Alfredo Pirri. Passages romani
LA PAROLA AGLI ARTISTI. Le opere di Alfredo Pirri, nel dialogo osmotico tra il dentro e l'intorno, nell'esplorare la dimensione acustica dei luoghi e delle opere in rapporto ai luoghi, stabiliscono una mutua corrispondenza con lo spazio in cui sono ospitate. Con l'artista scopriamo i “I pesci non portano fucili", la mostra antologica che il MACRO Testaccio gli dedica. Membro della commissione scientifica di ARCHITEXTURE, il percorso formativo ideato e promosso da Fondazione Exclusiva, con lui proseguiamo la ricerca condivisa SAPER FARE, SAPER ESSERE
(Alfredo Pirri, tratto da un’intervista a Flash Art 2004)
Nella riscoperta dell'atto cerimoniale, nel cogliere il senso degli spazi, come un prisma – come gli specchi che incontriamo – il percorso espositivo riflette lo spazio e la luce, reali e potenziali, che mutano in rapporto a chi li osserva.
Nell'importanza della relazione “partecipativa” dell'opera, in cui però la presenza dell'autore non viene meno ma è forte - non firma, ma atto di responsabilità - l'immagine appartiene a sé stessa per generare immaginazioni, pensieri, parole. Un'immagine che si auto-genera e che assume su di sé la responsabilità della propria esistenza.
Al Macro Testaccio, fino al 4 giugno 2017, la prima mostra antologica a lui dedicata: “I pesci non portano fucili", a cura di Benedetta Carpi De Resmini e Ludovico Pratesi.
Ne parliamo con Alfredo Pirri.
“I pesci non portano fucili", la prima mostra antologica a te dedicata. Un itinerario che spazia tra pittura, scultura, lavori su carta e opere ambientali. Un momento per fermarsi a riflettere sul proprio lavoro e tracciare linee per il futuro?
Nel processo avviato, di cui questa mostra è il momento conclusivo, non esiste il tasto pausa. Questa mostra non è l’immagine raggelata e ferma di un film in movimento, al contrario ne è un pezzo intero, il capitolo altrettanto dinamico di un lavoro che va avanti da metà degli anni ottanta. Le opere dialogano fra loro a distanza temporale e non sempre cronologicamente e, insieme al cosiddetto allestimento, sono una cosa sola. Un unicum fra opere e spazio progettato che immaginavo da tempo di realizzare. La mostra è pensata come un percorso cittadino in cui si alternano strade, vicoli e piazze, e dentro questo via-vai le opere appaiono a punteggiare l’orizzonte come parte integrante della vita quotidiana di una città, il suo paesaggio interiore, la sua prospettiva visiva, lo sfondo dentro cui adagiarsi e riposare. Lo spettatore in tal senso, torna a essere quel camminatore senza meta che Walter Benjamin immaginò come abitante ideale della città del secolo scorso insieme a un passeggiatore contemporaneo maggiormente distratto ma non per questo astratto dal contesto in cui si muove. Le tracce di futuro compaiono sempre nel mio lavoro dentro ogni singola opera del presente, nessuna di esse è mai veramente soddisfatta della propria conclusione, aspira sempre a divenire qualcosa in più rispetto al suo stato. La mostra è da intendersi come un prisma formato da differenti sfaccettature ognuna delle quali riflette la luce in maniera differente asseconda dell’angolo visuale del visitatore. Ognuno di queste facce e di queste opere è destinato quindi a proiettare una differente luce che cambia sempre in rapporto a chi la guarda in quel momento specifico.
“I pesci non portano fucili". Cosa cela il titolo e a cosa fa riferimento?
Il titolo è tratto da un romanzo dello scrittore Philip K. Dick intitolato “The Divine Invasion”. La storia narra di una piccola comunità, di cui il personaggio Philip fa parte, che vuole darsi un nome in vista di un incontro con un altro gruppo con problemi affini ai loro. Philip ha un sogno: immagina d’essere un grande pesce che nuota nell’oceano, dal cielo piovono fucili M16 e lui cerca invano di prenderne uno, a quel punto sente una voce che grida «I pesci non possono portare armi!», lui si sveglia e rivolgendosi agli altri dice: «Abbiamo un nome i pesci non portano fucili». Il titolo della mostra è dunque il nome di un gruppo immaginario, anzi ne è lo slogan, la parola d’ordine, il motto che lo contraddistingue. Ho pensato a questa mostra come non fosse solo mia ma di una comunità fatta di persone differenti, sia di persone che mi hanno aiutato a farla sia di altre con le quali ne ho solo discusso, insieme alle persone ho coinvolto anche istituzioni differenti che da parte loro e singolarmente mi avevano chiesto di fare una mostra o altro e ho cercato di farne qualcosa che avesse un senso e una dimensione collettiva. Non ho immaginato solo una mostra quindi, ma uno svolgersi di eventi che avessero un fine collettivo: quello di offrire una visione su cosa voglia dire allestire una mostra oggi, sulla sua drammatica necessità e attualità, sul fatto cioè che si possa nonostante tutto continuare a immaginarne una in un tempo in cui pare non ci sia futuro per le mostre ma solo per gli eventi, e quanto sia falso che le mostre abbiano solo fini commerciali mentre gli eventi siano di natura maggiormente culturale.
Una mostra che è una tappa di un progetto iniziato nel novembre 2016 con una prima mostra, RWD / FWD, allestita presso il tuo studio. Come si connettono questi spazi in tempi differenti?
