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«É la cultura che fa cambiare le città. Noi siamo la Fondazione Roma tout court»

  • Pubblicato il: 03/06/2011 - 08:54
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Umberto Allemandi
Emmanuele F.M. Emanuele

Una conversazione con Emmanuele Francesco Maria Emanuele. Nato a Palermo nel 1937, docente universitario, economista, avvocato cassazionista, amministratore di aziende, editorialista, esperto in materia finanziaria, tributaria ed assicurativa, saggista, nonché poeta, insignito della Laurea Honoris Causa in Belle Arti dalla St. John’s University di Roma e della Laurea Honoris Causa in Diritto Canonico dalla Pontificia Università Lateranense di Roma. Da fine ottobre 2009 è Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, che gestisce le Scuderie del Quirinale, il Palazzo delle Esposizioni, la Casa del Cinema e la Casa del Jazz. Presidente della Fondazione Roma, una realtà in assoluta controtendenza rispetto agli orientamenti generali delle Fob, da anni ha intrapreso un percorso verso la completa dismissione della partecipazione bancaria (a bilancio 2009 inferiore all’1%).

Lei si è distinto rispetto alle altre fondazioni per una sua autonomia critica, di giudizio, di azione. Addirittura è uscito dall’Acri, di cui era il Vice Presidente. Come lo spiega?
Ciampi aveva indicato alle fondazioni come uscire con gradualità dal sistema bancario per dedicarsi alla vocazione filantropica a favore dei grandi temi sociali del nostro Paese, che ora sono diventate emergenze: salute, ricerca scientifica, istruzione, cultura e volontariato. Strade di intervento che io peraltro avevo introdotto nello Statuto della Fondazione Roma prima della legge Ciampi. L’uscita dal sistema bancario è stata codificata dal Legislatore e ribadita dalla Corte Costituzionale allorché, a seguito della legge Tremonti, confermò la natura privata delle fondazioni e i loro compiti. In sostanza, sono uscito dall’Acri perché siamo la Fondazione Roma tout court e non più una fondazione bancaria: non abbiamo partecipazioni bancarie e non sediamo in consigli di amministrazioni di banche.

È soddisfatto della Sua decisione?
Da quando la Fondazione Roma ha deciso di uscire dal sistema bancario, nel 2003, i risultati sono stati così rilevanti che si commentano da soli: dalla gestione finanziaria del patrimonio mobiliare ottenuto dalla dismissione della partecipazione bancaria abbiamo ricavato 526 milioni di euro e la partecipazione bancaria nel contempo si è pesantemente svalutata del 70% circa. Al rientro dagli Stati Uniti, nel 2003, ebbi la certezza che si fosse alla vigilia di una grande crisi. Le banche ne avrebbero risentito ed esortai a uscirne per tempo. I miei colleghi mi considerarono un visionario, pensavano che le banche avrebbero tenuto. Coloro che non mi ascoltarono ora pagano le conseguenze, non solo in termini di perdita patrimoniale, ma soprattutto perché non hanno ricevuto i dividendi del passato e non sono in grado di dare le risposte alla collettività in alcuni comparti essenziali. La validità di questo modo di operare, anche sotto il profilo giuridico, ci è stata riconosciuta da Amato, padre della riforma, che ci ha citati - e che ringrazio per questo - come modello: «La Fondazione Roma e il suo presidente Emmanuele Emanuele, che ha fatto uscire da Capitalia la Fondazione (...) hanno portato a termine una giusta battaglia di principio creando una grande istituzione non profit. Emanuele ha realizzato il disegno che ispirò 20 anni fa la mia legge».

In questo contesto di crisi, il ruolo nel settore culturale delle fondazioni è adeguato?
Gli ultimi dati dimostrano la difficoltà delle fondazioni a fare fronte come in passato alle erogazioni, per la riduzione dei dividendi, principale fonte di approvvigionamento per l’attività istituzionale. Io non do giudizi sull’operato delle altre fondazioni, e quindi non so se il loro intervento nel settore della cultura sia adeguato alle esigenze del loro territorio. Posso parlare di ciò che ci riguarda: noi abbiamo potuto dare risposte concrete e crescenti in tutti i campi che ho indicato, in primis in quello della cultura.

