La crisi sprecata
Ad ogni nuovo esecutivo il patrimonio culturale si evoca come risorsa di sviluppo, la Grande Bellezza diventa retorica che invade anche Sanremo, il Festival più Pop, ma non si decolla. Riforme timide e frammentarie.
Fabio Donato nel suo recente «La Crisi Sprecata» edito da Aracne, invoca una svolta radicale nelle governance, un modello manageriale che si basi su logiche di network evolvendo da micro a meso, con reti su aree territoriali omogenee. Un buon contributo per la nuova agenda politica. Ne parliamo con l’autore.
La sua analisi della crisi culturale e delle strade per uscirne, parte da una densa rilettura della genesi della crisi economico-finanziaria. Perché questo taglio irrituale?
Mi sembra importante per far comprendere fenomeni che non sono scontati. Mi sembra che da un lato l'interpretazione della crisi nel Paese, soprattutto da parte delle persone che hanno dei ruoli di responsabilità, sia ancora della serie del "Ha da passà 'a nuttata", del “fiato sospeso”. Ho voluto spiegare, motivandolo, che siamo dentro ad una crisi strutturale che necessita una modifica degli assetti istituzionali che portano con sé profili economici, sociali e anche culturali. Sarebbe inutile incidere limitatamente sugli effetti, senza riformarne le cause, in ogni settore. La spending review è un esempio eclatante: è stata condotta come intervento marginale in termini di incremento o decremento di investimento, ma non di ridefinizione del sistema. La cultura, spesso intesa solo finalizzata al turismo o alle imprese culturali e creative, va colta nei legami profondi con l'economia.
Essere persone di cultura -dal policy maker all’imprenditore e non solo l’intellettuale- vuol dire conoscere le radici delle cose, avere un'impronta generazionale, avere un sistema valoriale che non si sposa con comportamenti speculativi, con le logiche dominanti negli ultimi anni. Vanno recuperati nel senso del valore l'economia e l'impresa nella società.
Questa analisi mi è servita per un ragionamento a livello Europeo. Non è più pensabile immaginare oggi un settore culturale italiano, come se ci fossero le vecchie frontiere. Il settore culturale si muove in modo trans-frontaliero, ancora di più rispetto agli altri settori economici. Allora l'investimento europeo diventa fondamentale per le politiche culturali e per lo sviluppo di percorsi di sostenibilità del settore culturale.
A rischio molte istituzioni del Paese. Dall’inizio della crisi i finanziamenti pubblici si sono ridotti di oltre il 20% e le sponsorizzazioni di circa il 30%, i contributi delle fondazioni di origine bancaria del 35%.
Il paradosso della chiusura espresso dal pamphlet “L’infarto della cultura” è stata una provocazione che non è lontana dalla realtà dei fatti. Formalmente le istituzioni culturali non stanno chiudendo, ma la riduzione della progettualità, e dell’attività, di immissione di giovani, di pensieri e di energie nuove, è ciò che sta accadendo. Ho rinominato queste realtà "Dead Museum Walking" e ne abbiamo molti. Va ripensato il settore nella logica di mantenere un equilibrio virtuoso tra eccellenza culturale, ma anche sostenibilità economica. Abbiamo eccellenza culturale diffusa che non cura assolutamente la sostenibilità economica, perché pensa che aspirare a ricavi autonomi significhi essere commerciali. Ma non è così: politiche di coinvolgimento della cittadinanza, di partenariato con le imprese, di attrazione di nuovo pubblico, di progettualità europea che favoriscono partecipazione, innovazione, sperimentazione e sviluppo possono garantire le entrate necessarie, senza rinunciare alla qualità della ricerca scientifica che deve essere il prerequisito. La qualità sta nel riuscire a creare delle progettualità che abbbiano senso sia culturale che economico. La cultura è l'elemento trasversale che ci rende cittadini e civili. C’è ancora una profonda aristocrazia nella cultura.
Come uscire dal Paese dei “Dead museum walking”?
Con sistemi culturali territoriali, con architetture di governance, con persone giuste per l'organizzazione.
Mettere in comune i costi e fare massa critica per potenziare le capacità per produrre ricavi.
Non sono sufficienti modelli e strumenti, come quelli di management, budget, controllo di gestione, se non si ragiona con logiche di equilibrio economico.
Il passaggio fondamentale è incidere sulla cultura organizzativa delle persone che lavorano nelle istituzioni culturali, per avere oltre a conoscenze e competenze, un nuovo orientamento mentale.
E’ un tema anagrafico? Risolviamo con un cambio generazionale?
Ci sono giovani vecchi, quelli che abbiamo coltivato come funghi champignon fino ad ora, al buio. Ci sono persone in età da pensione con una straordinaria vivacità intellettuale, capacità, apertura, propensione all'innovazione superiore a quelle che trovo in aule di master.
Occorrono conoscenze e competenze, un sistema di regole con più autonomia gestionale e più responsabilità dei risultati, economici e culturali.
