L'Italia riparte dai beni comuni e dalla collaborazione civica
Dal regolamento sulla collaborazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni di Bologna, al progetto CO-Mantova che mette al centro la cultura, le politiche di sviluppo territoriale passando attraverso metodi inclusivi di co-progettazione e co-gestione
Il tema legato ai beni comuni è al centro del dibattito pubblico e ormai anche di quello scientifico. Si legge un’apertura a favorire un'amministrazione della “cosa pubblica” condivisa, aperta, trasparente che si allontani dal modello dello Stato accentratore verso uno Stato «partner» fondato su una governance collaborativa o policentrica. Vi è quindi la necessità che le istituzioni pubbliche si attrezzino con gli strumenti più adeguati per affrontare con successo questo processo di cambiamento, ormai già in atto.
Ne parliamo con Christian Iaione, classe '75, professore associato di Diritto Pubblico all'Università degli studi Guglielmo Marconi di Roma e docente di governance dei beni comuni presso la LUISS Guido Carli, nell'ambito di LabGov - LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni, un format didattico innovativo per le università italiane caratterizzato da un approccio clinico ed empirico. Le sue attuali attività di ricerca si focalizzano sulla gestione collettiva o co-gestione dei beni comuni, sulla governance pubblica attraverso partenariati pubblico-civici e partenariati pubblico/privato/comunità costruiti con metodi partecipati e deliberativi di co-progettazione, per i quali è considerato un pioniere.
Prima di entrare nel merito delle esperienze che sta seguendo, può indicare da dove nasce il suo interesse per i beni comuni?
Mi sono laureato in giurisprudenza alla LUISS, ho conseguito un dottorato in amministrazione pubblica europea e comparata alla facoltà di Economia della Sapienza e ho perfezionato i miei studi con un master in legge alla New York University. Ho lavorato in studi legali internazionali e poi ho deciso di concentrarmi sulla ricerca svolgendo attività all’estero, prevalentemente in Università americane. I miei genitori peraltro hanno vissuto negli Stati Uniti negli anni '60 e nel 1980, per motivi legati al terremoto dell’Irpinia, ho fatto la mia prima esperienza americana. Insomma sono stato esposto all’influenza culturale e a norme sociali che sono inevitabilmente entrate a far parte del mio bagaglio personale. Quindi purtroppo, o per fortuna,un imprinting anglosassone si è sedimentato nelle mie esperienze di vita e di ricerca. Forse proprio per questo ho sempre assegnato particolare enfasi al ruolo che la comunità, tanto quanto ogni singolo cittadino, può giocare per concorrere al “progresso materiale o spirituale della società” come recita l’art. 4 della Costituzione. In questo sono imprescindibili le relazioni e le connessioni che si creano tra individui o soggetti che intendono sfuggire al logos della competizione o del conflitto per entrare in dinamiche collaborative, creative, capacitanti, abilitanti. Qualcuno mi ha definito un giurista creativo, altri un giurista di comunità. In realtà sono solo uno studioso che si dedica a fondo alla elaborazione e alla sperimentazione di politiche pubbliche, prevalentemente urbane o locali, e dei relativi strumenti giuridici che promuovono l’ ”autonoma iniziativa dei cittadini […] per lo svolgimento di attività di interesse generale” (art. 118.4 Cost.) ossia la capacità della società e dell’individuo di essere attori di sviluppo personale e collettivo. Politiche pubbliche di tal sorta promuovono la collaborazione civica, devono cioè tendere a federare queste autonomie civiche e a far collaborare i diversi portatori di autonomia civica tra loro insieme con i portatori di autonomia pubblica, cioè le istituzioni pubbliche e democratiche. Il ruolo delle istituzioni sta cambiando per effetto di quella che in Italia viene definita sussidiarietà orizzontale o circolare, altrove governance collaborativa o policentrica. Sarà sempre un ruolo centrale, ma sarà sempre meno quello di sapere tutto, di elaborare tutte le risposte e metterle in pratica in solitudine. Sempre più sarà il ruolo di chi deve sapere dove scovare la conoscenza ormai diffusa, esplosa, latente nella società, sapere come mettere in moto l’intelligenza civica per trasformare quella conoscenza in energia del cambiamento. Sempre più sarà insomma quello di “saper far fare a” o “saper far collaborare” comunità, organizzazioni sociali o economiche, cittadini, individui. Dovranno svolgere un grande ruolo di coordinamento e facilitazione di processi generativi di risposte collettive ai bisogni della stessa collettività.
