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Conversazione con il Professor Christian Greco, direttore del Museo Egizio, a metà del suo mandato. Riflessioni e aspirazioni del direttore del Museo più amato dai torinesi, e non solo.

  • Pubblicato il: 25/10/2016 - 10:30
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Paola Stroppiana

Incontriamo il Professor Greco, 41 anni, direttore del Museo delle Antichità Egizie di Torino (questo il nome corretto del più familiare Museo Egizio) nel suo ufficio al quinto piano dell’ex Collegio dei Nobili in via Accademia delle Scienze, sede del museo. Greco, nominato nel febbraio 2014 da una commissione presieduta dal rettore dell’Università di Basilea, noto egittologo, Antonio Loprieno, che lo ha selezionato tra 101 candidati, è giunto a poco più della metà del suo mandato, che scadrà nel 2018. Un incarico che lo ha visto protagonista, il 1 aprile 2015, della grande riapertura al pubblico del museo, totalmente rinnovato nei suoi allestimenti dopo 3 anni e mezzo di lavori, riapertura che ha inaugurato anche una nuova stagione di mostre temporanee, convegni, collaborazioni con il Teatro Stabile, e ultima, la partecipazione alla Notte dei Ricercatori. L’Egizio è al 7° posto dei musei più visitati in Italia nel 2015 e nell’aprile di quest’anno si è staccato il milionesimo biglietto; un’affluenza in continua crescita che, pur fondamentale per il sostentamento dell’istituzione (arriva a finanziare il 110 % dei costi) non è il solo grande risultato da raggiungere per il Professor Greco.

Qual è l’obiettivo principale di un Museo come l’Egizio di Torino?
La ricerca è la parola chiave. E grazie ad importanti sinergie col territorio questo si sta attuando, penso al professor Gallo della cattedra di Egittologia qui a Torino, che ha recentemente condotto degli scavi sull’isola di Nelson ed è una persona di un livello scientifico altissimo che forma molti bravi egittologi: diversi miei curatori sono stati suoi studenti. Oggi è opportuno valersi di varie competenze per studiare e comprendere la cultura materiale antica e quest’anno abbiamo attivato molte collaborazioni con i diversi dipartimenti dell’Università.

E’ in previsione una sua docenza?
Personalmente a breve terrò un modulo di insegnamento all’università di Torino: la collaborazione tra museo e università si rinsalda da quando questa pratica fu abbandonata. L’ultimo fu il Professor Silvio Curto (egittologo e direttore del Museo Egizio dal 1964 al 1984) a cui io guardo da sempre come mio Maestro, come colui che vorrei imitare, soprattutto come colui che seppe sempre mettere al centro la ricerca. Lo fece istituendo in prima battuta la biblioteca (che infatti è lui intitolata); con i pochi soldi che c’erano a disposizione aprì le porte ai ricercatori internazionali che lui ospitava anche sul divano di casa, perché era importante che questa collezione rivivesse attraverso le collaborazioni tra studiosi. Notavo, leggendo le sue note biografiche (altro motivo per averlo come maestro), come riuscisse sempre ad avere una visione positiva degli avvenimenti che gli capitavano, come, ad esempio, la sua prigionia in tempo di guerra che lo portò nelle Hawaii: la visse come un’occasione per imparare l’inglese! In un altro passaggio racconta come alla fine degli anni ’70 il lavoro di soprintendente fosse diventato sempre di più un lavoro burocratico in cui ci si poteva dedicare meno alla ricerca: per lui fu però occasione per capire meglio proprie le complessità del sistema burocratico e affrontarle più agilmente.

