Achille Bonito Oliva: questa Biennale mi è familiare
Achille Bonito Oliva, colpito o stupito da qualcosa in questa Biennale?
Stupito no, ma diciamo che questa Biennale rafforza il mio pregiudizio favorevole verso Gioni, perché utilizza una performatività critica che mi è familiare.
In che senso?
Intendo dire una critica non come manutenzione del presente ma come interpretazione, come visione del mondo. Una critica che ha la capacità di utilizzare anche la memoria e la citazione con un'attrezzatura che è frutto della postmodernità. Su questo ho scritto dei libri già molti decenni fa, L'ideologia del traditore, il concetto di neomanierismo come Transavanguardia... come dire, mi pare che questa Biennale sia una progressione.
Ovvero?
A venti anni di distanza Gioni riprende quel trend della Biennale che io avevo teorizzato come luogo e laboratorio di idee, più che deposito di opere.
E' anche molto più godibile per questo?
E' più godibile, interdisciplinare, transnazionale, multimediale... c'è il principio della contaminazione, tra ambito artistico ed ambito estetico, e quello della convivenza tra essi. Questo edificio celebra un valore, che per me è centrale, quello della coesistenza delle differenze. E' interessante il paradosso di accedere all'enciclopedia, sapendo che non esiste una misura o un metodo tassonomico per gestirla. L'enciclopedia in questo caso è una nostalgia.
E quindi fa dilatare gli universi artistici.
Certamente. E per questo è poetica, perché fuoriesce dai confini, sconfina e cerca. Chi cerca a volte non trova e anche questo è interessante. C'è un'ansietas, che, proprio come diceva Marsilio Ficino, è una struttura dell'animo umano e direi anche del critico. In effetti in molte delle opere esposte anche nei padiglioni stranieri c'è un evidente substrato italiano, attraverso una ripresa di fonti dell'arte italiana.
E' ovvio, anche perché l'arte italiana ha insegnato a usare la storia in termini iconografici. Io che ho studiato il Manierismo, quel movimento che dopo il principio di invenzione apre il principio della citazione, posso dire che la memoria è il recupero della storia e la sua rielaborazione. E quindi è interessante che ci sia qui questo tipo di atteggiamento. E' lo svolgimento di un recupero e dell'identità critica totale.
Ha sentito la mancanza della pittura?
No, e poi non vado per generi. Del resto quando ho diretto la Biennale del 1993 dissero anche a me, che con la Transavanguardia avevo teorizzato il ritorno al recupero della pittura, che c'era poca pittura. La pittura è un linguaggio che può essere operato in tanti modi, di cui non si deve sentire nostalgia, perché tanto persiste e resiste.
Con che sentimento lascia dunque questa Biennale?
Con un sentimento di familiarità. Penso proprio che la critica progetti il passato. E questo è il felice paradosso che trovo applicato qui, dopo averlo dichiarato per molti anni.
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da Il Giornale dell'Arte, edizione online, 1 giugno 2013