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Il mondo icono-sonoro di Yuval Avital

  • Pubblicato il: 17/06/2016 - 18:30
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe
© Yuval by Beny Steiner

Il suo nome ha un duplice significato in ebraico. E' un ruscello che si stacca dal fiume perseguendo la sua propria strada, ma è anche il padre dei musicisti nella Genesi. E Yuval Avital, nato a Gerusalemme nel 1977 e dal 2003 residente in Italia è come quel ruscello da cui prende il nome, deviando e creando sempre percorsi imprevedibili e profondamente originali. Artista visivo e sonoro, compositore, regista e musicista solista, nel suo continuo attraversamento territoriale e disciplinare e nell'incontro (e scontro) con scienziati, cantori e portatori di tradizioni orali antiche, sguardi migranti ed erranti, traduce e accompagna i mutamenti del presente. Nella difficoltà di inquadrarlo in una definizione risiede il suo mondo, che anticipa mondi
 

 
 
 

Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dèi,
alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo
popoli il mare solcato da navi e la terra feconda
di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma,
e una volta sbocciata può vedere la luce del sole:
te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire
le nubi del cielo, per te la terra industriosa
suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare,
e il cielo placato risplende di luce diffusa.
 
Lucrezio
Inno a Venere
(De rerum natura 1-49)

 
 

 
Il suo nome è il nome del padre dei musicisti nella Bibbia (Genesi, 21), ma vuol dire anche «ruscello che esce dal fiume», creando un percorso che devia dal flusso. Cosi Yuval Avital, già noto come compositore e solista di chitarra classica, negli ultimi anni abbraccia un mondo di installazioni sonore e visive, - performance collettive che coinvolgono numerose persone nella creazione di rituali contemporanei, opere ‘icono-sonore’, quadri multimediali dal fortissimo impatto emotivo - e sfida le tradizionali categorie cristallizzate che separano le arti.
Con Alma Mater - installazione a grande scala per 140 altoparlanti, proiezioni e coinvolgimento di merlettaie di Cantù - ha ricreato, in dialogo con il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, l’archetipo della grande madre; con gli scienziati della NASA ha trasformato il chiostro di un ex-convento in un labirinto elettronico di traduzioni sonore dello spazio elettromagnetico; con le Nazioni Unite ha portato i visi silenziosi e potenti dei rifugiati su prestigiosi palchi, quali quelli del Teatro Pavarotti di Modena e del Brighton Festival; per l’opera Dirty Corner di Anish Kapoor ha stupito con un suono materico formato da 45 tube contrabbasso. Il futuro prossimo, oltre a concerti di grande rilievo, lo vede al lavoro per numerose nuove installazioni visive e sonore, in Italia e Svizzera.
Nella difficoltà di inquadrarlo in un’unica definizione, nel suo scorrere perpetuo come le acque di un ruscello in piena, risiede il suo mondo, che anticipa mondi. Lo incontriamo a Milano.
 
