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​Daniele Jalla. Twice, due volte Presidente. Nuovamente ai vertici di ICOM Italia

  • Pubblicato il: 16/02/2015 - 16:15
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

Daniele Lupo Jalla è salito ai vertici di Icom Italia, dal luglio scorso, per la seconda volta ( già Presidente dal 2004 al 2010), in un momento di re-evolution - come direbbe l’artista Michelangelo Pistoletto – in un periodo di mutamenti radicali, organizzativi, professionali. Un mondo che si sta interrogando su missioni, sostenibilità di senso, prima ancora che economica.
 
 
Quanti sono oggi gli iscritti di ICOM a livello nazionale?
Oltre 1000, tra professionisti museali (90%) e istituzioni culturali della più varia natura Crescono i liberi professionisti, espressione di un fenomeno massivo nelle istituzioni culturali: meno risorse incardinate organizzativamente- sia in campo museale, archivistico che bibliotecario. E’ effetto di una crisi che si è trasformata in una nuova situazione strutturale, sociale ed economica, che ha ridotto drasticamente gli occupati stabili e ha moltiplicato i consulenti, i professionisti, i contratti a progetto. Il volontariato gioca un ruolo centrale, obbligato - suo malgrado e contro le norme etiche che ne regolano il ruolo - a coprire vuoti.
 
 
Presidente, ha accolto una nuova sfida. Cosa pensa di portare al mondo dei musei in questo suo nuovo mandato? Su quali assi state lavorando?
Il nostro sforzo in questo scenario è la difesa degli standard, dei minimi requisiti che i musei devono avere per esistere e funzionare. La nostra attenzione prioritaria è su musei e nuovi paesaggi culturali. Stiamo lavorando già da due anni, con step di ricerca intermedi (vedi sezione documenti del sito ICOM) alla 24a conferenza internazionale dell'ICOM, che si svolgerà a Milano nel 2016. Questo è il nucleo principale del mio mandato, il senso della mia ricandidatura, del dibattito museale: completare un discorso che da anni portiamo avanti per il coinvolgimento dei musei nella tutela del patrimonio culturale, che può rendersi realtà nella misura in cui esso coniughi funzioni di tutela con l’apertura al patrimonio culturale del territorio. Questa è la proposta di evoluzione del ruolo della maggior parte dei musei, nella direzione di un impegno e di una responsabilità anche territoriale. Programma di Daniele Lupo Jalla .
 
 
La sua presidenza coincide con la riorganizzazione del Ministero.
Una riforma di valore epocale dal punto di vista dei musei, che differisce completamente dalla visione Bray.

Quella di Franceschini punta sui musei e li dota da una parte di autonomia, dall'altra di regole di funzionamento, ispirandosi agli standard museali, al codice etico dell'ICOM -punti sui quali insistiamo da decenni-, e quindi portando i musei, che nel ‘900, in Italia, sono stati una «cosa», «un oggetto», non un istituto, ad essere soggetti, secondo una visione internazionale.
Il museo deve avere una missione, un direttore, un bilancio, un organigramma definito. Inoltre il Ministero, nel concedere autonomia ai musei, ha proposto un Sistema museale nazionale aperto agli altri musei, abbattendo un muro che ha limitato la possibilità dei musei – pubblici e privati - di cooperare, di costituire un insieme con i musei statali. Questo è un punto assolutamente di grandissima rilevanza, perché guarda all’organizzazione di un sistema misto, permettendo la collaborazione, sia a livello di vertice, sia a livello territoriale, non solo tra musei, ma anche tra musei, archivi, biblioteche.
 
 
La potenzialità di creazione di un sistema territoriale è un punto ancora sottovalutato dai commentatori.
Totalmente. È l'asse politico della riforma Franceschini.
A livello statale c'è una discrasia, che dagli anni '80 si evidenzia sempre di più, tra l'identità che i musei si danno e le norme che li regolano. Per intenderci, gli standard museali approvati nel 2001 con decreto ministeriale, sono applicati da alcune regioni, ma non dallo Stato. I musei statali non hanno un direttore, ma hanno delle persone che se ne occupano, nell'area sovrintendenze; non hanno un bilancio autonomo. In qualche modo sono restati, anche quando sono stati considerati istituti della cultura, quello che i giuristi chiamano delle «universitas rerum», cioè delle collezioni. E’ realtà completamente distonica tra quanto l’ICOM- con i suoi professionisti museali, funzionari dei musei statali compresi- ha sempre affermato, partendo dalla Conferenza Nazionale dei musei del 1990.
 
