Non c’è speranza senza progetto lungo
In questi giorni a Padova e in una dozzina di luoghi sparsi per le Alpi e gli Appennini, un migliaio di studiosi e di appassionati rende onore al Costruttore di montagna, celebrando il terzo meeting mondiale dei Paesaggi terrazzati.
Dall’alto medioevo per dieci secoli qualche decina di generazioni di montanari ha costruito centinaia di chilometri di muri in pietra che contengono il terreno. Cento massi da mettere con arte in pila per avere lo spazio in cui portare a spalle un metro cubo di terra, e ottenere un metro quadrato coltivabile, sul pendio della montagna. Sono due o tre giorni di lavoro duro; se si fa per cento volte si ottengono cento metri coltivabili: le dimensioni di un orto. L’orto però produce se c’è acqua in abbondanza, e per averla occorre altro lavoro, spesso ancora più arduo e difficile: i canali per l’irrigazione in montagna sono lunghi chilometri, spesso scavati nella roccia viva, con tracciati acrobatici a servizio di piccole comunità. E’ impossibile oggi rendersi conto dell’interminabile fatica che ha segnato i secoli dell’insediamento nella montagna italiana. Non erano lavori forzati, erano modi di vivere, regole di comportamento, di rapporto tra privato e comune, tra padri e figli, tra uomini e donne
Se a Genova si sale dietro Piazza della Nunziata si percorre un viale che porta a un palazzo principesco, che giganteggia occupando un’intera valletta con oltre 35.000 metri quadrati di sale e gallerie. E’ l’Albergo dei Poveri, un’incredibile istituzione benefica fondata a metà del 1600 da un gruppo di nobili delegati dalla Repubblica per soccorrere i bisognosi. E’ solo una delle migliaia di iniziative dei benestanti genovesi che negli ultimi quattro secoli hanno fatto forte e bella la Superba. La prima galleria porticata del Cimitero monumentale di Staglieno allinea centinaia di tombe di notabili, anche recenti. Su ciascuna sono incisi con dovizia di particolari gli impegni munifici per dare qualità e servizi alla loro città: enti assistenziali, teatri, ospedali, strade, moli e biblioteche. E lo stesso avviene per la borghesia affluente di Milano, Bologna, Firenze.
E’ impossibile oggi rendersi conto della dedizione degli imprenditori che ha segnato la costruzione della città italiana. Non erano speculazioni o investimenti per il proprio lucro, erano modi di vivere, regole di comportamento, di rapporto tra privato e comune, tra padri e figli, tra uomini e donne.
Perché oggi non riusciamo anche solo a concepire un senso sociale di appartenenza come quello che quei paesaggi urbani o di montagna testimoniano? Perché ci pare impossibile desiderare vite non egoiche, non dedicate al proprio successo personale ma al successo di imprese più grandi, non affrontabili da soli? Eppure le pietre sono lì a dirlo: coltivare le montagne, costruire le città sono azioni di popoli interi, che richiedono un senso di sé a servizio degli altri, del secolo e della vita che ormai abbiamo perso. Ormai usiamo la retorica delle “grandi opere” come mezzuccio per piccoli tornaconti sul breve periodo, e le parti che semmai si iniziano a costruire sembrano quasi più predisposte per essere assaltate da brame fraudolente che per avviare una nuova realtà duratura. E’ come se il futuro fosse chiuso alle prossime settimane, come se non fossimo più capaci di proiettarci oltre qualche mese.
E’ il progetto lungo che ci manca, quello a cui si appartiene e che non ci appartiene: il senso di far parte di un flusso di energie e di cure ininterrotto, che va oltre la nostra vita e le nostre forze, di un’impresa che indirizza a un futuro migliore noi, ma soprattutto il prossimo.
E qua si capiscono le cause dello scarso successo del progetto lungo nel nostro tempo: perché impone di devolvere le ambizioni personali ad un godimento collettivo, delle generazioni a venire, dei cittadini nel loro complesso. Quando il tempo di ritorno delle proprie azioni va al di là delle proprie aspettative, della propria vita, bisogna pensare che il proprio impegno è gratuito, anonimo, sciolto nella storia come il sale nella minestra. Al contrario oggi il culto della velocità ha fatto crescere il mito del risultato prêt-à-porter. Chi è interessato ai grandi guadagni non progetta l’impresa che investe, che produce con l’aiuto di molti e che accumula concretamente, negli anni, ma si affida alle rapine corsare sui mercati finanziari globali, dove si specula in astratto sulla mezza giornata, sul fuso orario. Oggi chi è interessato alla propria gloria non si impegna in un’impresa che, con l’aiuto di molti, lo faccia primeggiare e apprezzare stagione dopo stagione, ma si affida a performance da scoop solitario, senza preoccuparsi della legge che condanna le brevi rincorse a piccoli salti, e quindi a poche ore di notorietà.
Eppure oggi è attivo e vivace un popolo del progetto lungo, che fa i terrazzamenti e le cattedrali del terzo millennio, in modo gratuito e anonimo. E’ un popolo che aduna i milioni di ragazzi che aderiscono all’etica del networking environment, dell’open source e dello sharing. Partecipano al progetto lungo senza teorizzarlo, spesso in modo quasi inconsapevole, ma praticando un lavorio continuo di miglioramento, innovazione e ricostruzione ininterrotta dell’informazione che ormai costituisce non tanto un lavoro o un’impresa, ma un modo di vivere, di regole di comportamento, di rapporto tra privato e comune, tra padri e figli, tra uomini e donne.
E’ un progetto lungo, libertario e progressista, che aduna le buone volontà di chi pensa che le imprese intellettuali siano parte di un bene comune a disposizione dei contributi di tutti, tanto quanto nei liberi Comuni si pensava che la città fosse un bene comune a disposizione di chi la voleva abitare, e nel monte che si andava terrazzando si accoglieva chi partecipava alle corvée per la comunità e si ritagliava il proprio terreno con il proprio lavoro.
Sono quasi tutti giovani, tra i pochi che non hanno gli occhi smarriti, che poco si preoccupano di cercare qualcuno che gli offra uno stipendio, che non sono ossessionati dalla visibilità e dal successo, e che viceversa ritengono ovvio non pagare le rendite e non essere pagati per le rendite dei propri prodotti intellettuali, che lavorano intensamente in reti infinite per potenziare l’accesso gratuito alle informazioni, al sapere, ai tools che promuovono le competenze.
Come per la città e la montagna si aderisce a un progetto lungo non descrivibile, fatto di fede nella bontà dei propri strumenti, di speranza che la bontà dei mezzi porti da sola a fini ottimali, che forse vedranno solo altri.
E a chi non sembrasse che questa storia tratti di Storia ma di volgare lavoro rurale, operaio o postindustriale, occorre ricordare il gran barbone di Treviri, convinto che la speranza è proprio quella forza che riscatta il proletario e gli assegna un ruolo progettuale nella Storia. E se poi non sembrasse che stiamo parlando di progetti culturali, occorre ricordare che i primi taccuini di architettura riguardano le cattedrali e non recano disegni di archi e di guglie, ma di macchine per sollevare i carichi e tagliare le pietre.
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