È il metabolismo, baby!
Come riprendere l’orientamento dopo Parigi e Colonia
Tra le insensate usanze tribali in cui siamo immersi c’è anche quella dei buoni propositi di inizio d’anno.
Quest’anno pensavo seriamente di iniziare una dieta quando Parigi e Colonia mi hanno fatto correggere il tiro, spingendomi a immaginare il mondo come la mia pancia e riflettere sulle difficoltà che abbiamo tutti a darci una regolata. Mi è sembrato che la situazione si potesse descrivere così: sappiamo cosa fare per stare meglio ma non lo facciamo. Né individualmente né come comunità.
Arrivati a questa consapevolezza ci blocchiamo, ma la pressione emotiva impone qualche soluzione: capiamo che non si può stare inerti ma anche che non ce la si può cavare da soli. Per uscire dall’empasse viene istintivo ricorrere all’aiuto delle persone di buona volontà. E qui il secondo blocco: ci accorgiamo di aver fatto piazza pulita dei nostri automatici riferimenti a linee di pensiero e di azione in cui avere fiducia. Non ci sono più sedi in cui riconoscersi. Abbiamo delegittimato le istituzioni e i partiti: inefficienti, corrotti, incapaci. Ormai da anni abbiamo dissentito su questa o quella polemica montata sui media quando, per competenza o perché accidentalmente coinvolti, c’è capitato di sapere qualcosa di più delle news: allora abbiamo pensato che ampliare (o ridurre) il portato degli avvenimenti come fanno loro equivalga a mentire, o peggio a indurre in inganno. Quindi da tempo riteniamo i media inaffidabili (e facciamo bene, anche vista la circolazione di notizie e commenti dopo i fatti recenti). E così, di “non in mio nome” in “non in mio nome”, noi benpensanti ci ritroviamo soli e in difficoltà ad assumere una linea di comportamento di fronte alle emergenze, una linea che soddisfi il nostro senso di cittadini, libertari, solidali, culturalmente solidi.
Ma è qui che viene a galla la melma nella quale ci siamo cacciati: nel chiuso delle nostre auto e delle nostre stanze, sbarriamo gli occhi pensando a questi eventi come emergenze planetarie, ci impauriamo perché in un paio di settimane ci sembra colpita e in via di affondamento la democrazia occidentale. E improvvisamente mi accorgo: con le mie inquietudini sto facendo il gioco del nemico, che con una dozzina di attentati crepa l’edificio del nostro amato sistema di valori e il nostro comodo modello di vita più di quanto sia riuscita a fare un’intera guerra mondiale, quando milioni di morti non hanno minimamente scosso le certezze di chi era rimasto fiducioso nella democrazia e nella libertà, e ha scelto senza esitare la parte per cui combattere.
Insomma per qualche giorno lo smarrimento mi ha depresso, fino ad una faticosa ricomposizione che provo a raccontare. Per descrivere quella che mi pare un’avventura del cuore e della mente, non so fare di meglio che tentare di riprodurre il filo dei pensieri emozionati che mi hanno percorso, a partire dalla disperazione di Parigi. Ripensandoci, di Parigi mi ha colpito non soltanto la mattanza lucida e fredda che ha insanguinato il teatro e le strade, ma la quasi contemporanea cerimonia istituzionale sul cambiamento climatico e soprattutto l’infantile versione che del tutto han dato i media, svelando l’impreparazione non solo emotiva, ma etica e razionale del nostro piccolo mondo antico di fronte a tutto il resto che si trasforma.
Mi è venuto in mente subito un libro o un film visto, dove a un malcapitato inorridito, perché piombato in un teatro di guerra veniva detto: benvenuto nella tua nuova casa, baby! Ma non posso accettare che questa situazione di gente sola e impaurita sia il milieu del mondo che dovrò abitare i prossimi anni e lasciare ai miei figli: ho paura della paura, perché genera reazioni emotive insensate, perché è ancora più pericolosa di ciò che l’ha generata, perché so che il sonno della ragione genera mostri.
Devo dare un senso a ciò che accade, perché solo così potrò superare la paura. Ma per dare senso agli eventi devo liberarmi di mille comode omissioni di riflessione, di mille fette di prosciutto sugli occhi. Devo finalmente leggere la mappa in cui sono localizzati i 30 e più mila morti all’anno per attentati, assimilare che il 95% di essi sono cittadini non EU. Devo guardare la mappa della desertificazione e del land grabbing africano, mettere in conto che la fame falcia in certi paesi il 5% della popolazione all’anno, e finalmente rendermi conto che la morte per fame è fin peggiore di quella per guerra e spinge per migliaia di chilometri milioni di migranti cosiddetti “economici”. Sono informazioni che abbiamo in ogni link di Facebook ma non le facciamo arrivare al cervello e men che mai alla pancia. Con quel cervello che fa lo struzzo e quella pancia coi crampi di paura continuiamo a pensare di essere nel mirino dei cattivi, a distinguere tra asilo dovuto al profugo di guerra e asilo non dovuto agli altri, a non distinguere tra delinquenza e comportamento culturalmente diverso, a pensare che i “diritti acquisiti” sono intoccabili se no crolla la credibilità dello Stato.