Si è trattato di un percorso a tappe avviato con una mostra nel mio studio dove era dispiegato il mio archivio in corso di lavorazione per passare poi a una mostra presso la Fondazione Nomas e a un convegno al Museo Maxxi, prima di arrivare al Macro Testaccio. Un percorso di idee e di immagini piuttosto che un singolo avvenimento, ognuno realizzato in un luogo specifico e secondo modalità armoniose rispetto allo spazio. Ognuna di queste tappe è stata progettata sia dal punto di vista dello spazio che dei concetti in accordo con i Curatori: Ilaria Gianni, Benedetta Carpi De Resmini e Ludovico Pratesi. La questione del tempo, della durata di un’iniziativa che non si è esaurita in un colpo d’occhio ma si è protratta per quasi un anno, è certo importante per me ma anche per tutte le persone che hanno in differenti modi partecipato. Questo fattore ha permesso, come dicevo prima, di cementare una piccola comunità, di forgiarne i sentimenti e i modi di vedere fino a metterli alla prova di un giudizio più ampio di quello solo personale. Questo non vuol dire che abbiamo lavorato per fondare una nuova setta o un gruppo ristretto orientato a un pensiero unico, né tantomeno all’affermazione dell’identità di un capo. Quello che abbiamo fatto è molto prossimo alla definizione di alcune questioni riguardanti la permanenza dell’idea di arte e le sue possibili connessioni con lo spazio espositivo e la creazione di una comunità di partecipanti più ampia rispetto al cosiddetto pubblico dell’arte. Tutto questo ci sarà restituito da un libro-catalogo in via di lavorazione per l’editore Quodlibet che presto sarà disponibile e che continuerà a essere, spero, uno strumento di lavoro e approfondimento delle questioni toccate finora.
In tutta la tua ricerca c'è sempre un rapporto con lo spazio, in una dimensione multi-scalare. Lo spazio espositivo, la città, l'ambiente ma anche lo spazio intimo, personale. Quale relazione tra arte, spazio e immaginario sociale?
Noi siamo lo spazio. Non solo ne facciamo parte ma siamo noi stessi con lo spostarsi a definirne i confini, il nostro corpo ne sperimenta continuamente i bordi e la nostra mente li espande invitandoci a oltrepassarli. E’ uno sbaglio pensare allo spazio come qualcosa di costruito intorno a noi il cui unico scopo è d’essere abitato. Tutto quello che facciamo è determinato dalla relazione fra noi, singoli, e la spazialità, ognuno di noi rappresenta una misura più ampia di quella che appare. In questo l’immaginario sociale trova sede, non un semplice accordarsi su un patto costitutivo e collettivo, una specie di ragione sociale, ma un obbligo che unisce ben aldilà delle nostre scelte individuali. Per come lo immagino io lo spazio è elastico, si presta sia ad essere percepito come infinito, come un orizzonte lontano e irraggiungibile sia come vicinanza o addirittura ricovero individuale a propria misura. In fondo quando si dice infinito non vuol dire senza caratteristiche certe? Allora perché pensarlo solo nella direzione della grandezza e non in quello della piccolezza? In questo senso per me non c’è differenza fra piccolo e grande, sociale o personale, si tratta dello stesso sentire che prende forme e dimensioni differenti.
L'arte, dunque, come si muove nella de-costruzione e ri-costruzione di 'immagini di realtà' o di 'spazi di immaginazione'?
Le immagini e gli spazi, di nuovo, si equivalgono. L’immagine è una spazialità compressa in una misura incalcolabilmente sottile. Un foglio bianco è lo spazio più ampio che esiste, il nostro compito è tracciarlo con dei cammini, delle figure di spazio aperto.
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Alfredo Pirri - i pesci non portano fucili
MACRO Testaccio
12 Aprile - 4 Giugno 2017
Ph_Giorgio Benni
Alfredo Pirri è nato a Cosenza nel 1957 ma vive e lavora a Roma ormai da molti anni. Il suo lavoro spazia tra pittura, scultura, lavori su carta e opere ambientali. Il suo linguaggio evidenzia una continua attenzione allo spazio, alla superficie, al colore, creando dei veri e propri ambienti di luce. Ogni opera diventa un luogo spaziale, emozionale e temporale, dove l'osservatore ha la possibilità di entrare per immergersi in esperienze cromatiche che lo destabilizzano e lo disorientano. Collabora con architetti per la realizzazione di progetti multidisciplinari, in cui arte e architettura dialogano in modo armonico. Ha esposto in mostre personali e collettive in Italia e all’estero: Biennale di Venezia, PS1 New York, Biennale d’arte contemporanea dell’ Havana ,Palazzo delle Papesse Siena, Walter Gropius Bau Berlino, Villa Medici Roma, Bunkier Stzuki Krakov, Centro d'arte "La Pescheria" Pesaro, Museo d’arte contemporanea Rjieka, Maison de la Photo Parigi, Galleria Nazionale d’Arte Moderna Roma dove la sua installazione “Passi” è permanente, Palazzo Te Mantova, Museo Archeologico Nazionale Reggio Calabria dove la sua opera “Piazza” è permanente, D-O Ark Underground Sarajevo dove la sua opera “Passi” è permanente. Ha collaborato con Differenti architetti e studi di architettura: Nicola di Battista, ABDR, Efisio Pitzalis, Studio Labics, Studio PROAP Lisbona. Ha svolto attività d’insegnamento in diverse istituzioni fra cui: Bezalel Academy di Gerusalemme, Accademia di Lione, Università La Sapienza di Roma, Accademia Belle Arti di Urbino, Accademia Belle Arti di Palermo. Ha curato progetti rivolti a giovani artisti (Accademia dello Scompiglio, Lucca). Attualmente insegna Pittura presso l’Accademia di Belle arti di Frosinone.