Come ha ottenuto una così elevata redditività?
Il rendimento finanziario delle risorse rivenienti dalla dismissione bancaria è stato eccezionale: il 17,8% netto nel 2009, e ci ha consentito di mantenere stabili le erogazioni senza intaccare le riserve; quelle attuali ci permetterebbero di garantire costante flusso di erogazioni per i prossimi cinque anni, anche in carenza di altri proventi. Ritengo che la nostra strada sia stata intelligente, colta, osservante delle legge e redditizia.

In che cosa la Vostra strategia è diversa rispetto alle altre fondazioni?
Noi vogliamo fare esclusivamente attività filantropiche, non i banchieri, e dedicarci ai grandi problemi della società. Io ho coniato un termine, il «Terzo Pilastro», scrivendo sul tema un libro nel 2001. In una società in cui il Welfare non è più realizzabile dallo Stato c’è una sola possibilità: l’intervento di Onlus, cooperative sociali, realtà non profit, fondazioni, pur con le loro diversità, possono dare le risposte che mancano. Ho detto: «La politica faccia un passo indietro e consenta alla società civile di fare un passo avanti» nel rispetto del disposto dell’art. 118 della Costituzione in tema di sussidiarietà. È quello che Cameron sta realizzando con la «Big Society». Mi sorprende che l’Inghilterra, dove la questione sociale non è comparabile alla nostra, abbia un Legislatore attento a questi temi. Il nostro Paese ha una storia millenaria di attenzione al sociale, sia per la Chiesa che per il mondo laico, ma vi è una cronica disattenzione della politica a questi temi.

Come pratica in concreto quest’attività filantropica?
Abbiamo creato un ospedale per i malati terminali e agito nella ricerca scientifica, riserviamo una grande attenzione all’istruzione, con corsi rivoluzionari e all’avanguardia, l’ultimo dei quali per formazione di specialisti per la gestione di spazi espositivi. Abbiamo uno «sportello della solidarietà», ma soprattutto - lo ripeto - abbiamo agito nel campo della cultura, che considero la risorsa principale, ma sottovalutata, di questo Paese.

Perché la considera così importante?
L’Italia non ha una politica industriale e - quand’anche l’avesse - il nostro contributo alla produzione nei comparti tradizionali in Europa sarebbe marginale, e con il tempo ulteriormente marginalizzato. Non abbiamo una politica agricola da secoli. Neppure nel terziario. Ma soprattutto non abbiamo una politica culturale: solo lo 0,12% del Pil viene destinato al settore. Altri Paesi stanziano il doppio, il triplo rispetto a noi che siamo il più grande contenitore culturale del mondo e abbiamo un paesaggio eccezionale. La cultura è l’unico asset di cui disponiamo per competere con il mondo che ci circonda.

Una vera politica culturale come potrebbe contribuire a far uscire l’Italia dalla crisi?
È la cultura che farà la differenza in un’Europa in cui abbiamo titolo per essere protagonisti. Ecco le ragioni del mio impegno, al di là della mia sensibilità personale.
Nel Quattrocento il grande papa Martino V ritorna da Avignone e capisce che Roma, desertificata da malattie, brigantaggio, abbandono del popolo, poteva tornare a essere la capitale del mondo. E investe in cultura. Chiama i più grandi artisti da Firenze, Ferrara, Padova e Roma rinasce anche economicamente e politicamente, esprimendo una meravigliosa capacità creativa fino al 1780. Nell’Ottocento l’Italia cambia interessi; abbiamo qualche sussulto nel Novecento con il Futurismo, ma nel complesso il Regno d’Italia si mostra poco attento a queste tematiche: l’asse della cultura si sposta prima a Parigi e poi a New York. Noi possiamo ritornare a essere un grande Paese di riferimento in questa multiforme Europa, spingendo sulla cultura. Certo non con una politica che non ci crede e taglia, in modo lineare, i fondi destinati alla stessa.