 
Ogni percorso artistico è una trama di storie. Partiamo dalla tua infanzia
Sono nato a Gerusalemme e considero il mio primo atto artistico raccontare delle storie. Quando ero all'asilo inventavo “bugie” che erano palesemente bugie. Raccontavo di mio nonno che aveva un albergo nel cuore dell’Africa e ogni stanza conteneva un animale diverso. Vi giungeva con una macchina che sapeva volare ma anche andare in fondo al mare. Più la raccontavo più questa bugia diventava veritiera e io ero pronto a lottare per essa. L'idea di una possibilità anche molto remota che questa storia potesse trovare aderenza nella realtà diventava qualcosa per cui ero pronto ad essere calpestato.
Per me in questo consiste la creatività: la capacità di avere un'idea - che man mano che viene approfondita prende forma e acquisisce preziosità unica- per cui si è pronti a tutto per mantenerla viva e realizzarla.
Le mie origini sono quelle della musica e del teatro. Ho studiato queste discipline fin da bambino in modo parallelo, a Gerusalemme, all'Institute of Contemporary music esprimendomi soprattutto attraverso lo strumento della chitarra.
In seguito mi sono concentrato sulla musica classica e sul teatro, al Jerusalem Academy of Music and Dance, dove ho incontrato la danza e le culture extraeuropee.
Nel 2003 sono arrivato con la mia chitarra in Italia, invitato dal maestro Angelo Gilardino a far parte di una classe scelta di solisti. Lui era nel Vercellese ma io quel luogo non lo sentivo mio. Cercavo un posto che mi ricordasse la mia Terra. Così, senza conoscere nessuno né la lingua, sono approdato a Biella, che con le sue montagne mi ricordava Gerusalemme, quella sinuosità del paesaggio che lascia presagire un altrove. Mi impegnavo da una parte nella disciplina classica, con una dedizione estrema e giornate di lavoro intensissime, dall’altra in viaggi verso confini lontani accompagnato dalla mia chitarra, abbracciando già dagli albori vari linguaggi e culture.
Viaggi dettati non dalla ricerca dell’esotico né finalizzati alla conquista di meraviglie da collezionare, ma spinti dal desiderio di una intensità che, portata nella contemporaneità, rappresenta per me una grande emozione: dal Kazakistan, dove ho lavorato con i nomadi, alle Filippine, con ensemble di cori di gong e bambù, a Duisburg, dove una compagnia di danza è diventata un coro in movimento.
Un percorso di 4 anni in cui ho cambiato registro, dall’esecuzione classica alla composizione, alle creazione multimediali.
Nel 2007 realizzo il mio ultimo concerto come chitarrista solista di musica classica al Toronto Performing Art e lì decido di lasciare questo mondo, che mi ha dato tanto.
Dall’anno successivo mi avvicino al mondo della musica elettronica e delle installazioni sonore.
Inizio a dedicarmi a opere icono-sonore e KOLOT (=voci in ebraico) - opera per 12 cantori tradizionali, un ensemble di solisti, videoart e elettronica - segna questo passaggio.
Dodici cantori di nove etnie diverse, portatori di tradizioni diverse spesso considerate ostili l’una con l’altra (Palestinese-musulmana e Ashkenazi-rabbinica) si incontravano in scene costruite come quadri allegorici di suono, gesto e immagine. Scene icono-sonore in cui suono e immagine crescono di pari passo. Scene che rappresentavano un punto cardinale nella realtà della mia terra natale in cui passava tutto: il lutto, l’obbligo, l’imbrunire.
Il mio pensiero si libera progressivamente dall'esigenza di avere una gerarchia tra linguaggi e da lì inizio a introdurre l’immagine in maniera costante nelle mie opere musicali e il suono nelle mie opere visive.
Nel 2011 realizzo Mise en Abîme[1], la mia prima «Opera di Massa Sonora», creazioni che coinvolgono numerosi esecutori per creare un’esperienza “materica” del suono, e introduco anche il termine «crowd music». La folla è un gigantesco anti-coro: un progetto di ricerca e creazione artistica basato sul coinvolgimento attivo di un grande pubblico, eterogeneo e non necessariamente composto da musicisti, che guidato da partiture grafiche e verbali di facile comprensione, da semplici codici gestuali e da un breve percorso di formazione, si trasforma da spettatore passivo a gruppo attivo in grado di formare una massa sonora potente e piena di nuove possibilità da esplorare.
La voce diventa connettore e risorsa per produrre arte insieme, indipendentemente dal background sociale, dalla conoscenza musicale, dall’età o dalle origini.
 
 
 
Ti interrompo al 2011, perché è un percorso biografico che fa emergere nodi interessanti. Mi hai parlato di luoghi, anche molti complessi, e della non-gerarchia dei linguaggi. Una non gerarchizzazione cui la musica può contribuire, più delle altre arti propriamente visive, per «svegliare il tempo», come scrive Daniel Baremboim. In che modo i luoghi, come spazi dell'immaginario, e le persone con cui ti relazioni nelle tue opere – la crowd –contribuiscono alla creazione delle stesse?
Ogni opera per me è una forma di indagine che parte da un elemento concreto, che può essere una cultura, come nel caso dell’opera Samaritani, o un concetto estetico, come nella mia opera di massa sonora Reka (in ebraico sfondo, che sarà eseguita il prossimo ottobre al Festival Aperto di Reggio Emilia), o un archetipo, come quello dell'Alma Mater, un elemento scientifico, come il rapporto tra energia, suono e immagini, come è stato per il progetto realizzato con gli scienziati di NASA e ESA. Ma dietro l'apparente poliedricità ci sono un percorso unico e un metodo molto rigoroso.
C'è uno studio approfondito, c'è un'analisi, c'è la ricerca dell'essenziale che provo a sviluppare e che può diventare opera, installazione, performance, immagine.
Ma questo viene dopo.
La musica mi ha insegnato a comporre. Il compositore, nel senso etimologico del termine, è colui che mette insieme le cose creando un nuovo ordine, nuove connessioni.
E' un lavoro invisibile, che trova nel dettaglio possibili accostamenti sottolineando un elemento celato nella realtà. Qualcosa che, nell'utilizzo di più linguaggi, si trasforma in un organismo complesso.
 
