Faccia, viso e volto di Cesare Pietroiusti
Dall’elogio del non funzionale alla difesa della lingua italiana. La parola all’artista
«Le potenze spirituali che definivano la vita degli uomini – l’arte, la religione, la filosofia, l’idea di natura, perfino la politica – si sono, una a una docilmente ritirate nel Museo»
Agamben, Profanazioni, 2005
Conversare con Cesare Pietroiusti è un piacere raro.
Artista inafferrabile, per il suo ripensarsi costantemente, da sempre privilegia la ricerca e la sperimentazione collettiva all’autoreferenzialità individuale. Lo testimoniano l’esperimento di Oreste, la possibilità tra artisti di essere in comune, liberamente, nello spazio e nel tempo, fuori dalle categorie pre-costituite del sistema dell’arte, le performance contro la mercificazione dell’opera, le azioni collaborative in cui la partecipazione non è mai solo strumentale alla realizzazione di un prodotto proprio ma è un processo di soggettivazione reciproca attraverso «situazioni», talvolta paradossali e sempre inaspettate, che sovvertono il «normale» funzionamento delle cose.
Nell’arte di Cesare Pietroiusti la dimensione pubblica dell’opera si manifesta attraverso una maglia reticolare in cui ciascuno prende parte attraverso il linguaggio, che si interpone fra un individuo e l’altro. Un ispiratore. Per altri artisti – con l’introduzione del modello laboratoriale come pratica artistica – e per il pubblico, non spettatore, non partecipante ma co-creatore di un processo mai prestabilito ex ante.
Insieme a lui Il Giornale delle Fondazioni prosegue la rubrica «La parola agli artisti», incaricata di aprire ogni numero mensile.
Contro l’eccesso di specializzazione moderno che impedisce di cogliere l’interconnessione vitale tra le cose e per non rischiare di cadere in sterili tecnicismi, rivendichiamo all’arte e agli artisti un ruolo cruciale per la ricostruzione di un senso comune.
Ci mettiamo in ascolto, non per cercare risposte ma per lasciarci cortocircuitare in nuovi mondi possibili, non necessariamente migliori, non necessariamente diversi, ma sicuramente più umani.
Dall’elogio del non funzionale alla difesa della lingua italiana. La parola all’artista
In merito al recente incontro di Venezia a cui hai partecipato, il Creative Time Summit, mi pare siano emerse molte problematiche interessanti intorno all’arte contemporanea.
Il tema dell’edizione 2015 era «the Curriculum», il percorso - inteso come una rete di esperienze vissute, azioni e fatti - che prepara una persona a essere nel mondo, ovvero a pensare e partecipare come membro pienamente consapevole e attivo nella società.
Pensi che l’arte, oggi, mantenga un ruolo sociale e politico? O meglio, l’arte deve essere politica – o socialmente impegnata – per essere trasformativa?
Partirei dando al termine politica una connotazione più alta, storica, più che legata all’attualità e mi riferirei alla pòlis, o meglio alla interpretazione che Hannah Arendt, in Vita Activa, dà all’idea della politica. Politica, secondo Arendt, è ogni attività attraverso cui l'essere umano si impegna liberamente nelle discussioni, nelle analisi delle contraddizioni, delle differenze, delle idee e dei conflitti. In questo senso, ogni attività che utilizza il linguaggio e che dà significato all’uso del linguaggio è politica, qualsiasi attività culturale è politica se sostiene, crea, dà senso a idee, concetti, relazioni.
Penso che il differenziale, la specificità dell’intervento artistico stia nella sua eterodossia e nella sua imprevedibilità. Ciò che gli artisti e la ricerca artistica possono apportare in termini di trasformazione è sempre «non riducibile» ad un intervento pre-ordinato, a dei risultati, a un giudizio di valore stabilito in anticipo rispetto al percorso di ricerca.