Come si auspica che sia percepito il Museo dai visitatori?
Io mi auguro che la città per prima percepisca il nostro come un museo archeologicamente maturo, che si possa visitare più volte. Voglio che rimanga il museo che affascina i bambini delle quarte elementari, ma anche un luogo in cui si possa tornare a età diverse e più volte in un anno per ritrovare sempre contenuti nuovi. Noi siamo sempre attivi nel ripensarci, poco più di un anno fa abbiamo aperto la galleria della cultura materiale; dopo il successo del Nilo a Pompei stiamo per aprire un’altra mostra temporanea, per dare anche un altro messaggio importante: il Museo Egizio è un centro di ricerca situato nel cuore di questa città e con questa città si vuole radicare dicendo a tutti che ogni volta che si torna qui si può vivere un’esperienza nuova, scoprire nuovi orizzonti, nuove letture.

Un museo è vivo quando crescono anche le collezioni. Ci sono attualmente attività di scavo?
Si, ci sono, noi abbiamo aperto il 1 aprile 2015 e il primo maggio 2015 abbiamo dato seguito al regalo più bello che ho portato a questo museo: io ero il co-direttore di scavo della missione olandese a Saqqara che adesso è diventata la missione italo-olandese: siamo tornati a scavare! E questo è fondamentale per ri-legarci al territorio e capire la valenza della cultura materiale. Oggi non esiste più il partage, quindi non possiamo più importare oggetti, ma quello che possiamo approfondire è la nostra conoscenza che ci permette di meglio contestualizzare ciò che conserviamo. Possiamo dire che, se il museo come il nostro non crescerà più significativamente da un punto di vista quantitativo, deve crescere da un punto di vista qualitativo: un’istituzione come la nostra è tenuta a svilupparsi e a mutare aumentando le conoscenze, le interpretazioni e i punti di vista. Oggi diamo molta importanza alla documentazione fotografica, che fa parte della metastoria del museo. Ogni collezione ha un valore intrinseco molto importante per se stesso, ma, al contempo, questo museo è inserito qui da 200 anni e ha dialogato con il territorio e con i suoi visitatori: anche questo ha dignità museale. Questo è un concetto importante che lega tutti i musei e che forse in Italia non è stato ancora approfondito a dovere: se l’Egitto viene visto anche nella dinamica di ricezione (e la mostra il Nilo a Pompei ne è un primo esempio) si può arrivare ai confronti con le avanguardie, con Giacometti, quindi al dialogo e alle influenze che l’Egitto ha sul pensiero di noi europei da più di 2000 anni.

Il linguaggio scientifico può essere ripensato?
Come noi non presenteremmo un volume di 30 anni fa senza le dovute glosse per adeguarci alle conoscenze di oggi, così dobbiamo renderci conto che lo stesso deve avvenire per i musei. Un museo che ha impostazione di 100 anni fa con le didascalie datate va costantemente rivisto. In Olanda le gallerie permanenti vengono rinnovate ogni 10 anni secondo il concetto che la ricerca progredisce costantemente e quindi, anche se una collezione non aumenta, cambia da un punto di vista qualitativo: se io riesco a rileggere dei materiali questo deve essere comunicato. Allo stesso tempo il rigore scientifico è fondamentale, un museo come il nostro non può permettersi di abdicare ad una funzione scientifica primaria: al contempo, deve saper rendere partecipe chi voglia visitare il museo in un dialogo costante.

Lei tornerà a scavare?
Dovrei tornare a scavare il prossimo 15 marzo, attività a cui mi dedicavo con costanza durante i miei anni di permanenza al Museo di Leiden. In Olanda ho trovato un paese che crede e investe moltissimo nei giovani: investire nella ricerca è l’unico modo per far ripartire il nostro paese. La ricerca di base viene svolta di solito tra i giovani tra i venti e i trent’anni che però molto spesso non trovano possibilità di impiego. Personalmente guardo in modo scettico a quando si parla di fuga di cervelli, la ricerca per sua natura stessa è internazionale il problema è, al contrario, che in Italia vengono pochissimi giovani studiosi stranieri. Dobbiamo renderci conto che la cultura appartiene a tutti noi, la costituzione dice alla res pubblica! Se tutti i giovani comprassero un libro al mese, visitassero un museo al mese, oggi avremmo moltissime risorse da destinare alla cultura per nuovi posti di lavoro.