Da dove è partito nella sua ricerca?
Fin dalle mie prime ricerche sulla collaborazione fra imprese per la realizzazione di infrastrutture pubbliche e poi con la tesi di dottorato sulla collaborazione interlocale per affrontare la competizione globale, ho cominciato a riflettere sui settori nei quali gli enti pubblici, soprattutto quelli locali, si sarebbero dovuti concentrare per promuovere questo tipo di azione collettiva, collaborativa e connettiva. In definitiva è stato sempre un mio pallino quello di indagare il ruolo fondamentale che può avere la sinergia tra organizzazioni, soggetti e individui nel generare riduzioni di domanda e moltiplicazione di valore. Il primo campo di analisi è stato quello dei trasporti e della mobilità. Ero negli USA ed elaborando uno studio tra il 2008 e il 2009, poi pubblicato nel 2010 sul Fordham Urban Law Journal, sono giunto alla conclusione che la mobilità è uno dei campi nei quali gli enti locali più facilmente possono favorire lo sviluppo di pratiche e soluzioni centrate su collaborazione e cooperazione inter-individuale. Da qui nasce l'idea di cominciare a considerare le strade urbane come beni comuni urbani, nel senso di beni funzionali al benessere della comunità locale e alla qualità della vita urbana per il cui mantenimento e/o rigenerazione occorre una alleanza fra istituzioni, società civile e comunità in tutte le sue possibili articolazioni. Realizzai subito che un discorso analogo poteva farsi per altre politiche pubbliche locali, come il servizio idrico, i servizi di igiene urbana, i servizi energetici. Più di recente ho applicato il medesimo schema logico al campo dei beni culturali pervenendo però a una soluzione di governance piuttosto complessa.
Quale è stato il suo primo cantiere sperimentale?
Quando sono tornato in Italia al termine della mia ultima esperienza negli Stati Uniti mi sono reso conto che un problema molto urgente e per il quale l’approccio appena descritto poteva funzionare, era diventato la qualità degli spazi pubblici e la percezione di essi come beni pubblici, non comuni, tendenzialmente quindi trattati come beni di nessuno o al più del Comune inteso come entità terza ed estranea rispetto al cittadino. Gli spazi pubblici urbani, complice anche la crisi economica e soprattutto la maggiore complessità delle dinamiche sociali, erano stati gradualmente abbandonati a se stessi. Il caso ha voluto che il Prof. Marco Cammelli, uno dei più insigni studiosi dell’amministrazione, delle autonomie e dei beni culturali, proprio in quel periodo fosse alla ricerca di un giovane studioso al quale affidare il compito di approfondire e tracciare le linee di un intervento amministrativo sperimentale per provare a colmare con soluzioni innovative il gap creatosi nel governo e nella cura dello spazio pubblico. Il primo campo di prova è stata la città di Bologna, città in cui curare lo spazio pubblico nella zona centrale significa anche curare un patrimonio culturale inestimabile. Tutto è nato da una conferenza tenutasi ad Imola l'11 dicembre 2011 per comunicare i risultati del lavoro di ricerca avviato sotto l’impulso del Prof. Cammelli. Alla conferenza partecipa anche il Direttore Generale del Comune, Giacomo Capuzzimati, che si mostra da subito molto interessato a costruire una sperimentazione basandola sulle buone prassi di collaborazione civica che il Sindaco Virginio Merola e l’Assessore Luca Rizzo Nervo stavano già stimolando per giungere alla costruzione di una nuova visione amministrativa nel governo della città. L'esigenza di una politica pubblica innovativa improntata alla collaborazione civica nasceva anche dalla constatazione che, nonostante gli sforzi economici e la buona qualità dei servizi erogati dall’amministrazione comunale, la mancanza di spirito collaborativo nei rapporti tra amministrazione e città produceva cortocircuiti comunicativi che tendevano a separare, distanziare e contrapporre cittadini e amministrazione.