 
 
Nei tuoi lavori entri nel «vivo del farsi delle cose» e ti confronti spesso con le marginalità. Noi ci siamo conosciuti a Biella, a Cittadellarte, dove con «Rivers» hai lavorato con una folla vocale di rifugiati e altoparlanti. Uomini e donne in cerca di una relazione con un territorio nuovo, sicuro ma non 'proprio', non ancora. Attraverso l'arte sono state messe in evidenza le «segrete relazioni» che intercorrono tra la 'città' e il suo fiume, metaforicamente un tempo che scorre.
Qui devo un ringraziamento a Michelangelo Pistoletto.
Nel 2006, in occasione di un mio progetto intenerente che si chiamava Trialogo Festival, basato interamente sull'incontro tra discipline diverse, cercavo un luogo che lo potesse ospitare e un'amica mi consigliò di andare a Cittadellarte e parlare con Michelangelo Pistoletto. Lì ho trovato una famiglia.
Di Pistoletto mi ha colpito molto il coraggio di ibridare – e uso un termine che non amo molto ma che qui ben si presta – estetica e etica.
Una delle posizioni arrivate all'esasperazione del paradigma occidentale è l'estetica eccessivamente astratta, non legata al concreto.
Molti di miei lavori tendono a creare delle polifonie culturali - di linguaggi, di opinioni diverse – e ogni opera la sento e la vivo come qualcosa con un substrato etico che però avevo scelto di non sottolineare per il dubbio che venisse considerata per le sue intenzioni più che il suo risultato. Invece la posizione di Michelangelo – che mette subito a fuoco la sua posizione etica - mi ha dato coraggio.
Credo che il mondo abbia bisogno della poesia in modo astratto ma credo anche che gli artisti abbiano un ruolo, essendo portatori di una comunicazione che va al di là dell'informazione che ogni giorno ci bombarda. Possiamo portare un'altra forma di comunicazione che è vitale, un altro modo di interfacciare con la realtà, oltre l'esperienza individuale.
Con Rivers prima e poi con Fuga perpetua, opera creata con rifugiati in collaborazione e sotto il patrocinio delle Nazioni Unite, realizzata quest’anno al Teatro Pavarotti di Modena e al Brighton Festival, l'azione consisteva nel portare i narratori a narrare il silenzio, sé stessi. C'è il racconto delle storie dei rifugiati e il racconto di qualcosa di intimo e individuale. Una rottura della divisione tra realtà percepite come lontane, tra noi e loro.
 
 
Una delle protagoniste di Fuga Perpetua 
Fuga perpetua, still da video © Yuval Avital

Hai in parte anticipato la risposta a una mia domanda. Una domanda ricorrente che è anche un po' il leit motiv di questa nostra campagna d'ascolto. In un momento di grande auto-referenzialità dell'arte, che molto asseconda le logiche del mercato e della speculazione finanziaria, vogliamo comprendere quale ruolo può avere l'arte – soprattutto un certo tipo di arte, fortemente radicata nella società – nella lettura delle trasformazioni in atto. Trasformazioni che più che di paradigmi necessitano di campi aperti e 'trasgressivi' per navigare le incertezze. L'arte serve? E a me piace intendere il verbo servire non nella sua funzionalità quanto nell'essere al servizio…
Mi diverto molto quando qualche amico cerca di presentarmi a qualcuno che non mi conosce.
«Lui è Yuval, fa delle opere enormi, ma anche molto piccole, delle installazioni ma anche dei concerti».
Ecco, il mercato vuole una riconoscibilità ma a me non interessa questa riconoscibilità, io reagisco e in questo tipo di reazione accadono cose diverse che per me sono fondamentali. Come le bugie che raccontavo da bambino, sento che queste 'reazioni' sono qualcosa di importante.
 
