Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

Al Maxxi, dopo il Riciclo, l’Energia

  • Pubblicato il: 12/04/2013 - 14:02
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
Valerio Paolo Mosco
Stazione di servizio Agip

Con la mostra inaugurata lo scorso 22 marzo, «Energy: architettura e reti del petrolio e post-petrolio» si chiarisce definitivamente, dopo «Re-cycle», l’indirizzo della Fondazione Maxxi. Non è un caso che il curatore Pippo Ciorra senta la necessità di ribadirlo nel catalogo: «La mostra fa parte di una serie di progetti legati all’attualità della questione ambientale…ora è il momento di chiarire che la questione ambientale è un “imperativo estetico”… Il nostro compito è dunque contribuire alla ricerca di quella forma estetica».
Il Maxxi Architettura sceglie quindi una linea curatoriale che potremmo definire tematica, secondo la quale l’architettura si sostanzia proprio attraverso la qualità e l’attualità del tema che affronta. Seguendo questa linea, lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr ha provato più di cinquant’anni fa a dar sostanza critica a questa concezione. Secondo Sedlmayr ogni epoca si esprime al meglio in determinati temi che come tali diventano «dominanti» in quanto, come scrive ne La perdita del centro, lo spirito del tempo s’indirizza verso di essi compiutamente, come evento simbolico, disvelandosi. Parole altisonanti, di un hegelismo demodé che mal si concilia con una condizione attuale che è ancora postmoderna, per cui inclusiva, orizzontale e anti-simbolica. Eppure, nonostante ciò, non solo in Italia, la tendenza è quella di fare delle mostre tematiche, iconologiche, come quella da poco conclusa alla Triennale di Milano sulle infrastrutture. La prima ragione di questo andamento è pragmatica. Le istituzioni statali vedono nei grandi temi un format facilmente comunicabile e disponibile alle sponsorizzazioni, tra l’altro confezionabile secondo delle maglie larghe attraverso le quali far passare ciò che è disponibile sul mercato. In altre parole la scelta tematica è rassicurante, se non protettiva.
Ma esiste un’altra ragione. Gli ultimi venti anni sono stati vissuti dalla cultura italiana seguendo tendenzialmente una linea interpretativa. Nel nostro paese c’è stata (e su ciò concordo con Franco Purini) nei primi anni ‘90 una vera e propria rottura epistemologica. Si è voluto infatti rompere con la tradizione dei maestri italiani in quanto gli stessi, immersi nella loro autorialità, non si erano resi conto di quanto il territorio nazionale fosse cambiato. Ha ormai vent’anni il libro di Stefano Boeri e Arturo Lanzani sulle trasformazioni dal basso del territorio lombardo e quindici quello di Paolo Desideri che arrivava a fare l’apologia della «città di latta». Da allora si è andati avanti nell’analisi dei fenomeni, dei riti e delle pratiche collettive, in una vera e propria escalation. Da un lato, quindi, le esigenze della cultura istituzionalizzata, che come tale tende a limitare la radicalità delle scelte e a stabilizzare il già conosciuto; dall’altro, un atteggiamento culturale inclusivo e fenomenologico: ecco dunque le ragioni che spiegano il successo delle mostre tematiche.
Tutto ciò non vuol dire che Energy non sia una mostra apprezzabile. Si presenta bene, con un allestimento che riesce persino a svincolarsi dai fastidiosi flussi rivestiti di muri della Hadid. Chiara e immediata, ma non superficiale, è divisa in tre sezioni: una storica dedicata alla stagione delle grandi autostrade italiane degli anni ‘60 (curata con tatto da Margherita Guccione e Esmeralda Vitale), un’altra dedicata ai progetti futuribili e infine una sezione fotografica, curata da Francesca Fabiani. È proprio confrontando le diverse sezioni che emerge il limite dell’interpretazione tematica. La più affascinante e riuscita delle tre è infatti quella che guarda un passato in cui gli autogrill erano la resa monumentale di un paese che in pochi anni da rurale era diventato industriale, in cui il cane a sei zampe era la rassicurante prova che si poteva essere petrolieri senza petrolio, di una stagione lontana in cui i villaggi per i dipendenti Eni di Edoardo Gellner erano l’espressione di un capitalismo protettivo e paternalista, capace di coniugare profitto, dottrina sociale della Chiesa ed elementi del patrimonio socialista. In altre parole, per dirla con Sedlmayr, in quegli anni l’architettura delle reti (o delle infrastrutture, cambia poco) era senza dubbio un «tema dominante». Oggi, cinquant’anni dopo, le cose sono radicalmente cambiate: la stessa qualità dei manufatti ci dimostra come il tema dell’architettura delle reti non solo non sia più dominante, ma rischi di diventare evanescente. Non solo, infatti, i manufatti sono ormai standardizzati, ma più in generale la stessa motorizzazione di massa non è sentita più come un valore. La prova di ciò l’abbiamo proprio nella mostra: basta confrontare le stazioni di servizio degli anni sessanta con quelle odierne, magistralmente fotografate da Alessandro Cimino, che ci restituisce la loro abbandonica desolazione  come se fossero attori in cerca di un ruolo, o meglio di un «tema». In gran parte deludenti i progetti della sezione dedicata alla prefigurazione delle stazioni di servizio del futuro. Mentre Sou Fujimoto ripropone ancora una volta quella torre di sottili piani rampanti a spirale che ritroviamo in ogni mostra a cui è invitato; i progetti di Lifethings, ma più che altro quelli di Modus Architects e di Obr scivolano in uno scoraggiante infantilismo futuribile. Elegante invece la proposta di Ian+ e convincenti gli alberi low-tech di Noero Architects, che ipotizzano la disseminazione degli stessi in un villaggio di pescatori in Sud Africa, presentando una grande sezione di fronte alla quale non si può non apprezzare la capacità di resa monumentale di ciò che è umile e domestico.
Un’ennesima mostra istituzionale e tematica dunque, il cui merito è quello d’insegnarci qualcosa e aggiornarci specialmente nei confronti del passato. Pur apprezzandola si sente il bisogno di mostre di altro genere: non iconologiche ma iconografiche, che affrontino il linguaggio, il modo con cui le cose si dicono, non il contesto in cui si dicono. Specialmente un’architettura italiana in cerca di autori ne ha urgentemente bisogno.

da Il Giornale dell'Architettura, edizione online, 11 aprile 2013