Se non fosse stato nominato direttore a Torino, qual era il suo piano?
In Olanda avevo un contratto da curatore a tempo indeterminato e la cattedra dei insegnamento di archeologia dei materiali all’Università. Mi era appena stato affidato il completamento del Museo di Leiden che è stato ultimato da chi mi ha succeduto; verrà inaugurato il prossimo 17 novembre e per l’occasione porteremo una mostra sulla regina Nefertari. Quando ho visto la vacancy a Torino ho fatto l’applicazione ma non pensavo assolutamente di vincere; posso dire che ho trovato una commissione che ha valutato i titoli con serietà e scrupolo, segno di un sistema che funziona, segno di un Paese che rinizia a credere nei giovani.

La percezione collettiva è non che si sia riaperto ma che si sia aperto il Museo Egizio! Per parafrasare una frase di Champollion che a lei piace spesso ricordare: la strada per Tebe passa di nuovo da Torino?
Deve ripartire da qui: la strada è lunga, non dobbiamo pensare di essere già arrivati: un’altra pecca che c’è in Italia è quella di cantare vittoria troppo presto, guardando ai risultati immediati senza considerare quel lavoro certosino di programmazione a lungo periodo assolutamente necessario.
A novembre la sala di Nefertari verrà svuotata per portare le opere a Leiden e a San Pietroburgo e procederemo con un allestimento che permetta di vedere dal vivo il restauro delle mummie: si vedrà cosa significa studiarle, fare le tac, procedere con il restauro con l’aiuto delle radiografie…

Fra quanto scade il suo mandato?
Il mio mandato scade fra un anno e mezzo e spero che sia rinnovato: mi auguro che si possa arrivare ad una forma contrattuale un po’ diversa rispetto ad oggi; come per i grandi musei internazionali, si deve poter offrire al direttore la possibilità di avere maggiore libertà di azione, il che non significa dare carta bianca, al contrario, dare un piano performance stringente in cui siano definite le linee di indirizzo dell’istituzione, in modo tale da richiamare il direttore alle proprie responsabilità dando però un respiro nella programmazione. Questi contratti a termine che ora sono molto in voga in Italia non ci permettono una programmazione a lungo termine come si fa all’estero. In Olanda nel 2014 hanno il programma culturale sino al 2024. Non capisco questo timore di dare libertà di sviluppo ad un direttore, pur legandolo ai parametri che devono essere stringenti su un piano strategico, ma non temporale. Quando parliamo di ricerca parliamo di progetti europei che prevedono un piano a lungo termine di almeno 10 anni. Se un direttore non è valido non deve rimanere neanche un mese, ma se un direttore porta un valore aggiunto ad un museo deve poter sviluppare un progetto articolato.

Come si immagina la collezione del Museo Egizio fra cinque anni?
Spero che le sale siano di nuovo mutate, siano di nuovo cambiate, spero che saremo molto attivi in preparazione del 2024 che sarà il bicentenario della fondazione del nostro Museo: io desidero che sia un evento importantissimo a livello europeo perché questa è la prima collezione egizia arrivata sul territorio nazionale. Spero che ci sia modo di ripensare la galleria dei Re, che il Museo sia sempre un luogo dinamico di ricerca dove ci siano studiosi con borse di dottorato, post doc, e il numero dei curatori sia raddoppiato. Vorrei che si sviluppassero percorsi trematici da scegliere in cassa, passando l’idea che questo è un museo molto grande, difficilmente visitabile nell’arco di una sola visita e che è assolutamente legittimo tornare più volte con sempre rinnovato stupore: il museo è un organismo vivo, in continua mutazione, e come tale deve essere vissuto.

Articolo tratto da La Gazzetta, Torino