Il secolo Americano come sineddoche del declino Occidentale
Al Castello di Rivoli, a cura di Massimo Melotti, è in onda American Recordings, un’installazione audiovisuale su cinque schermi strutturata secondo i principi di una partitura sinfonica con la quale Francesco Jodice narra la storia del «Secolo Americano» come sineddoche dell’Occidente. Presidenti americani e filosofi europei, personaggi della fiction e musicisti punk, scrittori e politologi, cineasti e avventori casuali, attraverso un montaggio alternato, prendono parte ad un dialogo surrettizio intorno all’ascesa e alla caduta dell’Ultimo Impero Romano e, per estensione, del sistema di valori del mondo occidentale. Conversano sul tema l’artista, da sempre impegnato su temi politici e sociali, e il curatore
Vorrei partire da lontano. Documenta 11 di Okwui Enwezor del 2002 conferma una visione dell’arte impegnata nel sociale sia attraverso le opere, sia direttamente come documentazione o partecipazione a fenomeni sociali da parte dell’artista. La discussione verte su come l’arte può svilupparsi nel mondo globalizzato. In effetti la mostra è un susseguirsi di opere che danno il senso del cambiamento in atto. Una complessità che è bene illustrata dalle immagini di Nuova Delhi, colorate e caotiche di Ravi Agarwal, come dalla fredda linearità delle strutture di Bernd e Hilla Becher. Alle dolenti sculture di Louise Bourgeois fanno da controcanto le strutture di tensione di Doris Salsedo, alle periferie del mondo raffigurate con un’oggettività che ne esalta le contraddizioni si accompagna la ricerca sul rapporto individuo-ambiente come luogo di disagi esistenziali. Tra gli oltre cento artisti di tutto il mondo solo due le presenze italiane: Giuseppe Gabellone e Multiplicity. Quest’ultimo è il collettivo formato, oltre che da te, da Stefano Boeri, Maddalena Bregani, Francisca Insulza, Giovanni La Varra e John Palmesino. Il lavoro presentato si intitola Solid Sea, ed è una videoinstallazione sul naufragio avvenuto nel Canale di Sicilia, nel 1996, nel quale perirono 283 migranti. Un tema tragicamente di grande attualità che allora non era percepito dai più e su cui, con una procedura antesignana per i tempi, l’arte ardiva richiamare l’attenzione utilizzando gli strumenti della creatività e della documentazione con un mutamento di registro. Ai tempi ve ne rendevate pienamente conto?
Una delle motivazioni che spinse alla nascita di Multiplicity fu all’epoca (1997, NdR) la discrasia tra la nostra percezione del cambiamento dei contesti e quello raccontato e contenuto nell’arte e nei Media più in generale. Ci chiedevamo: «Ma questi paradossi storici li notiamo solo noi? Interessano a qualcuno?». Multiplicity era un network di ricercatori interessati all’osservazione, elaborazione e restituzione di contesti geopolitici che si stavano modificando. Questa modificazione del paesaggio osservato implicava e imponeva una riedizione della forma del racconto: il network, le video-installazioni sincronizzate, l’«opera d’arte» come espressione di un dialogo costruito da decine di ricercatori, furono conseguenza di una necessità. Abbiamo costruito un setaccio che selezionava e riordinava in una nuova forma artistica i contenuti analizzati. Hans Ulrich Obrist andava in giro a dire che stavamo inventando una diversa modalità dell’arte. In Italia se ne interessarono in pochi.
Una delle questioni di fondo che emerge da quegli anni è stato il ripetuto interrogarsi sulla fine o sul cambiamento dell’arte e di conseguenza sulla ridefinizione del ruolo dell’artista. Alle esperienze di arte relazionale o che comunque indagava il reale veniva obiettata la perdita della specificità estetica e d’altro canto all’artista di cercare un’interpretazione del reale con strumenti inadeguati o che appartenevano ad altri saperi. Oggi la situazione è molto cambiata. Rimane di fatto la problematica fondamentale della compresenza nell’opera dell’elemento di documentazione o di indagine e di quello creativo. Mi sembra che tu abbia invece definito una tua strada, a mio avviso borderline, in cui la documentazione del tema trattato s’interseca con l’agire artistico, ma è quest’ultimo ad avere l’ultima parola, a definire l’ontologia dell’opera.
