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166 copertine per Vogue

  • Pubblicato il: 18/04/2014 - 14:37
Rubrica: 
NOTIZIE
Articolo a cura di: 
Walter Guadagnini

Venezia. A quattro anni dalla scomparsa di Irving Penn, Palazzo Grassi ordina la prima grande retrospettiva italiana di uno dei maestri della fotografia del secolo scorso, che così diventa anche il primo fotografo cui è stata dedicata una personale negli spazi di François Pinault (dalla cui collezione provengono tutte le opere in mostra; dal 13 aprile al 21 dicembre, a cura di Pierre Apraxine e Matthieu Humery).
Attraverso 130 immagini, l’esposizione «Irving Penn, Resonance» ripercorre la lunga carriera dell’artista nato a Plainfield nel New Jersey nel 1917, dapprima allievo di Brodovitch a Filadelfia e poi assistente di Lieberman a New York nella redazione di «Vogue», rivista di cui diventerà una firma storica, realizzando ben 166 copertine a partire dalla ormai leggendaria «Natura morta» a colori del 1943. La mostra non segue però un andamento strettamente cronologico preferendo invece procedere per temi, seguendo l’idea che il lavoro di Penn si muova soprattutto all’interno dei generi, in particolare il ritratto e la natura morta, attraverso una continua indagine sull’essenza della fotografia e del suo rapporto con il tempo. Si tratti della serie dedicata ai «piccoli mestieri», quei lavori destinati a scomparire di fronte all’avanzare di nuovi modi di vita e produzione realizzata in Europa e negli Stati Uniti nel corso degli anni Cinquanta, o di quella dedicata agli aborigeni della Nuova Guinea del decennio successivo, ciò che conta per l’autore è la perfetta corrispondenza tra precisione dello scatto, della composizione e della stampa, e non tanto una ricerca di carattere sociale o psicologico. Tanto che Penn mantiene lo stesso atteggiamento nel corso degli anni anche quando affronta uno dei temi a lui più cari, quello della natura morta. Anche in questo caso, poco importa che si tratti di composizioni che rimandano alla tradizione classica, tra frutta e bucrani e caraffe, o di pacchetti di sigarette, mozziconi o bicchieri di carta calpestati e trasformati dal tempo in affascinanti rovine: ciò che conta è il pieno dominio dell’immagine, dallo scatto fino alla realizzazione finale di quelle stampe al platino di qualità inarrivabile, la trasformazione del soggetto in qualcosa di altro da sé, che può essere un memento mori, ma può anche essere semplicemente una bella forma.
D’altra parte, Penn aveva dimostrato sin dagli inizi degli anni Cinquanta di poter essere al tempo stesso un grande fotografo di moda e un autore libero di muoversi tra le invenzioni consentite dai generi canonici della pittura, realizzando una serie di nudi che verranno pubblicati solo negli anni Ottanta proprio per la loro ostentata carnalità, e una serie sorprendente di ritratti della comunità intellettuale newyorkese (e non solo), caratterizzati dalla geniale invenzione di un paravento o dalla presenza di un informe ma quantomai espressivo sacco sul quale poggiavano i soggetti. Marcel Duchamp e Truman Capote, Max Ernst ed Elsa Schiaparelli, Pablo Picasso e Igor Stravinskij devono proprio a queste sedute di posa alcune delle loro immagini più famose e divulgate, nelle quali forse per l’unica volta Penn ha concesso a chi stava davanti al suo obiettivo di portare con sé la propria individualità, di caratterizzarsi come singolo e non come parte di un gruppo.

da Il Giornale dell'Arte numero 341, aprile 2014