Se in un intervento che riguarda un determinato contesto sociale, comunitario, politico in senso stretto, si è già convinti di sapere dove è il giusto e dove lo sbagliato, l’intervento dell’artista sarà «soffocato». Credo che l’intervento artistico, anche nelle situazioni più complesse, difficili –soprattutto in quelle di ordine sociale – è tale e interessante se propone degli scenari, delle possibilità di lettura inedite delle diverse forze in campo che mettono in discussione i criteri di giudizio che solitamente informano gli attori sociali.
Questi, quando entrano in una situazione conflittuale, prendono posizione.
Il prendere posizione dell’artista sta invece proprio nel riuscire a evitare ogni pre-giudizio e saper proporre delle modalità di lettura non prevedibili in base a giudizi di valore pre-esistenti. In tal senso mi sento vicino al pensiero di Jacques Rancière e di Claire Bishop, e scettico rispetto all’"attivismo" che pre-suppone una giusta causa rispetto all’azione artistica.
Bisogna sempre tener presente che non basta una buona pratica sociale – sia essa urbanistica, psicologica, sociologica, antropologica - per poter definire una qualità artistica, Qualità - nel senso di caratteristica - che si esplicita nella possibilità di elaborare delle riformulazioni delle questioni stesse che sono in gioco e non offrendo soluzioni rispetto a condizioni già delineate e precisate.
Chi suppone di avere in mano i criteri per poter giudicare se una causa è giusta, farà un intervento plausibile, lodevole, auspicabile, ma non «artistico».
Se l’arte, come diceva Rancière, è la capacità di pensare le contraddizioni, ed è politica in sé, senza dover essere dichiaratamente «engagé», è pur vero che essa – con il suo «essere in potenza» – può attraversare tutti i campi del sapere mostrando, attraverso l’agire estetico, attraverso un «filtro creativo», altri modi di guardare al mondo.
Tuttavia si riscontra un’incomunicabilità tra le differenti discipline, sia sul versante artistico-culturale che in quello accademico, una auto-referenzialità che rivela una certa ortodossia tra i campi. La tua arte è sempre stata relazionale – non di rado debordando i confini – e spesso intesa come progetto artistico collettivo. Pensi ci possa essere un punto di incontro tra saperi differenti?
Posto che ogni intervento artistico ha le sue specificità, e che ci sono alcuni artisti che colgono meglio le situazioni in cui si trovano ad agire (ma questo vale anche per gli antropologi e per tutti coloro che hanno a che fare con le relazioni), rispetto al problema con le altre discipline, ciò che l’artista può fare, è mostrare una disponibilità rispetto a saperi, tecniche, competenze di altri specialisti, e portare questi specialisti a lavorare sui margini della loro ricerca, non fuori dal loro campo, ma al limite delle proprie competenze.
Nel Taoismo è nell'assenza di finalità che si realizza l'azione eccellente, nella misura in cui non mette in pratica nessun dovere. Nel suo potersi permettere l’errore, l’ozio, il fuori tema, può l’arte essere trasversale a tutte le discipline rivelandosi, nella sua non funzionalità, indispensabile? Ma come rendere consapevole questo processo di reciproco scambio e contaminazione? Cosa l’arte può dare alle altre discipline e come le altre discipline possono attingere dall’arte per ripensarsi e superare l’impasse in cui si trovano?
Pensando ad esempio alla città – tema che mi sta particolarmente a cuore – notiamo come l’urbanistica tradizionale sia impreparata ad affrontare i mutamenti accelerati dello spazio e non sia più capace di rappresentare né esprimere le esigenze del territorio. Se dunque l’arte, come dici, può aiutarci a innescare nuove prospettive, decostruendo le categorie entro le quali ci muoviamo, come far si che la sperimentazione creativa non resti soltanto un divertissement ma incida in maniera «contagiosa» sugli altri campi disciplinari creando nessi, relazioni, condivisioni, collaborazioni?
Finché l’arte si identifica nelle grandi mostre, nel mercato, nelle fiere, questo non può accadere.