Di qui la decisione congiunta di Fondazione del Monte di Ravenna e Bologna e del Comune di Bologna di affidare a due esperti esterni, Gregorio Arena (massimo esperto di amministrazione condivisa e cittadinanza attiva) e me, il compito di portare avanti, insieme con il dipartimento Affari istituzionali di Annarita Iannucci e l’ufficio cittadinanza attiva di Donato Di Memmo, una sperimentazione amministrativa durata due anni su tre "beni comuni urbani" selezionati con cura e metodo per cercare di sintetizzare tutte le possibili variabili (ad esempio, uno al centro, uno in periferia, uno in un quartiere residenziale; uno spazio verde, uno spazio pubblico, un immobile da rigenerare; emblematici di dinamiche socio-economiche differenti, ecc.). La sperimentazione è stata co-progettata e co-gestita con gli uffici comunali e con le comunità esistenti attorno ai tre beni comuni urbani selezionati. Le operazioni amministrative condotte sono servite a individuare i colli di bottiglia regolatori e le strozzature amministrative. Al termine della sperimentazione ci siamo ritrovati con un patrimonio di dati, elementi, esperienze, lezioni che sono servite al gruppo di lavoro nominato dalla giunta comunale e composto da tre funzionari e due esperti esterni (i.e. Donato Di Memmo, come coordinatore del gruppo di lavoro, Antonio Carastro, membro dell’avvocatura comunale, Chiara Manaresi, responsabile dello spazio pubblico, Gregorio Arena e me) per elaborare uno strumento di governance locale collaborativa che ha poi preso il nome di Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani adottato dal consiglio comunale di Bologna nel maggio 2014 e che costituisce l’esito finale del progetto "La città come bene comune" sostenuto dalla Fondazione del Monte. Si compone di 36 articoli che non devono essere visti come ulteriori regole, bensì come “linee guida” per reimpostare il dialogo tra Comune e città in termini collaborativi, un manuale di pronta e facile consultazione e comprensione su come autorità locali, cittadini e comunità locale possono superare le barriere della contrapposizione derivante dalla logica binaria pubblico-privato, accorciare la distanza e annullare la separazione Stato-cittadino per cominciare a dialogare, collaborare e gestire insieme spazi e beni sia pubblici, che privati ad uso pubblico come i portici.
Abbiamo ritenuto che il Regolamento potesse essere lo strumento ideale per accompagnare e consolidare questo processo. Non era l’unica opzione possibile. E forse la sua adozione poteva essere preceduta da una sperimentazione amministrativa più lunga e più ampia che comunque il Comune sta continuando a portare avanti. A Bologna è stato messo in piedi un programma di ricerca empirica, innovazione istituzionale e democratica e sperimentazione amministrativa. In questo tipo di processi è fondamentale l’aggiustamento dinamico, il continuo monitoraggio dell’andamento e la valutazione costante e oggettiva dei risultati ottenuti. Questi ultimi devono necessariamente influire sulle scelte e sulle azioni che si intendono adottare nel futuro in vista di un ripensamento e aggiustamento della politica pubblica. E, infatti, sulla base dell’esperienza accumulata nella implementazione del Regolamento con quasi 100 patti di collaborazione sottoscritti nell’arco di un anno, il Comune è in procinto di varare alcuni aggiustamenti, aggiornamenti, integrazioni alla politica pubblica di cui il Regolamento fa parte e che oggi prende il nome di “Collaborare è Bologna”, la quale include anche “iniziative collaborative” in campo economico, del lavoro, della cultura e della scuola e nella quale sono coinvolti altri assessori della giunta comunale come Matteo Lepore. Ma il Regolamento è stato comunque un passo molto importante per innestare la collaborazione nel tronco delle politiche pubbliche del Comune di Bologna.
Lo studio per traghettare la gestione dei beni comuni verso nuovi modelli di governance è alla base di LabGov – LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni. Che cosa è e come funziona?