Insomma devo superare i falsi “punti fermi” a cui siamo stati abituati. In primo luogo devo fare mio quello che la cultura scientifica ci dice da 100 anni: che apparteniamo ad organismi complessivi, ad ecosistemi naturali ed umani ben più generali del micromondo di riferimento, di cui ci siamo serviti sinora, sprecando e sporcando come rampolli fin de race in una dimora avita. Siamo parte di ecosistemi che hanno le loro regole, siano naturali o socioeconomiche, culturali o etiche, comunque ben più generali e vitali del regolamento di condominio con cui crediamo di gestire le nostre città e la nostra Europa.
E’ facile, per chi si occupa dei grandi sistemi, capire le relazioni necessarie che fanno corrispondere reazioni ad ogni azione: anticorpi ad ogni invasione, cambiamenti di direzione ad ogni fallimento, tensioni ad ogni sopruso. E’ meno facile, per chi è condotto a ritenersi al centro del mondo, come gli europei colti e affluenti, ritornare a pensarsi parte infinitesimale di un individuo ben più grande, che ha un suo metabolismo fondamentale, che prevale sulle minuscole esigenze delle singole cellule. Infatti io ci ero arrivato, a pensarmi come microorganismo di Gaia e come mattoncino della macchina socioeconomica mondiale, ma non ero arrivato a rendermi conto che metabolismo significa letteralmente cambiamento, cioè che le regole a cui siamo sottoposti sono processi trasformativi necessari, a cui conviene consentire, per stare meglio noi, meglio tutti. Trovo la definizione scientifica di metabolismo: flusso di materia ed energia che consente all’individuo di conservarsi come struttura organizzata.
Quindi è il continuo cambiamento, adattamento, trasformazione, che consente all’individuo Me di conservarmi (quindi: ora, qui, prendere provvedimenti contro l’adipe accumulato), e all’individuo Mondo di conservarsi (quindi, di nuovo: ora, qui, prendere provvedimenti contro l’adipe accumulato). E io sono sottoposto a entrambi i regimi di cambiamento, perché devo accettare (e collaborare con) il mio metabolismo ma anche con quello del mondo.
Mi rivedo quando, ragazzo, mi avevano rifilato l’apologo di Menenio Agrippa, dove alle braccia scioperanti che non alimentavano la bocca veniva insegnato che deperivano anche loro se l’organismo non funzionava più. Avevo pensato all’autoritarismo sottinteso e avevo dato un’interpretazione di classe del senatore patrizio che discettava contro i plebei. Mi rendo conto ora che, se l’organismo è il Mondo, i processi di adattamento e di riequilibrio che si innescano dopo lunghe fasi di accumulazione di sperequazioni, di sofferenze per squilibri ripetuti per secoli, non distinguono tra ricchi e poveri, ma piuttosto danno luogo a scossoni violenti, crisi trasversali, che ricercano nuovi assetti della “struttura organizzata”, strappi inaspettati che squassano i rattoppi e le cuciture marginali. E questa situazione di crisi dura, indomabile, sinché non ci sono le condizioni per un nuovo equilibrio strutturale.
Ecco, sin qui sono arrivato. Ora si tratta di mettersi d’accordo, perché non possiamo più essere soli, a consentire su ciò che consideriamo strutturale nel nostro mondo. Quali sono i valori che lo costituiscono, che non possono essere fungibili, che producono un altro mondo se si alterano. Dobbiamo scegliere, insieme, a cosa teniamo e rendere disponibile al cambiamento tutto il resto.
Riteniamo strutturale la libertà individuale? l’identità culturale? il welfare economico? la democrazia? i diritti acquisiti? Facciamo un elenco e mettiamoli in ordine, questi valori, perché è dalla loro gerarchia che deriva l’accordo per lottare insieme per un metabolismo migliore: fin dove possiamo consentire la trasformazione, cosa possiamo mettere in gioco?
Questo passaggio è fondamentale per un accordo metabolico, non posso farlo passare sottobanco come se fosse ovvio. Non posso sentirmi dire “riduco le libertà individuali perché siamo in emergenza” oppure “la democrazia si ferma di fronte alla decisione, già presa perché ovvia, di combattere i cattivi”. Saremo in emergenza per tutto il secolo. Avremo cattivi ad ogni angolo. Non posso pensare di delegare ogni scelta “perché siamo in emergenza”.
Usciremo dalla depressione e dalla paura solo ragionando così, chiarendo che l’habitat del nostro secolo è un mondo vivo, in trasformazione ogni giorno, che apparteniamo a un organismo planetario che richiede attenzione al proprio metabolismo. Vogliamo condividere con le persone di buona volontà quali sono le strutture organizzate da conservare, non nonostante ma CON le trasformazioni metaboliche.
Così cercheremo di chiarirci su cosa siamo disposti a fare fronte, saremo finalmente disposti ad unirci in partiti che fanno riferimento ad una gerarchia esplicita di valori da difendere e che lavorano per mettere in gioco le altre risorse a disposizione per cavalcare il cambiamento, per ottenere un sistema più adeguato, più capace di conservare la propria struttura organizzativa. Con questi obiettivi, ovviamente, sono interessato a lavorare per un partito che mette come fondamentale la libertà, poi e solo poi gli strumenti della democrazia e dell’identità culturale, poi e solo poi il welfare economico, ed è disposto a giocarsi i diritti acquisiti, con tutto ciò che questo comporta: dall’equità di partenza alla decrescita organizzata.
E’ il metabolismo, baby!
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