Il modello che conosco e che mi pare il più efficace affinché ciò possa accadere è quello del laboratorio, in cui persone anche di discipline differenti, insieme, non tanto cercano la soluzione ad un determinato problema, quanto esplorano liberamente tutte le possibili associazioni, angolature, tagli, formulazioni, livelli e meta-livelli che un dato problema può suscitare. In questo processo credo che l’arte fornisca degli strumenti - e dovendo dare una formulazione, direi, «formativi» - che nessuna altra disciplina a mio avviso fornisce.
Nelle mie esperienze laboratoriali, pur avendo incontrato persone di grande intelligenza appartenenti a svariati campi, ho l’impressione che le altre professioni rinforzino nei soggetti che le praticano delle modalità di pensiero che rinsaldano l’appartenenza disciplinare e fanno fatica a saltare di livello, cambiando punto di vista e decostruendo le categorie in base alle quali le discipline stesse funzionano.
Uno sforzo che, generalizzando (con tutte le eccezioni che la generalizzazione comporta), mi pare sia spesso compiuto dagli artisti.
Nel modello laboratoriale questo spostamento di senso, questa decostruzione si compie in modo orizzontale per un semplice motivo: non si possiede un risultato preconfezionato e non c’è un leader che sa già dove deve portare gli altri, come invece accade nell'approccio accademico «frontale».
Equivale alla differenza che intercorre tra didattica ed educazione?
Didattica ed educazione, a parte la radice etimologica, significano più o meno la stessa cosa.
Insisterei piuttosto sull’uso del termine laboratorio, che implica sia una ricerca teorica che pratica e comporta un’idea di lavoro comune, fatto insieme. Sia la didattica che l’educazione sono legate ad un’idea di «conduzione», tale da portare lo studente o il partecipante verso un obiettivo prestabilito dall’educatore, dal conduttore. Un’idea che peraltro appartiene anche al termine formazione.
Nel laboratorio l’idea è di formarsi insieme. E’ chiaro che in un laboratorio così inteso è necessaria la presenza di una guida, ma, secondo me, essa è più che altro un ospitante, qualcuno che, più di altri, incarna, ospita, accoglie nella sua mente le idee, le attitudini, i processi creativi degli altri partecipanti. E’ un ruolo che può ricoprire chiunque, e che può anche passare di mano a seconda dei momenti e delle circostanze.
La modalità laboratoriale permette dunque di collaborare ad un immaginario comune utilizzando l’immaginazione come strumento epistemologico, con l’obiettivo non tanto di produrre un cambiamento quanto stimolare la capacità di saperlo immaginare, ascoltando vocazioni e desideri.
L’immaginazione come strumento epistemologico è una formulazione calzante. Si può lavorare sul sogno, sul desiderio; si può vedere come, in un qualche stato di alterazione mentale abbiamo immaginato un certo posto, un dato contesto. Immaginazione significa poter osservare un determinato elemento della realtà nei modi più vari attraverso associazioni libere.
La capacita di immaginare è indipendentemente da una guida, da istruzioni precostituite. Inoltre credo che sia una capacità che si possa allenare, così come sono convinto che si possa allenare la mente ad un pensiero capace di spostare il punto di osservazione, di adottare lo sguardo dell’altro.
Spesso però parlando di arte, società e processi artistici relazionali ci si imbatte in facili retoriche che guardano all’intervento artistico come salvifico, vettore di chissà quale cambiamento. Ma, va da sé, non tutti desiderano lo stesso cambiamento.
Una delle questioni cruciali per uscire dall’ideologia del cambiamento come valore in sé è quella di mettere in discussione la necessità di un risultato immediato e quantificabile. Il primo passo per fare dell’immaginazione uno strumento epistemologico – come affermavi – è quello di liberarsi dalle strettoie morali che guardano all’arte come risolutiva di specifici problemi sociali.
Non c’è problema più importante da risolvere che quello della libertà della nostra mente. Pensare in un modo più aperto possibile ci consentirà di intervenire nel mondo con maggiori potenzialità.