Il LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni fa parte dell’Università LUISS ed è un percorso di educazione non formale del tipo in house clinic pensato per innovatori sociali, imprenditori di economia collaborativa o sharing economy, agenti del cambiamento e giuristi creativi. Per questo motivo, LabGov insegna la governance collaborativa/policentrica dei beni comuni, design dei servizi, progettazione europea, gestione di progetti, strategie di comunicazione, etica e organizzazione del lavoro in team, condivisione di ruoli e responsabilità attraverso un approccio "learning by doing". Gli studenti organizzati in 4 aree (ricerca, progettazione, organizzazione, comunicazione) hanno la possibilità di costruire o sviluppare progetti per cittadini, amministrazioni, imprese che contribuiscano concretamente all'implementazione dell'innovazione sociale, economica, istituzionale e democratica in aree o settori dove essa non è ancora arrivata o accelerarne il potenziale innovativo. Sotto la supervisione di strategist e advisors gli studenti svolgono un praticantato multidisciplinare professionalizzante all’interno dell’Università e sperimentano sul campo le cose che apprendono. E’ come se avessimo creato una ONG dentro le mura dell’Università che opera però a beneficio della comunità. Stiamo formando non una nuova classe dirigente, bensì la forza motrice del cambiamento che si impegnerà per spingere la società, le imprese e le istituzioni verso nuove frontiere dell’innovazione sociale, economica, pubblica, implementandola in settori in cui non è ancora stata avviata o accelerandola in settori già interessati da processi di innovazione.
Su quali temi lavorate?
Nell’anno accademico 2012-2013 LabGov è stato dedicato al tema «La città come bene comune» e ha fornito un contributo importante al Regolamento di Bologna oltre ad aver prestato il nome al progetto poi approvato dalla Fondazione del Monte, mentre nel 2014 si è concentrato sul tema «La cultura come bene comune» che poi ha dato luogo al progetto approvato dalla Camera di Commercio di Mantova, oggi denominato CO-Mantova.
Inoltre, assieme allo stararchitect Massimo Alvisi stiamo aiutando il vice-prefetto Gerlando Iorio a Battipaglia, Comune commissariato per infiltrazioni camorristiche, a stendere un piano strategico centrato su rigenerazione e riuso del patrimonio edilizio esistente, rivitalizzazione e co-gestione dei beni comuni urbani e quindi della città pubblica, riparazione e difesa del territorio (in particolare della fascia costiera) da fenomeni di illegalità e abusivismo, sviluppo economico locale centrato sull’agricoltura anche per promuovere l’attivazione una filiera di economia della conoscenza al servizio dell’agricoltura e delle aree rurali o interne, della città-territorio come direbbe un urbanista. E’ un nuovo modo di interpretare il ruolo dell’Università. Il modo in cui può farsi attore di comunità, progresso sociale, crescita economica. Se altre Università fossero interessate ad aprire un LabGov, sappiano che è un modello open source e che saremmo felici di trasferire il protocollo metodologico per aprirne uno in ogni Università e costruire insieme un circuito nazionale.
E nell'anno di Expo?
Nell’anno accademico 2014-2015, ci stiamo occupando di governance territoriale, da intendersi come una tecnologia sociale, economica, istituzionale e democratica che ricuce la tela strappata del governo del territorio interpretando il «territorio come bene comune», con un focus su «ambiente, agricoltura e alimentazione». In partnership con Coldiretti, Rural Hub e Zappata Romana stiamo elaborando una nuova catena del valore nella filiera agricola rurale e urbana. Molto probabilmente saremo presenti a Expo con Coldiretti.
Ritornando all'esperienza del 2014, di CO-Mantova - un progetto ambizioso per rilanciare l'economia con i giovani innovatori sociali attraverso un sistema di governance locale - chi ne è stato il promotore e quali i soggetti coinvolti?
