RIFORMA DEL TERZO SETTORE: LE AMBIGUITÀ DELL'IMPRESA SOCIALE
Sulla Riforma del Terzo Settore, l'opinione dell'Istituto Bruno Leoni
Buona parte delle critiche provenienti, per così dire, «da sinistra» alla legge delega per la riforma del terzo settore, approvata la settimana scorsa alla Camera dei deputati, riguarda il rischio di mercificare attività aventi finalità sociali e di interesse generale.
C'è del vero.
La legge pretende infatti di riordinare la disciplina di quelle attività che, senza scopo di lucro e per finalità solidaristiche, promuovono e realizzano obiettivi di interesse generale anche tramite la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale.
In breve, la legge prende le iniziative che vengono considerate come risposta a una domanda sociale senza ricavarne un profitto per porle sotto una disciplina più rigida, un maggior controllo dell'attività e dei bilanci, un monitoraggio tramite un registro unico del terzo settore. Tutto questo viene «scambiato» con la possibilità di surrogare l'attività d'impresa: ad esempio tramite forme di remunerazione del capitale sociale e ripartizione di utili, nei limiti fissati sempre dalla legge.
Nelle intenzioni del governo, c'è quella di valorizzare la realtà del terzo settore - un patrimonio nel nostro Paese, le carenze di uno Stato ipertrofico ma inefficiente sono sopperite da una gran messe di associazioni e fondazioni - consentendogli di mimare forme organizzative tipiche delle aziende. E' innegabile che il mondo del non profit veda spesso le buone intenzioni fare premio sulla necessità dell'efficienza. E altrettanto innegabile è che i vantaggi, anche di tipo fiscale, disponibili per queste realtà molto spesso conducano a casi ambigui, nei quali "non profit" è la forma ma non la sostanza.
E tuttavia non è chiaro se nella nuova normativa volta dal governo queste ambiguità vengano superate o non diventino, piuttosto, strutturali. Essa fa perno infatti su una fattispecie che di questa ambiguità è la quintessenza: quella di "impresa sociale".
L'impresa è per definizione caratterizzata dall'obiettivo del profitto. Attività d'impresa e interesse generale vanno di pari passo: le imprese creano occupazione, generano dividendi per gli azionisti, producono per i consumatori beni e servizi dei quali essi hanno bisogno. Questo è "interesse generale". Il profitto è la bussola dell'attività d'impresa, lo strumento segnalatore che serve per assicurarsi che si stanno utilizzando al meglio i fattori della produzione, che le risorse degli azionisti sono investite nel modo migliore, che ad essere prodotti sono beni e servizi dei quali effettivamente i consumatori hanno bisogno.
E l'impresa sociale, che cos'è? Se non potesse fare profitti, sarebbe come un'impresa "accecata", priva dello strumento principale per orientare la propria attività. La questione è complicata dal fatto che sappiamo che potrà anche distribuire utili, per quanto attraverso un percorso del tutto peculiare.
Se l'obiettivo del governo è quello di eliminare la possibilità di attività opache, aventi carattere di lucro ma organizzate come terzo settore, la categoria delle imprese sociali difficilmente potrà consentire una migliore chiarezza. Sarebbe stato meglio, piuttosto, eliminare del tutto tale categoria e lasciare la scelta se fare impresa o non profit. Che è un'attività rispettabilissima, nelle sue mille diverse declinazioni, ma caratterizzata per l'appunto da una natura radicale e schiettamente diversa, rispetto a quella delle imprese che perseguono profitto.
Una postilla. Se il non profit in Italia, pur con mille difficoltà organizzative e in un Paese nel quale è scarsa la sensibilità rispetto alle donazioni private, dà ottimi frutti, è proprio perché è relativamente libero di organizzarsi e di gestirsi con molti meno vincoli rispetto alle iniziative votate al profitto.
Il vantaggio sociale che il terzo settore ha portato non è stato casuale, ma l'esito di una tregua dalla burocrazia che asfissia cittadini e imprese italiani. Dichiarare finita la tregua è tante cose, ma non un impulso al non profit.