Una modalità di agire che spesso si scontra con un sistema di monitoraggio e valutazione, diffuso tra istituzioni culturali e pubbliche amministrazioni, che guarda a dati puramente quantitativi, hic et nunc, e non in prospettiva. Escludendo dunque l’attesa, gli inciampi, i ripensamenti, ovvero tutti quei fattori che caratterizzano i processi.
Guardando poi alle politiche culturali attuali, ai bandi, si parla sempre più di partecipazione, di audience engagement, di adesione collettiva evocando una presunta (e auspicata) democratizzazione culturale. Ma la partecipazione si riduce spesso a spectatorship e forse andrebbe rivisto il concetto di democrazia guardando ad essa, come affermava Cornelius Castoriadis, come una forma di autoriflessività collettiva. Un processo in cui la cultura è un processo di soggettivazione critica che da uno va a molti.
La chiave credo stia nel far capire quanto tale approccio sia importante da un punto di vista formativo. Occorre far comprendere la valenza formativa di sperimentazioni di questo tipo che esulano la mera esposizione, l’evento, così come l’intervento "sociale". Certamente, se pensiamo in termini numerici, dovremmo occuparci di altro. Ma questo non significa che non possano esserci manifestazioni artistiche di qualità che richiamano una moltitudine di persone. Penso alla scorsa Documenta, che ha avuto circa un milione di visitatori paganti. Sono numeri notevoli rispetto a una mostra che concedeva pochissimo allo spettacolo e che affrontava il tema della trasformazione, del passaggio da intervento artistico a intervento laboratoriale e che richiedeva un notevole impegno da un punto di vista sia di tempo che di attenzione.
Sarò ottimista ma credo che il coinvolgimento di grandi numeri di persone e la qualità non siano necessariamente incompatibili.
Alla luce anche delle tue recenti riflessioni, quali pensi debba essere il ruolo del museo (ed in particolar modo del museo di arte contemporanea)? Oltre alla peculiare funzione conservativa e storica oggi il museo sembra perdere la sua funzione «politica», per essere contenitore espositivo – come nei megastore – e spettacolare. In Italia – generalizzando – pullulano musei di arte contemporanea che, anziché essere terreni in cui si definiscono nuove forme di sperimentazione critica della realtà disegnando nuovi paesaggi e territori, debordando i paradigmi pre-costituiti, si limitano ad assecondare la cultura main stream, magari importando grandi mostre. In tal senso il museo è ancora necessario oppure, pensando al museo come ad «uno stato d’animo», possiamo pensare a un luogo itinerante, un laboratorio – come lo intendi tu – che può situarsi indipendentemente dal suo contenitore? Un museo che sia piazza del sapere…
Non sottovalutando la funzione storica, informativa oltreché «democratica», nel senso di una accessibilità e apertura potenzialmente a tutti, la realtà è che in Italia – soprattutto da noi, mi sembra – la presenza massiccia dei musei di arte contemporanea ha contribuito ad uno schiacciamento pericoloso delle eterogeneità, delle differenze della ricerca artistica attuale, «viva», privilegiando gli aspetti burocratici, istituzionali, con guerre di potere connesse, ovvero un’attività espositiva prevalentemente orientata allo spettacolo.
Sicuramente piuttosto che al museo che riesce a produrre, a costi elevatissimi, spettacoli di scarsa qualità, preferisco pensare a musei «stati d’animo», per cui potenzialmente ogni luogo potrebbe essere funzionale alla ricerca artistica nel contemporaneo.
Vanno ripensati totalmente i concetti di museo e di arte contemporanea tout court per evitare che la presenza di queste istituzioni, spesso mostri architettonici veri e propri, determini un congelamento delle ricerche artistiche, delle opere, che dovrebbero mantenere il più possibile la loro vitalità.
L’opera d’arte contemporanea è tanto più interessante quanto più continua a produrre significati e tanto meno lo è quanto più è congelata in una collezione, in una storia dell’arte, all’interno di una griglia di significati in cui i valori sono rigidi e strutturati. La ricerca artistica invece dovrebbe continuamente rimettersi in discussione e ogni artista ha la possibilità di farlo alla luce anche di una rivisitazione – auto-retrospettiva – dei propri lavori passati.
