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Proposte per una politica della Cultura

  • Pubblicato il: 09/08/2016 - 12:09
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Alberto Clementi

SPECIALE MECENATE '90. Quarto intervento per il Forum avviato in collaborazione con Mecenate 90. Interviene l’urbanista Alberto Clemente uscendo dalle dicotomie, con prospettive congiuntive. Parte dal ruolo delle città intermedie, “strutture multicentriche reticolari, che nel loro insieme possono diventare un’alternativa credibile al modello delle aree metropolitane e delle macroconurbazioni senza fine del territorio contemporaneo”. Riflette sulla ricentralizzazione dei poteri, proponendo al terza via del modello partenariale multiattoriale e multilivello, non “un modello astratto, come dimostra l’esperienza di successo dei programmi Urban di rigenerazione dei quartieri in difficoltà promossa e finanziata dall’Unione europea”. Le politiche culturali, se escono dalla gabbia del macro-settore, possono innervare gli altri assi, uscendo dalla loro marginalità. Ma occorre un cambiamento culturale della Cultura

Mecenate 90 propone di organizzare per l’autunno una giornata di lavoro nazionale sul tema “Il ruolo delle città intermedie nelle politiche culturali del Paese”. Condivido l’idea. Questa potenzialità deve essere utilizzata meglio in un Paese come il nostro che vanta un sistema articolato e diffuso di città intermedie, dove ancora il retaggio della storia si manifesta in modo evidente e spesso strutturante. Per di più, agli occhi di un urbanista, il tema delle città intermedie consente di affrontare in modo più ragionevole il problema della crescita urbana, finora caratterizzato anche in Italia da spinte sfrenate all’urbanizzazione diffusa che hanno portato allo sfondamento dei confini storici delle città per dare luogo a conurbazioni magmatiche e infinite, dissolvendo le aree metropolitane in territori aperti senza più centro.
Dunque sì al tema delle città intermedie, ma con una precauzione: di considerarle non singolarmente, ma per la loro particolare predisposizione a fungere da strutture multicentriche reticolari, che nel loro insieme possono diventare davvero un’alternativa credibile al modello delle aree metropolitane e delle macroconurbazioni senza fine del territorio contemporaneo.

Seconda osservazione. Tra centrale e locale
Tanto la tendenza alla ricentralizzazione dei poteri che quella opposta dell’autonomia del locale soffrono di evidenti limiti, favorendo contrapposizioni che rischiano seriamente di ostacolare il dispiegamento delle potenzialità esistenti di crescita culturale.
Una terza via, da imboccare con convinzione in un Paese come il nostro condizionato fin troppo da ataviche conflittualità interne alle diverse amministrazioni che articolano il sistema pubblico, è il modello partenariale multiattoriale e multilivello, che coinvolge tanto i poteri centrali che locali in processi di costruzione condivisa delle scelte, premiale nei confronti delle aree di consenso e di relativo depotenziamento per le aree di dissenso. Un modello dunque non oppositivo (il locale versus il centrale e viceversa) ma tendenzialmente congiuntivo, in grado di stimolare e accrescere le capacità di dialogo costruttivo e di cooperazione interistituzionale, programmaticamente votato ad includere anche l’area del privato a condizione di mantenere la regia saldamente in mano alla parte pubblica.
In questo processo d’interazione costruttiva, il ruolo del centro sarà di definire i limiti del possibile, delineando il campo delle strategie e delle progettualità da affidare al livello locale. Il locale per contro è chiamato a dar forma e contenuti al possibile, impostando e realizzando le azioni che sostanziano la visione perseguita.
Non è un modello astratto. Tutta l’esperienza di successo dei programmi Urban di rigenerazione dei quartieri in difficoltà promossa e finanziata dall’Unione europea è all’insegna di questa interpretazione del partenariato multilivello, che ha trovato qualche incertezza e remora soltanto nel mancato ruolo delle Regioni, peraltro tradizionalmente incapaci di definire una loro politica delle città. Nell’impostazione e nell’attuazione dei programmi Urban i Comuni, il ministero del Lavori pubblici, la Commissione europea hanno cooperato efficacemente, nel rispetto dei reciproci ruoli. E i risultati non sono mancati, soprattutto nel recupero dei centri storici del Mezzogiorno.

