Il fine del volontariato non è fare del bene. È cambiare il mondo
Istruito, benestante, del Nord Italia e non più giovanissimo. È questa la fotografia del volontario italiano emersa da una recente ricerca della Fondazione Volontariato e Partecipazione, che potrebbe far pensare che la pratica del dono come gratuità sia in via di estinzione nel nostro Paese. Io non credo che sia così, anche se non si può tacere che il volontariato stia vivendo una profonda crisi. Sono convinto che ne usciremo, perché nessuna società può fare a meno dei volontari. Tuttavia è necessario comprendere come mai siamo arrivati a questa situazione, per poterla invertire.
La missione propria del volontariato è da sempre quella di veicolare e ravvivare nella società la pratica – quindi non solo la cultura – del dono come gratuità, soprattutto in quei contesti caratterizzati da relazioni di cura. Si tratta di una missione storica che non potrà essere revocata, ma che negli ultimi 40 anni, quelli della seconda modernità e della globalizzazione, è stata via via emarginata dalla società sulla base della convinzione che basterebbero buone leggi ben applicate e un mercato ben articolato per ottenere una società giusta.
Così il volontariato è stato tollerato e non attivamente ricercato, guardato con sufficienza invece che indicato come espressione umana alta e indispensabile. Nessuno fa la guerra ai volontari, sia chiaro, ma è altrettanto chiaro che il vitello d’oro della società è diventato un altro: l’efficienza. Oggi tutto ciò che non è efficiente non è stimato, e visto che non si può applicare questo criterio alle relazioni di cura o alle opere di misericordia, ecco che il volontariato è oggi semplicemente tollerato e non promosso, non attira i giovani, è ritenuto un’attività che si può permettere solo chi non ha problemi economici.
Esistono poi altre conseguenze. La prima è il primato della filantropia, che sempre più individui e organizzazioni praticano perché ritenuta più efficiente; la seconda è la preferenza accordata, anche qui soprattutto dai giovani, al lavoro nelle imprese sociali, che è associato alla solidarietà ma anche retribuito; terza conseguenza è la sottovalutazione dell’aspetto culturale dei volontari, che invece aveva ben capito il fondatore della Società di San Vincenzo de’ Paoli Federico Ozanam, intellettuale finissimo e professore di Filosofia e Diritto a Parigi, che raccomandava ai suoi volontari di leggere, studiare, ampliare la propria cultura. Infine, se non si vuole che la pratica volontaria si estingua occorre comprendere che essa non può avere origine da un sentimento di pietà o da un imperativo morale, perché in questo caso è destinato a non durare molto, ma deve trovare radici profonde e motivazioni ragionevoli. Ancora oggi si fa troppa confusione, anche a livello di organizzazioni che dovrebbero promuovere la gratuità, tra motivazione e telos, ovvero fine ultimo. Se non si ha chiaro il fine ultimo e strategico, infatti, la motivazione da sola non basta. Ecco perché i giovani faticano ad avvicinarsi: se non si mostra loro che la gratuità e il dono sono in grado di trasformare il mondo, e li si lascia in balia dell’impeto momentaneo, la crisi del volontariato durerà ancora per chissà quanto.
Uscito su Vita n. 11 Novembre 2015