Il problema è che oggi gli artisti sono portati a ritenere come valore assoluto quello di essere inclusi nelle collezioni dei musei e quindi sono portati a desiderare di essere congelati.
Sono portati a desiderare la morte delle loro stesse opere.
Posta la necessità di conservare la storia, questa coazione all’immutabilità e alla definita interpretazione dell’opera rischia di congelare le ricerche artistiche viventi. Nei musei e nelle collezioni, congelata, l’arte contemporanea muore, e la sua celebrazione diventa un canto funebre.
Il museo che storicizza il contemporaneo sembra quasi un ossimoro. La risposta è trasformare il museo stesso in laboratorio?
Sono convinto che sta per accadere, forse sta già accadendo; le figure cruciali restano gli artisti, che dovranno saper uscire da quella trappola, dal desiderio di essere congelati nel museo, e di veder celebrata la loro opera come si celebra un morto.
Il lutto è una idealizzazione della perdita ed è un gesto, almeno in apparenza, di rispetto e amore nei confronti della cosa perduta. A volte ho l’impressione che tutti noi artisti cadiamo nel paradosso per cui, per poter arrivare a quel livello di celebrazione e di rispetto, consideriamo l’opera come morta.
Per arrivare a valutarla come importante, per avere questo impeto di passione nel vederla all’interno di un museo o di una galleria, la congeliamo in una entità che non è più viva.
La resistenza a questa mummificazione consiste ancora una volta nel cambiamento del punto di vista, nel considerare l’opera, per quanto «riuscita», non come un fine ma come un mezzo. Non come un risultato finale ma come uno strumento di conoscenza. Non come un capolavoro, ma come un organismo che vive ancora e che ancora è in grado di sprigionare significati
Mi viene in mente il progetto che porti avanti in Puglia con Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese e Luigi Presicce: Lu Cafausu, la festa dei vivi che riflettono sulla morte
La «Festa dei vivi (che riflettono sulla morte)» viene proprio dall'idea di rovesciare la prospettiva della tradizionale "festa dei morti" del 2 novembre. Il fatto di celebrare i morti è cosa ben diversa dal riflettere sulla finitudine, sulla propria mortalità.
Celebrare il morto sposta la morte su chi è già morto, ma riflettere sulla morte propria, è una cosa che rende preziosa la vita.
Se noi riflettiamo sul fatto che l’opera in un museo è morta e che quindi esiste una pericolosa convergenza tra storicizzazione e congelamento magari potremmo essere spinti a ragionare anche sui modi per evitare questa convergenza, cambiando prospettiva e non vedendo più il museo come una necessità o come la cosa desiderata.
E’ in questo senso si ha anche il recupero dello scarto? «Lavori da vergognarsi ovvero il riscatto delle opere neglette» è il titolo della tua prima 'retrospettiva' presso ZooZone Art Forum.
Avere tra le mani questo grimaldello dello spostamento dei punti di vista è estremamente divertente e consente di rivedere in chiave diversa lo scartato, il rifiutato, le cose che infastidiscono, quelle che hanno ostacolato il processo.
Credo che questa mostra sia, peraltro, una delle migliori che ho fatto proprio perché smaschera, entra a gamba tesa nel piano delle differenze di giudizio di valore, trasforma in un colpo secco ciò che è "sbagliato" in "giusto", e fa, di una specie di meta-errore, la cosa giusta. Oltre ad essere stato divertente, dal punto di vista della mia ricerca credo rappresenti, non una chiusura (cosa che spesso segna le mostre retrospettive), ma un’apertura verso nuovi pensieri e possibili azioni future, attraverso l'utilizzazione di differenze che, sotto forma di errori, deviazioni, imbarazzi, inutilità, risiedono, più o meno consciamente, dentro di noi.
Tra le azioni future c’è Prato, con il Forum dell’Arte Contemporanea. Come nasce questo incontro e come ti situi?
