Gli autogrill, monumenti di un paese diventato industriale
Roma. L’ultima mostra del Maxxi chiarisce definitivamente, dopo ≪Re-cycle≫ (cfr. ≪Il Giornale dell’Architettura≫, n. 101, 2012),
quale sia l’indirizzo del museo romano.
Non e un caso che il curatore di entrambe le mostre, Pippo Ciorra, senta nel catalogo la necessita di ribadirlo: ≪… la mostra fa parte di una serie di progetti legati all’attualità della questione ambientale… ora è il momento di chiarire che la questione ambientale è un “imperativo estetico”≫. Il Maxxi Architettura sceglie quindi una linea curatoriale che potremmo definire tematica. Lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr provò più di cinquant’anni fa a dar sostanza critica a questa concezione, sottolineando come ogni epoca si esprima al meglio in determinati temi che diventano ≪dominanti≫ in quanto, come scrive ne La perdita del centro, lo spirito del tempo s’indirizza verso di essi come evento simbolico, disvelandosi. Parole altisonanti, di un hegelismo demodé che male si concilia con una condizione attuale che e ancora postmoderna, per cui inclusiva, orizzontale e anti-simbolica.
Eppure, nonostante ciò, non solo in Italia, la tendenza e quella di fare delle mostre tematiche, iconologiche, come quella da poco conclusa alla Triennale di Milano sulle infrastrutture. La prima ragione di questo andamento e pragmatica.
Le istituzioni statali vedono nei grandi temi un format facilmente comunicabile e disponibile alle sponsorizzazioni, tra l’altro confezionabile secondo maglie larghe attraverso le quali far passare ciò che è disponibile sul mercato.
Ma esiste un’altra ragione. Gli ultimi venti anni sono stati vissuti dalla cultura italiana seguendo tendenzialmente una linea interpretativa. C’è stata da noi (e su ciò concordo con Franco Purini) nei primi anni novanta una vera e propria rottura epistemologica con la tradizione dei maestri italiani, in quanto essi, immersi nella loro autorialità, non si erano resi conto di quanto il territorio nazionale fosse cambiato. Ha ormai vent’anni il libro di Stefano Boeri, Arturo Lanzani ed Edoardo Marini Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese (Abitare Segesta, 1993) e dieci anni quello di Paolo Desideri che tesseva l’apologia della ≪città di latta≫ (Meltemi Editore, 2002).
Da allora si è andati avanti nell’analisi dei fenomeni, dei riti e delle pratiche collettive, in una vera e propria escalation.
Da un lato quindi le esigenze della cultura istituzionalizzata, dall’altra un atteggiamento culturale inclusivo e fenomenologico: ecco le ragioni che spiegano il successo delle mostre tematiche.
Tutto ciò non vuol dire che ≪Energy≫ non sia una mostra apprezzabile. Si presenta bene, con un allestimento che riesce persino a svincolarsi dai fastidiosi flussi rivestiti di muri della Hadid. Chiara e immediata ma non superficiale, e divisa in tre sezioni: una storica dedicata alla stagione delle grandi autostrade italiane degli anni sessanta (curata con tatto da Margherita Guccione e Esmeralda Vitale), un’altra dedicata ai progetti futuribili e infine una sezione fotografica, curata da Francesca Fabiani.
E proprio confrontando le diverse sezioni che emerge il limite dell’interpretazione tematica.
La più affascinante e riuscita delle tre sezioni è, infatti, quella che guarda al passato in cui gli autogrill erano la resa monumentale di un paese che in pochi anni da rurale era diventato industriale, in cui il cane a sei zampe era la rassicurante prova che si poteva essere petrolieri senza petrolio, di una stagione lontana in cui i villaggi per i dipendenti Eni di Edoardo Gellner erano l’espressione di un capitalismo protettivo e paternalista. Anni in cui, per dirla con Sedlmayr, l’architettura delle reti (o delle infrastrutture) era senza dubbio un ≪tema dominante≫. Oggi, cinquant’anni dopo, le cose sono radicalmente cambiate: la qualità dei manufatti ci dimostra come il tema dell’architettura delle reti non solo non sia più dominante, ma rischi di diventare evanescente. Non solo, infatti, i manufatti sono ormai standardizzati, ma più in generale la stessa motorizzazione di massa non è sentita più come un valore. La
prova di ciò è visibile nella stessa mostra: basta confrontare le stazioni di servizio degli anni sessanta con quelle odierne, magistralmente fotografate da Alessandro Cimino.
In gran parte deludenti i progetti della sezione dedicata alle stazioni di servizio del futuro. Mentre Sou Fujimoto ripropone ancora quella torre di sottili piani rampanti a spirale che ritroviamo in ogni mostra in cui è invitato, i progetti di Lifethings, Modus Architects e Obr scivolano in uno scoraggiante infantilismo futuribile.
Elegante invece la proposta di Ian+ e convincenti gli alberi low-tech di Noero Architects che s’ipotizzano disseminati in un villaggio di pescatori in Sudafrica presentando una grande sezione di fronte alla quale va ammirata la capacita di resa monumentale di ciò che è umile e domestico.
Pur apprezzando questa mostra, che ha sicuramente il merito di aggiornarci specialmente nei confronti del passato, si sente il bisogno di mostre non iconologiche ma iconografiche, che affrontino il linguaggio, il modo con cui le cose si dicono, non il contesto in cui si dicono. Ne ha urgentemente bisogno l’architettura italiana in cerca di autori.
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Da Il Giornale dell’Architettura, Numero 114, estate 2013
«Energy: architettura e reti del petrolio e
post-petrolio», a cura di Pippo Ciorra, Maxxi,
Roma, fino al 29 settembre