 
 
Le tue opere traggono sempre linfa vitale dai luoghi in cui accadono?
Non sempre, ci sono anche opere molto astratte ma i luoghi lasciano sempre un'impronta che poi viene riportata, a volte in modo molto immediato, come una cartolina che invio, a volte in modo più nascosto, come una eco. Ritengo il mio lavoro opera di composizione, non di creazione.
Quando sarò isolato totalmente dal mondo la mia creazione sarà azzerata, perché sarà un vuoto che si confonde col vuoto. Ma io mi sento parte del mondo, generando rapporti molto intimi e forti, unici, che ti cambiano per sempre.
 
 
 
La tua opera è un’azione poetica. Prosa e poesia erano nelle società arcaiche tessute intrinsecamente insieme. Un connubio che le società moderne, con la tecnica e la razionalizzazione dei saperi, hanno separato. Lontano dall'attribuzione di chissà quale funzionalità - misurabile e immediata - o compito salvifico dell'arte, per me la pratica artistica è principalmente la capacità di 'rendere sensibili', come direbbe Didi Huberman. Quell'esercizio critico che ci induce a prendere una posizione, a scegliere.
Due settimane fa ero a Brighton con Fuga Perpetua e mi hanno chiesto che cosa mi aspettassi dal pubblico dopo il lavoro. La mia risposta è stata «nulla».
L'artista non deve insegnare. Viviamo una situazione di grande saturazione, in cui ogni giorno l'essere umano subisce una molteplicità di informazioni e strategie di mercato che lo portano all'azione.
Io non sono né religioso né credente ma sono molto legato alle mie origini. Nell'ebraismo c'è un paragrafo delle sacre scritture che dice «manda il tuo pane nelle acque del fiume, un giorno ti tornerà».
Il pane è la necessità primaria. Così le mie opere, frutto di anni di lavoro nell'invisibilità, vengono date alle acque e il ritorno è un ritorno di eco.

 
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 Silent quartet, still da video © Yuval Avital
 

E l'invisibilità ci unisce in un percorso comune: IN_VISIBILE, l'arte che rende l'invisibile visibile che nella prossima stagione vedrà la tua installazione, CLOSE/D. Mi riferisco a quanto stiamo costruendo - insieme a Giorgio Flamini e Rosaria Mencarelli - grazie a un progetto condiviso con il Carcere di Maiano e la Rocca Albornoziana, che fu carcere fino al 1982 e oggi Museo del Ducato di Spoleto, creando attraverso l'arte una relazione tra due luoghi apparentemente dicotomici. L'uno luogo di privazione, l'altro di generazione di idee di libertà, di cultura; entrambi luoghi deputati alla generazione di un'alterità. 
Permettimi una deviazione. Nel 2004 ho realizzato un progetto teatrale e musicale con ragazzi con sindrome di down. Mi ha colpito moltissimo la loro potenza emotiva, la loro ricchezza, immediatezza.
Ogni loro emozione è intensissima e hanno capovolto il concerto con le loro voci. Cambiando lo sfondo musicale si è creato un percorso di liberazione di un pensiero di base che ancora persiste, che vede le persone con sindrome di down come 'diversi'. Qualcosa di estraneo a noi, di altro, che innesca un pensiero di paura. Questa paura poi è la stessa che crea termini 'morbidi', come 'diversamente abile'.
Ugualmente fanno paura i reclusi. Per noi sono persone capaci di rompere un ordine, hanno ammazzato, derubato, violato.
Per queste ragioni li chiudiamo in uno spazio fisico e psicologico che è al di fuori della nostra umanità. Persone che, a prescindere dalle motivazioni e dai percorsi di dignità, smettono per noi di essere umani. Ciò che accade lì – nel loro spazio di reclusione – può essere sì oggetto di curiosità tramite lo sguardo spettacolarizzato della fiction, ma sarà comunque una voce che non ci appartiene.
Per me il pensiero di creare CLOSE/D – nel gioco tra chiuso e il vicino – significa ripartire innanzitutto dall'«essere in comune» degli umani. Avere la possibilità di portare fuori, attraverso la voce intima, riservata alla persona vicina, come un sussurro, la parola segreta. Da una parte il ricordo sonoro, dall'altra parte il viso, l'umanità. Un luogo da accarezzare, per avere la possibilità di portare uno sguardo altro.
La vivo come una grande sfida, anche perché riconosco la mia paura.
Ma la mia paura è la mia responsabilità. Un luogo estremamente complesso in cui non si ha una equazione tra vittime e carnefici. La complessità non può essere percepita se la viviamo come una equazione di bianco e nero.
Noi abbiamo un bisogno disperato, in un mondo ormai privo di qualsiasi 'comandamento' etico, metafisico, che ci fa sentire smarriti, di una equazione. Abbiamo bisogno dei cattivi come 'capro espiatorio'. Basti pensare alla spettacolarizzazione mediatica di casi di cronaca nera. Seguiti come se fossero un mandala tra il bene e il male.
Non si possono creare zoo umani, non si può dare il marchio irreversibile di Caino a queste persone.
Ma al contempo non ci si può esimere dal rispetto della legge. Ma quello della legge è un ruolo oggettivo, il ruolo delle relazioni e dei rapporti che si instaurano tra gli umani prescinde invece da queste oggettività.
Questo è il mio interesse dal punto di vista personale. Da un punto di vista artistico invece c'è la volontà di creare un altro tipo di storytelling, basato sull'intimità, un ponte tra due luoghi – un carcere e un ex carcere - e in qualche modo dare libertà agli 'invisibili', permettendo loro di essere 'umani' attraverso la presenza.
 