Nel nostro paese strano, abbiamo un sacco di norme, ma poi nessuno è mai responsabile dei gravi fallimenti. E’ fondamentale recuperare il senso della responsabilità.
Se non siamo responsabili come possiamo essere pronti ad accogliere la sfida del cambiamento sociale a base culturale che ci propone la Comunità Europea per la nuova programmazione, indicandoci società e istituzioni intelligenti, inclusive, innovative e sostenibili?
Saremmo pronti se lo volessimo. La crisi ci deve portare assolutamente ad una dimensione europea. Continuiamo a dire che il problema del settore culturale italiano è la carenza di fondi, quando in realtà non riusciamo a spendere i fondi strutturali europei. I fondi che ci sono in Europa non vengono stampati, arrivano dai contributi nazionali. Nel programma quadro per l’eccellenza che ora si chiama Horizon, l’Italia paga un budget che non riesce a portare a casa. Questo è il grande paradosso del Paese.
Siamo europeisti a parole, ma non lo siamo nei fatti. La presenza italiana nei luoghi che contano di Bruxelles non è proporzionale all'importanza, alla dimensione e al contributo storico che il nostro paese ha dato alla costruzione dell'Europa. Purtroppo l'Italia in Europa è fatta da singole persone e non dall'Italia. Ci sono persone di altissima qualità e poi bassa capacità, come paese, di far sistema e di muoversi tutti insieme. E i fondi non arrivano.
E sulla cooperazione con i privati?
Nel nostro paese siamo fermi sul dibattito se fare o non fare partneriati. In Europa si parla di come farli. In Italia gli operatori del settore culturale vedono il privato come una minaccia che si sopporta perché porta denaro. Questo approccio non porta da nessuna parte. Il partenariato è altro, è progettare insieme. Abbiamo bisogno di cultura manageriale nel settore culturale, avere la consapevolezza che le finalità istituzionali devono essere perseguite in coerenza con la sostenibilità economico finanziaria, che non è solo un fatto tecnico, ma è anche un fatto etico, per le future generazioni. Il debito pubblico che ci sta frenando come una zavorra deriva dal finanziamento della nostra insostenibilità con l’emissione di debito pubblico.
Cosa suggeriamo al nuovo Ministro dei Beni Culturali, per non sprecare la crisi?
Di attuare collegamenti trasversali con i ministeri che si occupano di educazione, sviluppo economico e con l'agenda digitale. La digitalizzazione è il tema cruciale che cambierà tutto il sistema culturale nei prossimi venti anni.
Sottostimiamo l’importanza dell’elaborazione delle politiche culturali. Il Ministero deve diventare la cabina di regia nella garanzia dell'interesse pubblico. La gestione va spostata sul territorio e cucita con il contesto.
E’ necessario ricercare un nuovo modello di sostenibilità economica del settore culturale. Non possiamo più permetterci un settore culturale nel quale ogni istituzione agisce da sola. C’è l’esigenza di un modello di governance articolato per sistemi culturali territoriali, nel quale condividere – e quindi razionalizzare – i costi, e nel quale introdurre conoscenze e competenze nuove per sviluppare ricavi autonomi, attraverso la progettualità europea e l’attrazione dei fondi comunitari, progetti culturali con forza anche commerciale, forme evolute di fundraising e di crowdfunding, un nuovo concetto di “biglietteria”, lo sfruttamento delle potenzialità delle nuove tecnologie, della digitalizzazione e dei social network. Del resto tale modello di governance, per sistemi culturali territoriali, è quello più coerente con le caratteristiche del nostro patrimonio culturale: radicato nel territorio, interrelato, e reciprocamente dialogante. Ed è necessario un modello manageriale al posto della tradizionale gestione burocratica, che si limita semplicemente a spendere i fondi pubblici a disposizione senza produrre risorse autonomamente. E quindi: partenariato con i soggetti privati, dimensione internazionale, immissione di giovani e di nuove competenze, coinvolgimento e partecipazione dei cittadini. Le crisi sono straordinarie occasioni per l’innovazione e per la realizzazione di riforme strutturali, proprio perché solo durante le fasi di crisi si riducono le barriere al cambiamento. Ma sino ad oggi tali riforme non vi sono state. Mai sprecare una crisi. Ed invece sino ad oggi per il Paese questa è una crisi sprecata.
La crisi sprecata. Fabio Donato ed Aracne nov. 2013
Fabio Donato è ordinario di Economia Aziendale e Direttore del Master in Cultural Management “MuSeC” presso l’Università di Ferrara. E’ nel consiglio di Encatc (European Network on Cultural Management and Policy Education) e Co-ecitor del Journal of Cultural Management and Policy di Bruxelles. Rappresenta L’Italia per il programma Horizon 2020 per il Societal Challenge “Europe in a changing world: inclusive, innovative and reflective societies”
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