 
I funzionari stessi avvertivano un’esigenza di evoluzione.
Questa conferenza diede luogo a due progetti, il progetto «Covatta» e il progetto «Chiarante», che non passarono e furono in qualche modo seppelliti dalla riforma «Ronchey». Da allora, l'avanzamento dell'idea che il museo è un istituto, che deve essere dotato di un direttore, deve essere dotato di un'autonomia gestionale, che non vuol dire indipendenza, ma responsabilità sulle risorse, è andata progredendo senza essere accolta dalla normativa statale.
 
 
Come può muoversi la riorganizzazione del sistema museale nazionale?
Secondo tre possibilità. La prima è che si attui un sistema solo statale, più o meno come era in passato, con razionalizzazioni; ma governance statale. La seconda è che, a partire da questo nucleo, ci siano singoli inviti ad entrare in un processo a dominanza statale. La terza è che i modi di riorganizzazione dei poli regionali siano oggetto di un accordo, quindi sistemico, con enti locali e Regioni, con procedure e modelli comuni livello nazionale, da articolare all'occasione.
 
 
Nel 2000 lei scrisse un libro «Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano», in cui esplicitava questi temi.
Rivendicavo una diversa condizione del museo. Oggi l’abbiamo. Sono passati 15 anni. Ora l'importanza di una riforma dei musei statali è doppia: parifica i musei statali a tutti gli altri musei; costituisce un modello da cui tutti gli altri musei non possono più prescindere. Per cui la lettura congiunta del decreto di riorganizzazione, del decreto del 23 dicembre, che regola la materia museale e lo stesso bando dei 20 direttori - tre documenti estremamente avanzati - presenta la discontinuità attesa in termini di cultura giuridica e gestionale.
 
 
Quasi frutto di una forzatura, un innesto di una cultura esterna all'interno del Ministero. Sappiamo che in qualsiasi trapianto ci sono i rischi di rigetto. Quali sono i fattori critici di successo della riforma? Le resistenze che oggi prendono corpo nelle polemiche e nel dibattito che si è aperto.
Una situazione economica che rischia di non mettere a disposizione degli istituti che si stanno creando, le risorse umane ed economiche, necessarie a sopravvivere.
 
 
Una riforma con le stesse persone...
Non con le stesse persone; con meno persone. Questo è il secondo punto. Se questa riforma fosse stata fatta, come chiedevamo, quindici anni fa, quando esistevano le risorse per dotare i musei del minimo sufficiente, sarebbe stato più agevole. Il ritardo si paga. I musei civici oggi, con la sostituzione del turn over di vertice con amministrativi, senza un organico rinnovato, non costituiscono un polo di riferimento sufficientemente forte da costituire un partner in grado di partecipare con il peso che meritano al processo di costruzione del sistema museale nazionale.
Gli operatori non hanno cultura museale e la formazione dei nuovi operatori ha le stesse debolezze.
Quindi ci sono ostacoli economici, politici - i rapporti tra Stato, Comuni, Regioni, è determinante -, culturali.
Ma tutti i cambiamenti debbono iniziare. Si parte in una situazione di confusione che regnerà sovrana, verrà metabolizzata per condurre a porre le basi per un vero sistema di musei nazionale. Quindi bisogna, da un lato, capire la riforma e dall'altro chiedersi quali sono i passi attraverso cui, progressivamente, attuarla, renderla efficace, efficiente. C'è pessimismo nell'immediato, ma ottimismo sulla prospettiva.
Un esempio che mi appartiene: i Valdesi aderirono alla riforma nel 1532, i primi templi vennero costruiti dopo gli anni '50, quando una generazione di pastori preriformati venne superata da una nuova…
 
 
Il bando internazionale−poi vedremo quale sarà l'esito e soprattutto quale potrà poi essere la traduzione−potrebbe favorire un ricambio.

Certo. Allo stato delle notizie il 90% delle domande è nazionale e un 10% proviene dall’estero. Molti italiani lavorano all'estero. Il caso dell'Egizio è esemplare: Christian Greco lavorava a Leiden.
C’è stata un po’ di polemica sulla scelta dei venti musei, ma da un punto di vista pratico, l'aver scelto venti casi di grande rilievo, presso cui sperimentare la riforma è il passo chiave.
 
 
Alla luce dei nodi che ha esplicitato come si propone ICOM nel supportare il cambiamento tracciato?
Abbiamo proposto un protocollo, un accordo di collaborazione col Ministero, sia in vista dell'impegno del Ministero per la Conferenza, sia in vista di una collaborazione a tutti i livelli, dalla formazione, alla creazione di sistemi di poli regionali, attraverso i nostri soci. Anche con ANCI.
 