 
 
Alma Mater è uno dei tuoi lavori più complessi ma dalla grandissima potenza espressiva. Porta in seno quell'inno a Venere contenuto nel De rerum natura di Lucrezio, che attribuiva alla natura quella capacità di conciliazione tra le polarità e di rigenerazione della materia. Come il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, che ha accolto e fatto risuonare un'intuizione che si è fatta ricerca e poi composizione.
L'Alma Mater evoca il concetto di femminilità come grande nutrimento, come portatrice di vita, di collegamento. L'opera, semplificando, si muove su due griglie: la griglia della struttura e la griglia dell'archetipo, del simbolo. Un pensiero strutturalista e uno simbolico. E l'alma mater è l'archetipo più grande di tutti, universale.
Quando mi sono interrogato su questo elemento, sulla manifestazione in suono e in video di questo elemento, mi è venuta in mente mia nonna paterna. Aveva quattordici figli, una donna matriarca.
Ho pensato quindi a una foresta di nonne, perché la nonna è la doppia madre, è come il vettore.
Ho pensato così a una foresta di altoparlanti – strumento tecnologico usato solitamente per avvisare – che diventava il veicolo per la fuoriuscita di voci intime, quelle delle nonne.
Da una conversazione con Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte, nasceva poi l'idea dell'Alma Mater in dialogo con il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto realizzato con materiale organico alla Fabbrica del Vapore di Milano. In uno spazio di 1200 mq le persone avevano l'opportunità di entrare nell'installazione, di sdraiarsi, di immergersi in questa foresta intima e forte al contempo. Alle voci si aggiungevano elementi di natura, suoni della terra. Questa arcaicità era addolcita dalla presenza di due étoiles della Scala – Liliana Cosi e Oriella Dorella - che creavano un lavoro di iconografia all'interno dello spazio espositivo - la Cattedrale della Fabbrica del Vapore - dove il designer Enzo Catellani aveva inserito una costellazione di numerosi dischi dorati che oscillavano la potenza luminosa a seconda delle variazioni del suono e dove oltre 100 merlettaie canturine, durante i due mesi di installazione, hanno realizzato tre 'Terzo Paradiso' in filo. Un progetto che cresce, che entra in dialogo con altri paesi, entrando in simbiosi con altri territori, tessendo altre relazioni
 