Terza osservazione. Tra tutela e valorizzazione
Un’accezione oltranzista delle politiche dei beni culturali e paesaggistici tende a demonizzare la valorizzazione e in particolare la valutazione sugli effetti sociali ed economici degli investimenti pubblici. Politiche dell’identità e dello sviluppo sostenibile vengono messe artificiosamente in opposizione, come se ciascuna dovesse necessariamente negare l’altra.
Invece anche in questo ambito c’è da preferire una terza via non oppositiva, la tutela attiva associata quanto più possibile ad azioni di valorizzazione, al fine di contemperare criticamente valenze culturali e strategie della fattibilità con la dimostrazione tangibile della positività complessiva degli effetti della spesa pubblica nel settore. Viene dunque richiesto ai tutori della tutela e della conservazione un maggiore senso di responsabilità nei confronti degli interventi da perseguire, dando conto esplicitamente degli effetti attesi, sia pure nei limiti di un inaccettabile confronto tra effetti quantificabili ed effetti intangibili, come quelli che sono in gioco nelle politiche culturali. Tra l’altro questa impostazione più matura e consapevole induce ad aumentare il volume degli investimenti pubblici nella gestione dei beni culturali, percepiti socialmente non più un freno ma importanti occasioni di sviluppo sostenibile con ricadute positive sull’occupazione e la competitività del territorio.

Riflessioni conclusive. Il possibile ruolo delle politiche culturali
Le politiche culturali, che pure ricomprendono un’assortita molteplicità di pratiche e strategie, di fatto tendono a comportarsi nel loro insieme come un macrosettore tra i diversi macrosettori che sostanziano l’azione dello Stato a livello centrale e locale.
Tutto ciò limita il loro contributo alla crescita del Paese, e tende purtroppo ad accentuare la loro residualità nelle fasi di grave recessione economica come quella che stiamo vivendo da tempo. Occorre invece funzionalizzare il loro ruolo rispetto a programmi ambiziosi di miglioramento delle condizioni di vita nelle città e nel territorio. Ad esempio, le biblioteche a Medellin in Colombia sono diventate la chiave di volta di uno straordinario programma pubblico di recupero delle bidonvilles e dei barrios clandestinos, con importanti investimenti complementari sull’accessibilità e sulle condizioni di vita delle popolazioni locali. Dunque al loro ruolo tradizionale di luoghi di accumulazione e trasmissione del sapere si è aggiunto quello di spazi prioritari di riscatto rispetto alla condizione di deprivazione culturale sofferta da queste periferie estreme. Il loro valore aggiunto si è per così dire moltiplicato, con ricadute complessive di grande portata rispetto a un grande progetto di emancipazione civile e sociale.
Come non pensare che anche le nostre periferie, occasione di ambigue e inconcludenti retoriche nell’azione del governo attuale, debbano trovare nella cultura una chiave di volta per ridurne la marginalità e la dipendenza dal centro-città?
Le aree di nuova centralità necessarie per rafforzare l’identità e la coesione delle periferie urbane devono catalizzare grazie anche alla cultura gli interessi della popolazione locale, esattamente come si è fatto in Colombia e come si sta facendo adesso in Brasile, all’insegna di una volontà riformatrice di lotta alle disuguaglianze sociali e di miglioramento delle periferie.
E’ questa l’innovazione che va perseguita nel pensare le politiche culturali e il loro ruolo (a mio avviso determinante nel miglioramento delle condizioni di vita nelle città e anche dei paesaggi, finora consegnate alla settorialità delle strategie, come quelle per l’accessibilità e per i servizi pubblici).
Ma allora devono cambiare anche gli atteggiamenti degli addetti ai lavori, che dovranno uscire dalla condizione di autoreferenzialità della cultura ed esporsi ai rischi del confronto con le altre politiche pubbliche e private.

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