 
Con la trasformazione della governance dei territori, dei rapporti centro-periferia, si apre il grande tema del futuro delle istituzioni provinciali. È un momento complesso, di cambiamento generale degli interlocutori istituzionali, ma estremamente affascinante, di opportunità di energie che entrano in circolo. Possono esserci però vuoti istituzionali. Si tratta di capire come verranno colmati. Ci arrivano molti quesiti in questa direzione e anche proposte di gestione dal basso, da parte delle comunità che vogliono prendersi cura dei propri beni, che pensano di organizzarsi con veicoli giuridici dedicati per la gestione di biblioteche e musei provinciali, come è accaduto efficacemente nel caso del museo Archeologico a Salerno.
C’è stata una sottovalutazione e un'incomprensione della riforma Del Rio, pensando che le province continueranno ad esistere, in altra forma.
 
 
Un cambiamento gattopardesco? Cambiare per non cambiare?

In realtà è cambiato moltissimo. Il ruolo dei comuni. La costruzione delle unione di comuni. L’introduzione delle città metropolitane e delle aree vaste. La possibilità di costituire sistemi.
Il nostro suggerimento di trasferire musei e biblioteche provinciali ai comuni capoluogo, con il finanziamento dell'insieme dell'area, non comporta la creazione di fondazioni ad hoc. Sarebbe sufficiente che il comune capoluogo attivasse le cosiddette funzioni associate, gestendo servizi in nome e per conto dell'insieme dei comuni, con l’effetto di una cooperazione orizzontale, una vera e propria sussidiarietà, senza costituire nuovi enti che costano. Non è facile, però è una prospettiva possibile.
 
 
Con un altro cappello, come Presidente della Fondazione Guelpa di Ivrea, Lei verifica direttamente sul campo che non è semplice.

Seguendo il piano strategico dell'Area Metropolitana è evidente che Torino è una realtà, i comuni della cintura sono altre realtà e poi esistono delle altre polarità. Ci sono due modi per realizzare le unioni: farle nascere dal basso, guidarle dall’alto. Ho l'impressione che il meccanismo debba essere quasi una tenaglia. Da una parte vanno imposti processi perché ci manca la cultura della costruzione di sistemi cooperativi. Il municipalismo affonda in una tradizione di lunga durata: non dimentichiamo che la maggior parte dei confini comunali sono un retaggio medioevale. Nel momento in cui dall'alto viene l'impulso a costituire delle unioni e queste sono comunque il frutto di una decisione dei comuni, deriverà una potenziale razionalizzazione dei servizi, tutti, anche culturali, che oggi non c'è. Un esempio. Se pensiamo al caso delle biblioteche torinesi, abbiamo da un lato un sistema civico, limitato al solo comune di Torino, e il cosiddetto SBAM- che è il sistema bibliotecario dell'area metropolitana che mette in relazione le biblioteche dei comuni limitrofi. È molto interessante lo sviluppo del processo nelle aree metropolitane. Vale per le biblioteche, ma anche per gli eventi.
Ho l'impressione che siamo in una fase in cui un modello di governance a piramide che abbiamo ereditato, si sta frantumando e in modo del tutto disomogeneo, tra regione e regione, tra territorio e territorio si registra una capacità di reagire secondo un modello sussidiario, che dal 2001 abbiano elevato a principio costituzionale, ma che è soprattutto una nuova cultura, politica e organizzativa.
 
 
C’è stata un'accelerazione nella sussidiarietà, complice la crisi, dal mio profilo d'osservazione, anche supportata da alcune fondazioni di origine bancaria, virtuose, che nei loro territori hanno sviluppato questa filosofia della cooperazione; una cooperazione trasversale, che è un valore che va ben al di là della messa a disposizione delle risorse finanziarie.
Alla crisi, tutti hanno inizialmente reagito chiudendosi a riccio, cercando di strappare il massimo delle risorse disponibili, usando i risparmi degli anni precedenti. Con il passare degli anni queste possibilità sono venute a mancare e sta emergendo una nuova disponibilità alla cooperazione. È la risorsa su cui lavorare.
 