Sì è così. È stato un periodo molto strano e credo di non aver mai compreso bene la natura del problema: l’arte, come sempre, si stava rinnovando adeguandosi ai cambiamenti della società e la forma dell’opera seguiva questo mutamento. Sono sempre stato dalla parte di Adolf Loos e dell’idea che “l’estetica sia una conseguenza della funzione”. Nella stagione dell’apparente “de-formalizzazione” dell’arte nata con le due Doumenta curate da Catherine David e da Okwui Enwezor, la forma dell’opera stava subendo delle modifiche non relativamente al linguaggio ma all’ampliamento dei codici, dei media, includendone alcuni considerati poco consoni all’arte perché scarsamente «estetici». Credo che parte del problema stia nel rovesciamento dei poteri nel rapporto artista-collezionista. Oggi i collezionisti, le leggi del mercato, i galleristi acquiescenti, hanno reso subordinato il ruolo dell’artista e di conseguenza una certa arte (e alcuni artisti) si preoccupa di intonarsi alle fodere dei divani di moda anno per anno. Nel mio caso l’estetica, alla quale dedico un’attenzione critica ossessiva, è solo una forma del discorso, l’interfaccia con la quale mi rivolgo alle persone. È molto curata non perché credo di far parte di una generazione di artisti che assomigliano molto a degli Interior Designer ma perché è il risultato di un lento precipitato alchemico.
Qual è il primo stimolo che ti spinge a scegliere un determinato tema?
Quando ero piccolo andavo spesso a “giocare” nella camera oscura di papà mentre stampava e ricordo che c’era un cartoncino sul quale aveva scritto: “non c’è arte dove non c’è inquietudine”. Il cartoncino era incollato al muro vicino al quadro della luce, era in pratica l’ultima cosa che si poteva vedere prima che la camera si oscurasse, quasi fosse l’ultimo pensiero da portarsi nel buio. Lavoro con metodo razionale e ogni progetto è il risultato di ricerche piuttosto lunghe e approfondite ma alla base c’è sempre una percezione anomala della realtà, un’inquietudine appunto. Tutto parte dalla mia indisponibilità ad accettare una certa condizione del reale così come è proposta ma ciò che mi interessa davvero è far funzionare il mio lavoro come un processo di traslocazione: sottoporre un dato contesto per me anomalo al pubblico e costringere quest’ultimo a confrontarsi con questa anomalia.
Tu dedichi particolare attenzione alla costruzione dell’opera, palesandone il processo costitutivo attraverso la suddivisione in progetto, testo e processo. Consideri l’opera realizzazione individuale o collettiva?
L’opera è individuale così come mia è la «responsabilità civile» che l’opera porta con sé. Individuo quattro fasi nella realizzazione del mio lavoro: intuizione, ricerca, forma e installazione. Di queste quattro fasi è la seconda ad essere realmente “partecipata”, mentre le altre hanno delle gestazioni sostanzialmente private. Nel caso di American Recordings, nonostante io non abbia realizzato nemmeno un fotogramma poichè si tratta di filmati d’archivio, sento l’opera completamente mia. Per assurdo il fatto di dover plasmare e ricomporre il lavoro di altri autori mi ha costretto ad un processo di totale metabolizzazione di questi materiali, conosco ormai a memoria il monologo scritto da Paddy Chayefsky e pronunciato da Ned Beatty in Network di Sidney Lumet. Alle volte mi ritrovo a recitarne delle parti senza nemmeno accorgermene.
A un certo punto della tua produzione compare la componente “storica” della memoria condivisa, immagini d’epoca che diventano un elemento che arricchisce il discorso artistico e quello documentaristico. Atlante ma anche Mont Blanc. Just things. Nel primo caso forse evocative, nel secondo addirittura si palesano come reperti materiali (i ritrovamenti) e costitutivi dell’opera (il libro).
La mia conoscenza della storia dell’arte è tutta un fai da te, non ho studi artistici alle spalle e il mio bagaglio è un patchwork di esperienze rimesso insieme in modo un po’ artigianale. Partendo da questa esperienza empirica e poco strutturata della storia dell’arte ho sempre immaginato che si potesse dividere grossolanamente questa storia in due categorie: gli artisti che si sono occupati di temi universali a partire da esperienze personali e autoreferenziali e quelli che invece si sono mossi a partire da una visione collettiva e condivisa dell’arte e della storia. Mi sento vicino al secondo modo di operare. Allo stesso modo quando lavoro penso costantemente che l’opera per essere condivisa deve muovere da un immaginario condiviso: un grande trauma o una grande festa collettiva, non importa, purché l’eco di un dettaglio inneschi un cortocircuito emozionale. Un dettaglio della mia opera deve ricordare che in un certo momento tutti ci siamo ritrovati in un dato luogo ed abbiamo vissuto insieme lo stesso fenomeno e magari ognuno ne conserva un ricordo, un’esperienza differente della quale parlare.
