Distretti Culturali: da un bando alla trasformazione concreta di un territorio attraverso la Cultura. E poi narrazioni di vera innovazione culturale con il progetto #raise2rise
Dopo 5 anni, i 6 distretti culturali selezionati con il Bando di Fondazione Cariplo, hanno ridisegnato la propria identità e scritto nuove pagine della propria storia. Fondazione Cariplo ha erogato 19.152.968 Euro, per 123 progetti sviluppati e 101 enti coinvolti. Nell’arco dei cinque anni 3035 imprese professioniste sono state coinvolte nella realizzazione dei progetti, generando un fatturato totale di 54.049.177 milioni di Euro. Una buona pratica di sistema che integra le strategie di sviluppo locale con la filiera culturale. Esperienze che si stanno narrando con il progetto di storytelling #raise2rise. Ne parliamo con il project leader di Fondazione Cariplo, Alessandro Rubini
Milano.
Come riassumi l’esperienza di questi anni?
Il primo pensiero va alla difficoltà iniziale che abbiamo incontrato per mettere i vari attori attorno a un tavolo. Non è facile fare rete; non si tratta di una semplice architettura istituzionale, bisogna stringere nodi veri in cui le persone sono motivate a prendere decisioni insieme. E chi coordina tutto ciò deve essere credibile. L’acquisizione di credibilità richiede tempo è questo è valso sia per noi come Fondazione sia per gli operatori coinvolti nel progetto Distretti Poi è subentrata invece la sensazione della fluidità, della facilità delle relazioni una volta creati i legami fiduciari. Una volta ottenuta la fiducia, tutto e corso con più semplicità.
Il secondo insegnamento riguarda la capacità della lettura del territorio e del contesto, anche questa ottenuta col tempo e lavorando insieme, gomito a gomito con gli operatori e le istituzioni. Infine, come terzo insegnamento, la consapevolezza che le persone singole nelle posizioni giuste fanno la differenza. Purtroppo le istituzioni patiscono ancora blocchi e ritardi, dovuti a formule organizzative spesso incapaci di premiare la ricerca di innovazione e qualità. In questo quadro, la differenza la fanno unicamente le persone. Il Capitale Umano è fondamentale.
Ritieni quindi che non sia possibile travasare il know-how che avete maturato?
Il metodo di lavoro sperimentato da Fondazione Cariplo con i Distretti funziona. Ha la grandissima forza di basarsi su una visione di lungo periodo, dove l’erogazione si trasforma in accompagnamento strategico e operativo, monitoraggio e controllo degli impatti.
Noi siamo stati sempre presenti, andando sui territori per accompagnarli passo a passo, evitando il coordinamento da remoto. La nostra consapevolezza nella conduzione del percorso è stata l’arma vincente. Una formula innovativa perché prima di questa esperienza, nessuna Istituzione l’ha mai praticata. Abbiamo immaginato la figura del referente operativo, un collaboratore della Fondazione che ha svolto sia il lavoro di accompagnamento che di monitoraggio e questo ha permesso la facilitazione dei rapporti con gli Enti territoriali. E poi quando si trovano gli interlocutori aperti, l’innovazione si attiva davvero.
Quale è stato il ruolo della Cultura?
Cultura è ciò che del passato trasmettiamo al futuro. Partire dalla Patrimonio Culturale significa tracciare il senso di un percorso della comunità ed aiutarla a immaginare visioni di sviluppo. Per anni la Fondazione Cariplo ha investito nelle operazioni di restauro del Patrimonio e ancora adesso le erogazioni a favore della conservazione hanno un peso rilevante. Ma con questa esperienza abbiamo fatto un salto: siamo passati dalla semplice tutela dei beni, alla tutela delle potenzialità co-evolutive valorizzando in questo modo le relazioni, di senso e funzione, che i beni culturali possono assumere. Abbiamo introdotto il concetto di conservazione programmata e preventiva, che ha permesso di pianificare oltre 37 interventi con relativi cantieri e piani di manutenzione nel lungo periodo. Abbiamo puntato tutto su una visione della Cultura come infrastruttura per lo sviluppo locale perché crediamo davvero che la cultura possa ispirare e dare valore a tante filiere economiche dove è prevista qualità e creatività.
