegati in base a prospettive di carattere tematico o tipologico, sincronico o diacronico, le criticità quasi si rincorrono. Vegetazione spontanea che cresce indisturbata. Pannellistica di supporto alle visite spesso insufficiente. Carenza di sorveglianza, eventuale ausilio per i fruitori oltre che deterrente contro potenziali atti di vandalismo.
Anche gli elementi per valutare la qualità dell’offerta, perché sic et simpliciter in questo modo deve intendersi un’area archeologica aperta al pubblico, variano. Ma è innegabile che il dato più immediato, anche se talora ingannevole, sia il numero degli ingressi. Ebbene, come considerare i 219 visitatori che nel 2014, secondo la rilevazione 2014 del Mibact, hanno deciso di recarsi al parco archeologico di Serra di Vaglio, in Basilicata? Numeri peraltro in contrazione rispetto all’anno precedente, quasi offensivi per l’impianto di fine VI-V secolo a. C. con le strutture a pianta rettangolare, allineate lungo l’asse viario basolato e il possente recinto murario di IV secolo a. C. Paganti in calo e comunque esigui anche per il Parco Archeologico e il Museo di Locri. Nel 2014 sono stati 14.886 gli ingressi alla città dai templi arcaici e dal teatro del IV secolo a. C. Un pezzo della storia della Magna Grecia per pochi.
Ma anche nei casi nei quali sia documentata una crescita del pubblico non sembra possibile ritenersi soddisfatti. E’ il naturale appeal dei luoghi, la conoscenza indiretta dei siti, ad attrarre. Più dei servizi offerti. Questo sembra accadere a Monte Sannace, a pochi chilometri da Gioia del Colle, in Puglia, 2.407 visitatori nel 2014. Lo stesso si verifica all’antica Aeclanum, a Mirabello Eclano, in provincia di Avellino. Nel 2014 visitata da 8.216 turisti.
Coniugare, come si dovrebbe, le esigenze archeologiche con quelle legate alle componenti geografiche, geologiche, naturali e ambientali appare operazione complessa. Così come legare gli aspetti connessi alla gestione con quelli dei servizi.
La sensazione è che le grandi aree archeologiche con cifre record relativamente agli ingressi finiscano per calamitare l’attenzione generale, anche attraverso l’azione dei media. Circostanza questa che rischia di aumentare ulteriormente il gap con la gran parte degli altri siti, meno noti e meno pubblicizzati, finendo per marginalizzarli, continuando a lasciarli fuori dai grandi circuiti turistici.
E così che nel diversificato panorama italiano anche parchi archeologici di primo piano rischiano di rimanere in ombra. Proprio come accade al sito di Canne della Battaglia, tra Barletta e Canosa di Puglia, luogo dello scontro tra romani e cartaginesi nel 216 a. C. Mura di cinta, la Basilica minore e quella maggiore sulla cittadella e a sud-ovest il villaggio apulo. Un insieme di testimonianze conservate nell’area della battaglia della Seconda Guerra Punica. Un mix di resti sostanzialmente derubricati a questione locale.
L’opposto di quanto pianificato ad Alesia, in Francia, nell’area in cui nel 52 a. C. le tribù galliche di Vecingetorige furono sconfitte dall’esercito romano guidato da Giulio Cesare. Nel luogo della battaglia che assume un grande significato per il popolo francese, spostato rispetto al sito dell’abitato documentato da indagini archeologiche, la Pubblica Amministrazione francese ha deciso di realizzare un Museo ed un centro interpretativo. Edificato tra il 2009 e il 2012 su progetto di Bernard Tschumi Architects ed aperto al pubblico nel marzo 2012. Nel confronto tra Canne della Battaglia ed Alesia, nell’impegno profuso dai differenti organi statali c’è forse la risposta alle tante defaillance italiane nella governance del Patrimonio archeologico. Nell’offerta proposta osservabile nei rispettivi siti online la cifra delle differenze. Nella solitudine del p. a. pugliese e nel successo di quello francese l’esito di politiche culturali evidentemente di segno opposto.
Fortunatamente esistono possibilità e strumenti per affrontare con successo l’emergenza, costruendo un sistema nel quale tutela e valorizzazione divengano finalmente fasi osmotiche di un unico processo. Siano, insomma, in relazione e non in contrapposizione tra loro, come talora si verifica. In questo il caso di Ercolano appare paradigmatico, oltre che istruttivo. Esempio virtuoso è quindi l’area archeologica nella quale la gestione è appannaggio di una fondazione straniera.
I capitoli sui quali poter intervenire sono evidenti. Le risorse da un lato e le competenze dall’altro. Per quanto attiene le prime, la già richiamata esiguità di finanziamenti statali sui quali poter contare costituisce un evidente limite nella gestione dei p.a. A questo dovrebbe provvedere il maggior coinvolgimento dei privati, sia profit che no profit, come promosso dal recente Art bonus. Il credito d’imposta al 65% in tre anni per le donazioni a favore di interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, stabilito dal provvedimento, un incentivo a finanziare. Tuttavia è inequivocabile che anche in presenza di queste “facilitazioni” il privato continui ad essere naturalmente attratto dai siti più noti. Da quelli il cui nome già di per sé costituisca un riconosciuto brand. E’ così che al di là delle ambizioni che l’introduzione dell’Art Bonus autorizzava, gli interventi faticano a fornire il supporto sperato, atteso da molti.
Sarebbe auspicabile che lo Stato, invertendo decisamente la rotta rispetto soprattutto agli ultimi venti-trenta anni, decidesse di rivedere il ruolo e la sua spesa, investendo in modo più cospicua e sistematico: lo spazio si può recuperare dalla razionalizzazione della spesa della pubblica amministrazione, realizzando al contempo progetti articolati, capaci di impegnare con reale profitto le risorse disponibili. Così gli effetti positivi sui siti probabilmente si amplificherebbero, migliorando l’offerta complessiva di molti di essi, rendendoli più attrattivi anche per il privato.
Nell’equazione ipotizzata, Stato forte= privato più interessato, un ruolo tutt’altro che secondario dovrebbe rivestire un restyling delle competenze. Le figure professionali, anche nel campo dei Beni Culturali, hanno necessità di adeguarsi alle mutate esigenze, di evolvere nelle competenze. Necessaria quindi una riorganizzazione nella quale gli organi preposti alla tutela e alla valorizzazione sappiano conciliare capacità tecniche e quelle manageriali. “Un’area archeologica ha valore in quanto permette di prendere visione reale e concreta dell’ambiente nel quale le antiche società hanno fissato la propria dimora, costruite le proprie sedi e svolto le proprie attività produttive”. Scriveva così Pier Giovanni Guzzo nel 1988, introducendo alcune proposte sull’istituzione dei Parchi archeologici in Puglia in un seminario su “I siti archeologici. Un problema di musealizzazione all’aperto”.
Il fatto che, visitando diversi Parchi archeologici italiani, il “valore” richiamato da Guzzo sia troppo spesso assente, segna la situazione italiana. Da modificare, con coraggio.
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