Il Forum nasce da un'idea di Fabio Cavallucci e dal Museo Pecci. Quando Fabio mi ha invitato a far parte del comitato "promotore" ho accettato non perché ritenga che questo genere di appuntamenti possa portare in tempi brevi a chissà quale eclatante risultato di trasformazione del sistema dell'arte in Italia, ma perché penso che, se si può dare un contributo, è ingeneroso non farlo.
Ogni occasione di incontro è utile e credo ci sia molto materiale e molti temi su cui discutere. Credo che la scena artistica italiana abbia molto bisogno di tavoli di discussione; molto bisogno di mettere le persone intorno al tavolo e le idee sul piano del tavolo. Come dicevo prima, ho l’impressione che ciò accada solo in poche realtà laboratoriali attive sporadicamente grazie ad alcune associazioni o fondazioni, oppure in alcune realtà universitarie, come lo IUAV.
Con Prato l’arte contemporanea italiana si mette in discussione rivendicando la volontà di essere un «sistema» funzionale a una competitività internazionale.
Riportare il discorso sulla competitività è pericoloso però, rischia nuovamente di assecondare un sistema neo-liberista di produzione e consumo della cultura che, tornando ai nostri discorsi, non ammette errori, ozio. Quel diritto all’ozio che, secondo Paul Lafargue, è «un altro modo di abitare il tempo e il mondo», come l’arte.
Anche questa visione dovrà essere messa sul tavolo delle discussioni, ma, anche se vedo il rischio di un'ipertrofia del discorso dell'efficienza a spese del discorso critico, non vorrei cadere nemmeno nella colpevolizzazione pregiudiziale contro chi, parlando di cultura, ragiona anche in termini economici o organizzativi. Spesso il lavoro organizzativo è molto duro, e in molte occasioni bisogna anche avere gratitudine per chi lo fa.
Personalmente mi sono preso l’impegno di fare una riflessione sulla lingua italiana perché alla base di un declino che sicuramente esiste nella situazione artistica di questi anni, credo ci sia anche una sottovalutazione dell’importanza del suo uso. L’idea che si possa comunicare in inglese appiattisce il livello di profondità del pensiero critico e dell’immaginazione. Lo appiattisce al livello del basic english che più o meno ognuno di noi possiede e che non raggiungerà mai livelli shakespeariani. Un livello che ci costringe a parlare un esperanto infantile che necessariamente veicolerà espressioni elementari e condurrà il nostro pensiero ad essere funzionale a quel tipo di elementarità (che è quella del marketing, del consumo, della pubblicità, dello spettacolo).
Credo che questa sia un’urgenza sociale, politica, antropologica fondamentale.
Ti faccio un esempio: in italiano esistono tre parole che dicono la stessa cosa ma che hanno connotati semantici diversi: faccia, viso e volto. Faccia è ciò che ti sta di fronte, il volto è qualcuno che si rivolge a te, e il viso è ciò che vedi. La differenza tra questi tre termini è fondamentale dal punto di vista psicologico, perché lo sguardo dell'altro, il viso/volto/faccia, della madre in primis, e poi di ogni altro che ci guarda, è il fondamento della nostra soggettività.
In inglese, i tre termini si traducono sempre con face, parola che, delle tre sfumature semantiche, ne ha solo una.
Come tradurre in altra lingua la complessità delle sfumature della lingua madre, e cioè le sfumature, le complessità, le contraddizioni anche, del pensiero? Questo mi sembra un punto fondamentale su cui riflettere. Vorrei affermare l'importanza di poter rendere più profondo e denso il pensiero promuovendo e migliorando l'uso della lingua madre, e non certo per motivi nazionalistici o identitari ma perché soltanto una lingua usata in maniera complessa, sfumata e anche contraddittoria, ci darà la possibilità di non essere meri esecutori di un sistema - economico, culturale, antropologico, di pensiero - globalizzato, uniformato e ridotto ad un livello basic.
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Cesare Pietroiusti nasce a Roma nel 1955 dove attualmente vive e lavora.
La rubrica 'La parola agli artisti' nasce in collaborazione con ArtVerona