E’ stato il Tavolo della Cooperazione istituito presso la Camera di Commercio di Mantova e in particolare la task force composta da Alberto Righi, Nicoletta Perini e Andrea Poltronieri. Ma abbiamo subito aperto canali di collaborazione e connessione con altre realtà per condividere la responsabilità della conduzione del progetto con Comitato per l’imprenditoria femminile, al Forum dei giovani imprenditori, organizzazioni dei commercianti e degli artigiani, alla Fondazione Università di Mantova, alla sede locale della facoltà di architettura del Politecnico di Milano, ad ARCI, CSVM, al consorzio delle imprese culturali PANTACON, agli innovatori sociali di Rianimazione Urbana Mantova che hanno compreso quanto poteva essere strategico per loro il progetto e di conseguenza vi hanno investito tempo e attenzione. Poi ovviamente il Comune, la Provincia ma soprattutto i cittadini attivi, gli imprenditori responsabili, gli innovatori digitali, i rigeneratori urbani, le organizzazioni della società civile, le istituzioni culturali (cioè scuole, Università, accademie culturali, ecc). Questa partnership sta dando vita a una piattaforma di collaborazione fisica, digitale e istituzionale con tre obiettivi di politica pubblica principali che possono essere sintetizzati con tre concetti-chiave: “vivere insieme” (servizi e welfare collaborativi), “crescere insieme” (crescita orientata alla creazione di nuove imprese e forme di lavoro collaborative), “fare insieme” (rigenerazione e riqualificazione collaborativi dell’ecosistema urbano).
CO-Mantova è il prototipo di una istituzione collettiva collaborativa per governare la città e il territorio come un bene comune e trasformarli in "co-città" e “co-territori”. Le co-città e i co-territori dovrebbero basarsi sulla governance collaborativa e policentrica dei beni comuni in virtù della quale i beni comuni urbani, ambientali, culturali, digitali e cognitivi sono co-progettati, co-prodotti e co-gestiti.
Quali sono state le fasi nelle quali si è articolato il progetto?
Il primo passo è stato «la semina di innovazione sociale» attraverso la pubblicazione di una “chiamata alle idee” che abbiamo intitolato «La cultura come bene comune», come il Laboratorio. Non il classico bando dunque, piuttosto uno strumento per dissodare il terreno e far emergere l’innovazione sociale già esistente sul territorio mantovano. Attraverso la «chiamata» abbiamo cercato di far emergere gli innovatori sociali del territorio e costruire un campo per metterli in connessione tra loro e farli collaborare con la città e il territorio. Abbiamo scelto come porta di ingresso nel territorio mantovano il tema del patrimonio culturale materiale e immateriale perché la cultura sta nella cifra identitaria del territorio mantovano. Il secondo passo è stato il laboratorio di co-progettazione «Imprese per i beni comuni», dove sette progetti sono stati coltivati per potenziarli, accelerarli, attrezzarli e metterli in condizione di fare co-working con esperti di progettazione europea, comunicazione, design di servizi collaborativi, imprese culturali e creative. La terza fase è stato il “campo di governance”, una fase di elaborazione del prototipo istituzionale che ha portato alla stesura del Patto di Collaborazione Territoriale per uno sviluppo economico locale orientato alla cura e rigenerazione dei beni comuni, presentato al pubblico nel corso del Festival sulla Cooperazione il 27 novembre 2014. Poi la quarta fase: il testing della governance attraverso il lancio di una consultazione pubblica in città sul testo del Patto. Al termine della consultazione, cui si può contribuire andando sul sito co-mantova.it, svolgeremo le valutazioni opportune per ri-prototipare il Patto e capire in che direzione far evolvere il dispositivo istituzionale che abbiamo concepito a Mantova.
A quali conclusioni siete giunti fino ad oggi e quali i riscontri specie in termini di produttività, che è poi l'obiettivo da cui siete partiti?
L'importante è sempre mantenere un approccio scientifico ed empirico basato sulla verifica concreta degli impatti prodotti e del ritorno che si ha sugli attori della governance. Non è necessario arrivare per forza alla costituzione di un soggetto giuridico, né è necessario che la sperimentazione prosegua se non ci sono le condizioni. Nella ricerca empirica si impara molto e soprattutto da eventuali errori e fallimenti. Ma credo che CO-Mantova abbia già raggiunto ottimi risultati. Abbiamo messo in piedi un'organizzazione diffusa, reticolare, immateriale, leggera, circuitale, che ha attivato sinergie operative, relazioni collaborative, connessioni progettuali e sincronizzazioni comunicative. Questo è il principale risultato dell'esperimento realizzato a Mantova. Già questo basterebbe per ritenersi soddisfatti. Ma abbiamo deciso di non accontentarci. Nei prossimi mesi proveremo a lavorare su tre fronti: creazione di spazi collaborativi di lavoro e produzione; costruzione di un programma di formazione per coltivare le nuove generazioni di co-mantovani; attrazione di investimenti internazionali sul patrimonio culturale materiale e immateriale a Mantova, investimenti che a livello globale cercano ecosistemi istituzionali collaborativi affidabili e credibili. CO-Mantova è esattamente questo.