Sembra di rilevare nella tua produzione, per quanto concerne gli elementi ontololgici della tua opera, un percorso che si è sempre più arricchito da un punto di vista concettuale. Nella fotografia l’uso dell’inquadratura induce sempre più al contrasto tra la qualità specificamente reale del soggetto con l’esito di una a-realtà o sovrarealtà sottolineato dalla stampa della fotografia. Nei Citytellers l’operazione diviene più complessa. Qui il discorso si approfondisce. La documentazione della realtà viene utilizzata come base per l’inserimento della componente creativa. Nel momento in cui il fattore creativo si concretizza nell’immagine, quest’ultima, che trova la sua dimensione fattuale nella realtà, viene «brillata», raggiungendo un livello più elevato e manifestandosi come opera d’arte, che ci parla qui e ora, al di là della caratteristica documentaria. Ciò è più evidente in Aral Citytellers in cui il processo si svela anche stilisticamente con l’inserimento di un’immagine non in movimento nella narrazione filmica, sottolineata da stacchi e inquadrature frontali fisse. Non stiamo più guardando un documentario ma siamo soggiogati o affascinati dall’opera d’arte visiva. Il nostro processo di conoscenza viene sensibilizzato toccando altri tasti e, nell’insieme, non abbiamo più certezza del registro al quale appartengono. Così possiamo percepire la storia dell’Aral in una sola immagine in quanto questa, come opera d’arte, ci parla di più e in modo diverso avendo racchiuso e concentrato in sé la sua forza espressiva. Pertanto la «quaestio» non è domandarci se è realtà o fiction, ma la presa di coscienza che l’effetto artistico sulla realtà ci consente un livello più elevato di comprensione.
Diversi anni fa il fotografo e artista statunitense William Eggleston disse che la cosa migliore che potesse capitare al suo lavoro era che le persone osservandolo si chiedessero: «Che cosa sto guardando?». Il progetto fotografico What We Want e la serie di film Citytellers sono di fatto dei reportage. Rilevano alcuni fenomeni che accadono in luoghi distinti del pianeta e li traslocano qui e lì attraverso il sistema dell’arte. Nel processo di «traduzione» di questi fenomeni, però, la forma delle vicende viene adulterata. Mentre i contenuti sono trattati con la cura dovuta a un reperto scientifico, la forma subisce una transustanziazione. Il vero scopo di questo intervento è far dubitare lo spettatore della forma e dei contenuti, spingerlo appunto a chiedersi “che cosa sto guardando?» e magari spingerlo al completamento dell’opera attraverso un’investigazione privata delle vicende umane.
American Recordings è anche il nome di una casa di produzione discografica: un modo di fissare un evento creativo, la musica, di per sé volatile, se vogliamo, soprattutto nelle situazioni performative. Ma indica anche una metodologia alla quale per la tua opera ti riferisci?
Sì, è la casa discografica di Rick Rubin che nel 1994 propone ad un anziano Johnny Cash un progetto: selezionare tutte le canzoni che lui ha amato e interpretarle. Rubin registrò sei album intitolati American Recordings I-VI prima che Cash morisse. Sono album toccanti, la memoria di Johnny Cash ma sono anche una memoria americana. È uno strano cortocircuito perché la parola Recording, benché derivi evidentemente da «ricordo», non assume questo significato in lingua inglese ma semplicemente quello di registrazione, archiviazione. Eppure nel progetto di Rubin è evidente l’intenzione di usare la voce e la storia di Cash come dispositivi in grado di preservare in forma musicale una particolare declinazione della storia americana dal secondo dopo guerra ai primi anni del duemila. È lo stesso arco di tempo che a grandi linee copre il mio progetto e allora ho pensato di prendere a prestito il titolo.
Possiamo considerare il tuo lavoro Atlante antesignano di American Recordings?
Atlante è stato realizzato nel maggio di quest’anno (2015, NdR) in occasione della mostra Proportio a Palazzo Fortuny. Sia Atlante che American Recordings sono parte di una ricerca più ampia sul tema del declino del sistema dei valori occidentali e più in generale sull’indisponibilità al confronto con una stagione di cambiamenti. Il rito di passaggio da un’epoca a un’altra è vissuto in maniera dolorosa in questo momento storico.
Con American Recordings si passa, rispetto ai tuoi precedenti lavori, a una maggiore complessità espressiva. L’immagine è in movimento secondo quella che tu definisci una “sinfonia”. Una sinfonia che utilizza la complessità del mito con la sua enorme capacità di produrre immagini simboliche. E’ una componente che esalta il cortocircuito tra realtà e finzione, dispositivo che permette un nuovo livello di fruizione e al contempo si presenta come complesso strutturato con un suo senso compiuto.
Sì la fruizione di American Recordings può risultare piuttosto complessa, è una video-installazione che richiede molta attenzione e reattività poiché lo spettatore è chiamato a intercettare la storia inseguendo l’attivazione dei vari schermi. Ma richiede anche molta attenzione perché i pochi brani qui rappresentati sono tratti da fatti minori della storia americana che non ricostituiscono necessariamente nell’opera una narrazione di senso compiuto, piuttosto attivano frammenti di memorie collettive e private che ci permettono di rileggere la storia del secolo breve americano e occidentale a partire da una visione laterale.
Castello di Rivoli- Museo di Arte Contemporanea.
American Recordings di Francesco Jodice a cura di Massimo
17 ottobre 2015 – 10 gennaio 2016
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