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Alma mater © Rosa Sansone 
 
La tua ricerca trascende i campi disciplinari, tanto che è difficile immaginare quali possano essere i tuoi prossimi campi di esplorazione. Dove ti porta il futuro prossimo?
Verso progetti molto belli e molto diversi tra di loro: alla Fabbrica del Cioccolato, in Val di Blenio, porterò «THREE GRADES OF FOREIGNNESS» coinvolgendo automi, filmati e percorsi sonori al buio per portare una riflessione sull'estraneità' uomo-natura; dal Monte Etna partirà «VARIAZIONI SUL TREMORE ARMONICO», un progetto che sto sviluppando insieme all’imprenditore Diego Cusumano, che fa dialogare il tremore vulcanico con quello umano. Sarà un omaggio alla terra, alle persone e al mistero della vigna attraverso un connubio tra le tradizioni antiche e gli infrasuoni che produce il vulcano, un’ambivalenza dalla duplice forza espressiva.
Ci sono poi una serie di esecuzioni di Fuga Perpetua, ma anche presentazione di lavori icono-sonori frutto dell’opera: «IZAAC E DEBORAH», tra questi, sarà presentata tra il 13 e il 17 luglio 2016 nell’ ambito della rassegna «Contaminafro» del Teatro dell’Arte della Triennale di Milano.
C’è poi un progetto che sto sviluppando con la Fondazione Remo Bianco per creare un dialogo con le sue opere, un percorso sonoro e scenico chiamato «Il Sacro e il Crudele».
Il primo ottobre ripartirà l’imponente opera-esperimento «REKA» al Festival Aperto di Reggio Emilia: una crowd music che chiama il pubblico a condividere la propria voce con l’arte, insieme a grandi solisti da tutto il mondo per creare un organico di decine di persone nel bellissimo Teatro Valli. E poi, al Festival Due Mondi di Spoleto, CLOSE/D di cui abbiamo già parlato..
Alcuni esempi che non vedo l’ora di vedere pronti. Non vedo l’ora di creare e vivere incontri con nuovi territori, nuovi spazi, nuove tematiche e sopratutto di relazionarmi e dialogare con le persone .
 
 
 
Una relazione che accoglie anche il conflitto?
Se non c'è conflitto vuole dire che il dialogo non esiste, non è autentico.
Arturo Schwarz, rispetto al surrealismo, disse che non era l'accordo del mondo a doverci interessare, ma la tensione tra due opposti che crea un terzo elemento che è il risultato di una complementarietà ma anche del disaccordo.
Io sono nato in una delle città più dense di conflitto, conosco la bellezza che nasce in una situazione di tensione, quindi non temo il conflitto, ma lo accolgo, perché all'interno di questa tensione la bellezza diventa un fiore.
 
 
© Riproduzione riservata
 
 
 ph cover © Beny Steiner.
 
YUVAL AVITAL - Nato a Gerusalemme nel 1977, vive a Milano. Le sue opere spaziano da grandi eventi musicali per numerosi musicisti a impegnative composizioni orchestrali e di musica da camera; da opere iconiche/sonore, che includono musicisti classici ed elementi multimediali insieme a tradizionali vettori di culture antiche, a progetti altamente tecnologici che coinvolgono scienziati, intelligenza artificiale ed elaborazioni sonore dal vivo.
Tra le sue opere di maggiore successo: 
ALMA MATER - un’installazione icono-sonora di 1200 metri quadri per 140 altoparlanti, leggendarie étoile della scala, proiezioni e merlettaie (Fabbrica del Vapore, Milano, 2015); Fuga Perpetua - opera icono-sonora creata con la collaborazione e il patrocinio di UNHCR (Teatro Comunale Pavarotti, Brighton Festival, NEAT Festival 2016); KARAGATAN per 100 musicisti di gong e bamboo tradizionali e due direttori (Filippine 2013); OTOT - sinfonia icono-sonora (concerto di apertura della stagione sinfonica del Teatro di Como, 2013); Unfolding space - concerto e installazione sonora, creata in collaborazione con scienziati della NASA & ESA (Italia 2012); GARON per 45 tube, 6 percussioni, 3 direttori, coro e live electronics (evento di chiusura di Dirty Corner di Anish Kapoor, Milano 2012); Mise en abîme per una folla di 100 persone, 34 fisarmoniche, ensemble e 4 direttori (Italia 2011); 4 opere commissionate da alcuni dei più importanti festival italiani (2008, 2010, 2011, 2013); Numerose composizioni per musica camera eseguite da virtuosi solisti I suoi lavori e concerti sono stati trasmessi dal molte emittenti radio e televisive tra le quali: SKY CLASSICA TV, Radio France Musique, CCTV China, Radio 3 suite Italia, WQXR & Classical Guitar live (USA). È il fondatore dell’associazione culturale Magà Global Arts Around The World
 

 
[1] Mise en abîme, opera per una folla di 100 persone, 34 fisarmoniche, ensemble e 4 direttori d’orchestra. Commissionata dal Teatro Franco Parenti di Milano in collaborazione con Magà Global Arts Around The World e l’Università di Milano – Dipartimento di Storia dell’Arte, Musica e Performing Arts.