Coinvolgendo le imprese?
PMI e grandi imprese sono alla ricerca di approcci innovativi per la produzione di valore e di interlocutori istituzionali credibili, facilitanti e abilitanti. La corsa al ribasso che la globalizzazione ha innescato non è più una strategia disponibile per un sistema di economia della conoscenza come Mantova. Gli operatori economici profondamente radicati nei territori stanno comprendendo l’importanza di assumere una responsabilità di interesse generale e di allearsi per attrarre classe creativa internazionale e capitale umano nei propri territori. Stanno comprendendo che investire nella produzione di valore collaborativo e nella creazione di ecosistemi economici e istituzionali collaborativi favorisce la generazione di creatività, conoscenza, identità, fiducia.
Quali altre città hanno deciso o stanno decidendo di investire energie, competenze, e altre risorse sulla sfida della collaborazione?
Partiamo dalla constatazione che il nostro Paese non è abituato alla collaborazione in campo istituzionale, bensì alla separazione, al divide et impera. Comunque ci sono movimenti molto interessanti sul territorio. A Firenze e in Toscana il modello collaborativo sia pure sotto diverse etichette è stato applicato in e da diverse istituzioni e alcuni progetti sono già operativi anche a prescindere e prima dell’onda collaborativa che Bologna ha inaugurato. Stiamo capendo come possiamo contribuire. Siamo in contatto con città come Trieste, Alessandria e Torino. Una cosa però contraddistingue l’approccio di LabGov: gli strumenti di governance dei beni comuni come ci ha insegnato Elinor Ostrom vanno disegnati e adattati alle condizioni locali (sociali, ambientali, strutturali, istituzionali, ecc.). E’ dunque più importante il processo e il metodo che impianta in un territorio una cultura della collaborazione e conduce alla elaborazione dello strumento di governance, che non il singolo prodotto di governance elaborato nel contesto dato. Non può esserci uno strumento standard insomma valido per tutti e in ogni contesto. Non deve essere quello lo scopo di chi studia e sperimenta la collaborazione civica, bensì il trasferimento della conoscenza e degli strumenti per consentire l’esercizio dell’autonomia civica.
Un altro grande cantiere progettuale che stiamo cercando di coltivare è il Sud, come ho anticipato a Battipaglia collaboriamo con architetti provenienti dal gruppo RenzoPianoG124 e apriremo un percorso per giungere a “Legalità organizzata”, un patto di collaborazione tra le energie virtuose di Battipaglia per organizzare la legalità nell’attuazione del PUC.
A Palermo stiamo lavorando con il gruppo di innovatori sociali che ha concepito City Free Project (una start-up sulla mobilità collaborativa) e sta recuperando Tonnara Bordonaro, un bene culturale del Cinquecento oltre ad incubare altri progetti sul patrimonio culturale e di innovazione digitale. Per Palermo stiamo scrivendo un policy brief che conterrà una bozza di delibera o regolamento comunale ad hoc per favorire una regolazione policentrica e collaborativa della mobilità.
Probabilmente nascerà qualcosa di interessante anche in Basilicata e in particolare a Matera, capitale della Cultura 2019. Ci è stato chiesto un endorsement in fase di partecipazione e sono sicuro che il Comitato Matera 2019 presto o tardi ci chiamerà. Nel frattempo stiamo già collaborando con gli innovatori sociali di Casa Netural. Bari non è lontana e ci piacerebbe fare qualcosa sulla scuola. Ne stiamo parlando.