Come vi siete relazionati con il Settore Privato?
La focalizzazione sul Patrimonio Culturale ha messo in prima linea gli Enti Pubblici che hanno la titolarità dei beni e che hanno contribuito a reperire i cofinanziamenti. Noi speravamo che, fin dall’inizio questa progettazione avrebbe portato a contributi di Privati. In realtà ne abbiamo ottenuti pochi. Noi non abbiamo spinto a sufficienza sul coinvolgimento dei privati e gli Enti Pubblici hanno trovato più facile replicare il modello prevalente italiano dove il Patrimonio è responsabilità del Settore Pubblico evitando di condividere questo ruolo con i privati. La sfida dei distretti culturali di oggi sta proprio nell’interazione sempre più sistemica anche con le filiere produttive.
Il capitale relazionale è forza ma anche fragilità di questo modello?
È un discorso complicato che tocca la Politica. Come dicevo, le persone fanno la differenza. Devo registrare che nelle Pubbliche Amministrazioni ci si dedica ancora troppo poco alla pianificazione culturale. I budget sono sottodimensionati ai bisogni, figurarsi all’elaborazione di strategie innovative. La governance va ripensata mettendo al centro le persone che sanno pensare, progettare e fare perché anche i finanziamenti arrivano sempre di più con bandi, erogazioni da fondazioni, bandi europei: tutte opportunità che intercettano le amministrazioni pubbliche solo se hanno risorse umane capaci di scrivere i progetti e poi realizzarli. Altrimenti le iniziative sono deboli.
I Distretti recuperano una funzione attiva: sono le piattaforme sulle quali far ricadere le sperimentazioni progettuali più innovative e interessanti. Purtroppo, nonostante i riconoscimenti che arrivano per l’iniziativa, non me la sento di affermare che ci sia un corrispondente investimento per rinforzare ed emulare operazioni simili.
La Cultura deve ancora entrare nell’ Agende Pubblica.
I territori si sono trasformati davvero?
Senza dubbio si. 34 milioni di Euro sono stati raccolti a livello territoriale, di fatto moltiplicando il nostro contributo economico. E questo è un primo dato.
Inoltre cito un esempio: la Valtellina si è riscoperta, ridandosi una nuova identità. Da un territorio di attraversamento, a un territorio di attrazione turistica ed economica. I Distretti non sono tutti uguali ovviamente. In alcuni territori è cambiata la cultura dello sviluppo locale trovando fondi per progettualità incrementali.
In buona parte sono dipesi dalla bontà delle reti, ma altrettanto merito tendo a rintracciarlo nel capitale umano. Le squadre più forti hanno fatto meglio; il futuro dipenderà da quanto le amministrazioni sapranno riconoscere che per fare bene bisogna far lavorare le persone che sanno fare le cose bene e sanno cogliere le opportunità per fare sempre meglio.
Impatti di questo modello di sviluppo. Andrà avanti lo sviluppo oltre di voi?
Io penso di sì. Per esempio Valtellina, Valcamonica e Cremona sono diversi da come li abbiamo trovati. Finalmente si tocca con mano una rete che testimonia una partecipazione reale ai tavoli di lavoro, in alcuni casi con una spiccata presenza giovanile. Nel caso della Valcamonica per esempio c’è una forte vivacità progettuale e qui e altrove – come in Brianza - sono gli enti stessi che propongono bandi per puntare sullo sviluppo dell’industriale locale.
Perché avete fatto questa scelta dello Storytelling?