 
Ritornando alla Sua esperienza nella Fondazione Guelpa.
Molte fondazioni create negli ultimi vent'anni sono prive di un presupposto fondamentale: un patrimonio per lo scopo. Sono associazioni mascherate da fondazioni. La Fondazione Guelpa ha un patrimonio e soprattutto competenze nella gestione in uno degli amministratori, che ha conseguito risultati finanziari che consentono di alimentare la progettualità.
Nei musei americani queste figure sono ricorrenti: persone che hanno una preparazione culturale, ma soprattutto la responsabilità di sostenere lo sviluppo del patrimonio.
La fondazione Guelpa ha una trasformazione in corso. Io sono il primo presidente non di estrazione politica. Occorre quindi creare un equilibrio tra autonomia e rispetto degli indirizzi dell'amministrazione, una dualità complessa da far comprendere. Oggi siamo di fronte ad una polemica col Consiglio Comunale, molto acuta, proprio sui temi della natura del controllo, del valore dell’indirizzo politico da esprimere.
Un punto questo cardine anche nelle riflessioni che abbiamo condotto sulla creazione dei nuovi sistemi provinciali: è necessaria una visione per attribuire al comune capoluogo una funzione che non è di predominio sugli altri, ma di nodo al servizio di una rete.
 
 
È un fatto culturale. Sono nuovi modelli di governance.
È un fatto culturale, ma che va al di là dell’arte. Riguarda il modello di cittadinanza, di democrazia e quindi il senso di un'attività sui musei deborda. La fondazione Guelpa è paragonabile ai cosiddetti «arm’s lenght bodies» anglosassoni: un modello di governance della cultura in cui gli indirizzi e i fondi sono dati dallo Stato, ma la loro gestione è fatta attraverso un sistema di peer evaluation, cioè di valutazione da parte di tecnici, in relazione a standard che tolgono la discrezionalità nell'uso delle risorse. Un meccanismo in cui lo Stato non decide, ma fa in modo che le decisioni siano prese in una relazione dialettica tra soggetti riceventi e soggetti erogatori.
 
 
Un potere pubblico con una forte visione politica.
Che oggi manca. Negli anni '90 - come abbiamo visto anche a Torino con le giunte Castellani - l’attenzione era sullo sviluppo delle strutture culturali, subordinando in qualche modo le politiche degli eventi. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una maggiore attenzione agli eventi a livello nazionale. Abbiamo una forte necessità di un ruolo del pubblico, che restituisca alla Cultura un peso strategico nelle politiche, effettui monitoraggi e valutazioni, esigendo rendicontazioni di impatto, anche sociale.
 
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Daniele Lupo Jalla. Storico di formazione, dal 1980 al 1994 ha lavorato presso la Regione Piemonte, prima come funzionario e, dal 1991, come dirigente del Servizio mostre dell’Assessorato alla cultura. Dal 1994 al 2012 è stato dirigente dei Servizi museali della Città di Torino occupandosi, tra l’altro, dell’ideazione e realizzazione dell’Abbonamento Torino Musei, dell’allestimento del Museo Nazionale del Cinema, del Museo diffuso della resistenza, del Museo della Frutta, dell’Ecomuseo urbano e del museo della città on line MuseoTorino.
Iscritto all’ICOM dal 2001, membro del Consiglio direttivo di ICOM Italia (2001- 2004), ne è stato Presidente (2004- 2010), membro dell’Executive Council (2010-2013). Dal 2010 fa parte del Direttivo di ICOM Italia. È stato membro del Consiglio superiore dei beni culturali e fa parte del Consiglio direttivo del Centro Primo Levi e del Seggio della Società di Studi Valdesi.
Dal 1999 è stato docente a contratto in diversi Atenei insegnando legislazione dei beni culturali, storia della legislazione dei beni culturali, gestione dei beni culturali e dei musei; gestione delle organizzazioni culturali. Insegna ora museologia alla Scuola di specializzazione in beni DEA dell’Università di Perugia.
Nella sua attività di ricerca si è interessato di storia orale, di storia della deportazione, di Alpi e di storia valdese, di museologia e museografia, pubblicando sull’insieme di questi argomenti oltre 150 titoli, tra cui: La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento protagonisti (Angeli 1986); Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano (Utetlibreria 2000/2003), Hugues de Varine, Le radici del futuro, (Clueb 2005)Héritage(s). Formazione e trasmissione del patrimonio culturale valdese (Claudiana 2009).
Tra il 2002 e il 2012 ha ideato, con Alain Monferrand, il programma museografico del Forte di Bard (Valle d’Aosta), ed è stato in seguito responsabile scientifico della sua realizzazione.
Pubblicista dal 1992, ha collaborato con numerose testate e riviste. È direttore responsabile del Bollettino della Società di Studi Valdesi. “Chevalier de l’ordre des arts et des lettres” della Repubblica francese, è sposato, ha due figlie e vive tra Torino e Torre Pellice dove è nato nel 1950.

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