Questa volta l'Italia ha davero l'occasione di distinguersi come un laboratorio di innovazione a livello internazionale. Per questo stiamo coltivando rapporti con studiosi e centri di ricerca di livello internazionale. Con LUISS ICEDD (International Center on Democracy and Democratization) stiamo lavorando alla “esportazione” del protocollo metodologico per impiantare modelli di governance locale collaborativa e policentrica in contesti urbani e rurali di altri Paesi.
In conclusione, come vede l'interrelazione sui beni comuni, tra gli amministratori della città, i cittadini, gli operatori economici?
Il lavoro delle amministratori locali, e forse ad ogni livello di governo, sta cambiando. La funzione del pubblico come soggetto oggi non è più quella di comandare o fornire servizi. Essi devono sempre più agire come una piattaforma che consente la collaborazione tra i cinque attori della governance collaborativa: cittadini e innovatori sociali, organizzazioni non profit, imprese, istituzioni pubbliche e istituzioni cognitive (scuole e Università in primis), per liberare tutto il potenziale insito nei beni comuni urbani, culturali, ambientali, digitali e cognitivi. L'obiettivo ultimo è quello di promuovere un nuovo paradigma di sviluppo fondato su strumenti capacitanti e abilitanti per il progresso sociale, idee imprenditoriali centrate sull’economia della conoscenza attraverso processi produttivi creativi e collaborativi, schemi istituzionali che promuovano, favoriscano, abilitino sostenibilità e resilienza ambientale.
Per fare tutto ciò dobbiamo uscire dalle logiche binarie (publico-privato, Stato-Mercato, cittadino-amministrazione, politica-amministrazione, ecc.). Per fare tutto questo occorre un passaggio dal government alla governance.
Gli operatori economici e imprenditoriali sono molto interessati a questo processo più di quanto si possa pensare. Mantova lo dimostra.
Questo nuovo quadro rappresenta un'opportunità per riformare radicalmente l'attuale stato di avanzamento delle società, l'economia, le istituzioni e il diritto. LabGov sta lavorando su questa frontiera e lo sta facendo insieme ad esperti, studiosi, professionisti, organizzazioni, attivisti e cittadini che rappresentano quello che penso possa divenire una nuova classe sociale, la classe degli innovatori sociali, economici e istituzionali.
Un modello da declinare nei diversi contesti?
Fondamentale continua ad essere la realtà locale. Le persone sono ciò che contano di più, e il miglior punto di partenza consiste nell’individuare persone o gruppi che credono nel cambiamento, e nel fare le cose a regola d’arte e non solo per coltivare orticelli e personalismi, spingendo in avanti i confini dell'innovazione istituzionale e democratica. Sembrerà banale, ma c’è bisogno di persone che siano disposte ad impegnarsi oltre l’orario d'ufficio, persone disposte a lavorare nell’interesse generale e al di fuori di logiche proprietarie o egemoniche anche dal punto di vista culturale e scientifico, persone che si mettano al servizio di un progetto di innovazione e rigenerazione delle istituzioni, non persone che vogliano governare o sostituirsi alle istituzioni o alla politica. L'innovazione istituzionale e democratica non è il risultato di una rivoluzione e neppure dell’ennesima riforma legislativa, piuttosto è un processo dal basso e dall’interno che tiene un passo costante e tranquillo, non necessariamente lento, ma ben cadenzato e per questo comporta una continua opera di facilitazione e aggiustamento. L’innovazione istituzionale e democratica richiede quindi pazienza, scientificità, professionalità, adattività, immersività e monitoraggio costante. Ma soprattutto occorre contemplare sconfitte, perdite e cadute, da quelle spesso si riesce ad imparare molto di più che dai successi.
© Riproduzione riservata
C. Iaione, Local public entrepreneurship, 2008
C. Iaione, The Tragedy of Urban Roads, in Fordham Urban Law Journal, 2010
C. Iaione, City as a commons, in Digital Library of the Commons, 2012
G. Arena, C. Iaione (a cura di), L'Italia dei beni comuni, Carocci, 2012
G. Arena, C. Iaione (a cura di), L’età della condivisione, Carocci, 2015
www.comune.bologna.it/comunita/beni-comuni
www.co-mantova.it
www.legalitaorganizzata.org