Gli addetti ai lavori restano i nostri interlocutori principali, ma vogliamo estendere il nostro pubblico. Due anni fa abbiamo fatto un convegno istituzionale, dove ci siamo confrontati sui risultati dell’operazione, invitando i maggiori esperti del tema dei distretti. Abbiamo anche pubblicato un volume restituendo tutti i processi compiuti e le lezioni apprese. Ma vogliamo andare oltre le Istituzioni e l’Accademia. Pensiamo sia interessante non solo raccontare i processi ma anche e soprattutto le persone. E’ una scelta della Fondazione per restituire a un pubblico più ampio il know-how della sperimentazione.
L’ingaggio nei processi di cambiamento produce energie di comunità. Il rischio che abbiamo corso è stato quello di essere troppo aulici e autoreferenziali, efficaci forse da un punto di vista tecnico, ma lontani dal coinvolgimento della comunità. Lavorare sulla partecipazione e l’attivazione è un dovere per non sprecare risorse e capitale relazionale. Dobbiamo avere il coraggio di cambiare, dunque proviamo con racconti accessibili, con testimonianze personali che attivano processi di identificazione ed emulazione virtuosa.
Ritieni sia esportabile il modello distrettuale altrove?
In questi anni sono stato in diversi territori, chiamato a raccontare questo progetto.
La diffusione del modello è complessa. Noi stessi siamo partiti con 35 candidature in Lombardia, definendo una rosa di 11 progetti strutturati che rientrassero negli obiettivi del bando, per poi sceglierne 6.
Il Patrimonio Culturale nel nostro Paese è un bene straordinariamente diffuso. Risorse economiche e competenze sono invece meno diffuse. Non tutti i territori sono preparati a una progettazione e programmazione strategica che incorpora sviluppo locale con la Cultura. Come dicevo all’inizio per costruire una rete di programmazione strategica c’è un percorso di acquisizione di fiducia, di credibilità che è lungo e non è scontato. Purtroppo quando manca la maturità territoriale mancano spesso anche i tempi per organizzarsi e così si rischia di perdere importanti occasioni. D’altronde non è un periodo nel quale sia facile programmare con una visione ampia di sviluppo. Molti Enti locali sono in fase di ridimensionamento.
Noi abbiamo sperimentato partendo da un contesto che nel 2005 era molto diverso, ma il percorso andrebbe riadattato per affrontare più efficacemente gli scenari emergenti. La domanda di azioni simili da parte della società civile può fare molto. L’operazione di narrazione che stiamo facendo ora prevede una call to action che abbiamo chiamato #raise2rise che ha l’obiettivo di condividere dal basso azioni di risveglio culturale, che rappresentano il desiderio di altro dieci, cento, mille distretti culturali su tutto il territorio nazionale.
Manterrete rapporti con i Distretti?
Sebbene non siamo più coinvolti con il sostegno economico, assolutamente sì. Per esempio il nuovo Bando IC-Imprese Culturali lavora nel solco dell’innovazione sociale a base culturale, come leva di sviluppo economico e può trovare nei Distretti culturali dei luoghi di sperimentazione e collaborazione. I Distretti sono ricettivi e attenti alle nuove forme di impresa culturale e per partecipare ad alcuni Bandi dovranno sempre più immaginare nuove progettualità di rete con imprese oppure su scala internazionale.
Quale il minimo comune denominatore di queste sei esperienze?
Innovazione, Comunità, Visione, Sviluppo locale, Rete, Progettualità, Conservazione preventiva e programmata. Però quella alla quale tengo di più, è Politica culturale. Abbiamo abilitato territori e comunità ad pensare e realizzare politiche culturali emerse da percorsi partecipati e non da indicazioni e forzature dall’alto. In questi territori abbiamo creato le “condizioni ecologiche” perché questi processi germinassero. Grazie alla legittimazione di Fondazione Cariplo, le proposte di sviluppo su base culturale hanno trovato la forza di legittimarsi nell’arena politica e nei confronti delle Amministrazioni Pubbliche.
Siamo stati facilitatori, ma anche critici in un rapporto dialettico. Noi stessi abbiamo imparato moltissimo: ad esempio le tecniche di progettazione e conduzione di tavoli inter-istituzionali, nonché la capacità di comunicare le Buone Pratiche e metterle a sistema.
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