«Il privato e l’impresa credono nella cultura»
Torino. La cultura è fonte di sviluppo economico, e di questo sembrano ormai esserne (almeno sulla carta) tutti convinti, ma troppe sono le inefficienze che si riscontrano nelle istituzioni culturali, soprattutto legate alle rigidità nella allocazione delle risorse in organico.
Rigidità che agiscono, in via diretta, non consentendo di spostare gli esuberi verso le carenze, di ricollocare i guardia-sala fuori dalle 2 stanze che per una vita devono fissare immobili, di includere lavoratori anziani o volontari in una logica di collaborazione pubblico-privato, di coinvolgere nella gestione capacità manageriali che pur sono oggi disponibili nel mercato del lavoro. Ma che hanno anche pesanti effetti indiretti impedendo l’adozione di orari flessibili e adeguati alla diversa domanda di fruizione in luoghi o sedi diverse o ponendo la diffusione del project financing di fronte a resistenze per altri versi incomprensibili.
«Il privato e l’impresa credono nella cultura», dicono sostanzialmente all’unisono Licia Mattioli (Presidente Unione Industriale di Torino), Lodovico Passerin d’Entrèves (Presidente della Consulta), Giuseppe Gherzi (Direttore dell’Unione Industriale di Torino), Patrizia Asproni (Presidente di Confcultura, Confindustria), Ilaria Borletti Buitoni (Presidente del Fai). Ma lamentano un eccesso di burocratizzazione, la mancanza di un contratto collettivo unico e adeguato per inquadrare i lavoratori, un atteggiamento ben poco costruttivo da parte dei sindacati.
E per quale ragione mettere a sistema il mondo delle imprese (creative e non) con quello culturale rappresenti una buona idea lo hanno ulteriormente chiarito e spiegato tre invitati provenienti dal campo dell’analisi economica, Marilena Pirrelli de Il Sole 24 Ore, Paola Dubini dell’Università Bocconi e Alfonso Rosolia del centro studi dellaBanca d’Italia. La diffusione capillare dei beni culturali sul territorio è una enorme potenzialità, che può essere letta come una rete infrastrutturale già bella e pronta, ampia e sviluppata, adatta a essere usata come asset strategico capace di garantire competitività e mettere al riparo dagli effetti negativi della globalizzazione, essendo fatto di beni e servizi unici, non esportabili e non imitabili. Ma affinché il modello funzioni, questo asset (altrimenti inerte) deve essere messo in combinazione con il capitale umano, ovvero con dei lavoratori capaci, istruiti e motivati, come i molti che in questi anni sono stati adeguatamente formati nel nostro paese. Paola Dubini, che presiede il corso di laurea in Economia e Management per arte, cultura e comunicazione, nel quale il numero delle domande di iscrizione cresce ogni anno (a fronte di un numero fisso di posti a disposizione, per precauzione rispetto all’occupabilità dei laureati) evidenzia le potenzialità del nostro patrimonio di essere riconosciuto anche come eccezionale luogo di lavoro al quale potenzialmente aspirare anche dall’estero. La tipologia di siti presenti in Italia, che va da luoghi importanti e di enorme valore come il Colosseo, la Reggia di Caserta o il centro di Venezia e Firenze, ai beni culturali minori e diffusi, si presterebbe a essere palestra per fare esperienze diversificate e ineguagliabili, fondamentali per poi magari andare a lavorare al Louvre. Ma il nostro Mibac non è un luogo aspirazionale.
Di questa ineluttabile realtà sono evidentemente ben coscienti il Sottosegretario del Mibac Roberto Cecchi e il Direttore Regionale dei Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte Mario Turetta, che pur essendo illustri rappresentanti istituzionali, non hanno mancato di sottolineare come una gestione manageriale dei musei, improntata allo snellimento e all’efficienza unite al perseguimento dell’incremento della fruibilità siano l’obiettivo. Ma proprio gli organici rappresentano il nodo da sciogliere per poter intraprendere quella strada. I lavoratori sono allo stesso tempo troppi e troppo pochi. Sono pochi quelli qualificati, come quei funzionari del Mibac che, dato il loro numero complessivo, dovrebbero valutare 79 progetti di trasformazione del territorio al giorno ciascuno. O come i 31 addetti, divisi su due turni, che lavorano al Colosseo dove ci sono oltre 4 milioni di visitatori, mentre al Louvre, dove i visitatori sono 8 milioni, almeno fino a 2 anni fa si contavano circa 2.000 persone dedicate. Sono invece troppi i custodi, che pesano per oltre il 50% sull’organico dei circa 18.000 lavoratori dipendenti del Ministero.
Anche qui, come negli altri settori produttivi italiani, andrebbe probabilmente bilanciata meglio la flessibilità in entrata con la stabilità occupazionale, principalmente utilizzando lo strumento dell’apprendistato, su cui Elsa Fornero in qualità di Ministro del lavoro ha posto l’attenzione del suo intervento in videoconferenza, poiché porta ad aumentare la produttività e a creare relazioni di lavoro più stabili. Fare occupazione di qualità migliore è la sfida, in un momento in cui la crisi ha effetti gravi perché riduce gli apporti pubblici alla cultura, ma che deve essere occasione per innovare, rilanciare, collaborare meglio, esorta il Ministro.
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Giovanna Segre è Professore associato di Politica Economica presso la Facoltà di Design e Arti dell'Università IUAV di Venezia e insegna Economia della cultura in corsi universitari e in programmi di Master e Dottorato.