Quali sono i Vostri interventi nel settore cultura?
Nel 2010 abbiamo destinato ad arte e cultura 15,87 milioni di euro. Manteniamo lo stesso impegno nel 2011, perché è un settore primario. In un momento di crisi, a Roma abbiamo due spazi espositivi attivi: Palazzo Cipolla, con un indirizzo verso la contemporaneità e Palazzo Sciarra con un’attenzione al classico oltre che la nostra collezione storica. Gestiamo i due più prestigiosi spazi espositivi della Capitale. Alle Scuderie del Quirinale le mostre, da Caravaggio a Lotto, testimoniano l’eccellenza che si sta manifestando. A Palazzo delle Esposizioni abbiamo fatto una grande mostra sul Messico, ora la grande pittura russa con il modernismo di Deineka. Opero a Milano - città nella quale ho vissuto e che amo - dove ho una felice collaborazione con il Sindaco Moratti. Faremo insieme una mostra sulla Milano degli anni sessanta, curata da Luca Massimo Barbero, che illustra quel mondo che ruotò, tra l’altro, intorno alla Galleria Marconi. Preceduta da quella di Roma dello stesso periodo con Schifano, Festa, Angeli, Uncini, Fioravanti, Lombardo, Mattiacci, Mambor, Pascali.

Roma in primo piano...
La cultura fa cambiare le città. Quando vedo sul «Giornale dell’Arte» l’offerta degli altri Paesi, Parigi, Londra, sento che potremmo farcela. Grazie all’accordo con Vittorio Sgarbi, porterò la mostra territoriale della Biennale a Palazzo Venezia a Roma, con la Sovrintendente del Polo Museale, dottoressa Vodret, e la Direttrice Generale per il Paesaggio e le Belle Arti, architetto Recchia. Ora è arrivato al Palazzo delle Esposizioni lo Stadel Museum di Francoforte e seguiranno il Realismo Sovietico e ancora il Guggheneim. Poi, la Silk Road; alle Scuderie Filippino Lippi, Tiziano, Veronese. Mi impegno per cambiare la situazione letargica, l’atarassico sentimento di una Roma che ha visto tutto. Ma mi sconcerta che negli Stati Generali della città non si sia dedicato neanche uno spazio a tutto questo.

Che consigli darebbe alle altre fondazioni? Occorrono riforme?
Non c’è nessun bisogno di riforme, la legge c’è ed è la legge Ciampi. Io non do consigli a nessuno ma mi chiedo: che senso ha avere il potere nella macchina bancaria quando queste azioni danno pochi dividendi? Nel futuro, il sistema bancario avrà sempre più bisogno di patrimonializzazione, come postula Basilea 3, ma le fondazioni potrebbero non avere più i mezzi necessari per gli au- menti di capitale ed il loro ruolo diverrebbe marginale.

Lei ha ricordato Martino V, che nel Quattrocento ha aperto la capitale alla cultura e Roma è risorta: quali affinità sente con quel papa?
Vittorio Sgarbi dice che nel ritratto di Martino V ci assomigliamo... Da quando sono Presidente ho scritto vari libri: «Stato e cittadino. La rivoluzione necessaria», «Il Non Profit strumento di sviluppo economico e sociale», «Le fondazioni di origine bancaria, genesi e sviluppo», «Il terzo pilastro».
Mi considerano un eccentrico poiché scrivo libri, oltre che di economia, anche di poesia. Pochi altri scrivono. Non sono interessati all’arte. Per carità, non voglio dire che sono l’«Illuminato», ma tento di fare la mia parte nel mondo della cultura e di farlo al meglio. Sinceramente spero che la mia passione contribuisca a far capire che oggi il Paese ha bisogno di cultura, che è la nostra unica opportunità.

Emmanuele Francesco Maria Emanuele è Presidente della Fondazione Roma dal 1995.

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(X Rapporto Annuale Fondazioni)