La Biennale tra nonnismo e larghe intese
Massimiliano Gioni, curatore dell’attuale Biennale di Venezia, nonostante la giovane età, non è un rottamatore. A dirla tutta, ammesso e non concesso che Berlusconi non abbia fatto cadere il Governo prima dell’apertura della Biennale, rovinandoci l’analogia, Gioni è l’Enrico Letta della situazione. La sua è una mostra delle larghe intese, ma in tal senso ha fatto anche più dell’attuale presidente del Consiglio. Ha messo insieme dinosauri e artisti rampanti; ha dato spazio ai grillini di turno, nominando «presidente del Senato» un outsider «antipolitico» come il visionario italoamericano Marino Auriti ed eleggendo come «ministri» altri artisti non omologati o personalità pubbliche extrasettore, come Rudolf Steiner, Carl Gustav Jung e preferendo al Paolini artista il Paolini attore. Non mancano le quote rosa, un diritto-dovere sancito anche dai due Leoni d’Oro alla carriera assegnati a Maria Lassnig e a Marisa Merz. Un’incognita sono i trentenni: saranno giovani turchi riformatori o supini portaborse delle segreterie di partito? Il «Palazzo Enciclopedico» cui Gioni-Letta intitola la mostra è del resto, per definizione, contenitore onnicomprensivo, per quanto utopico. Ma nel suo disegno curatoriale ci sono altre due analogie con la politica italiana: l’età media degli artisti viventi invitati si aggira intorno ai 53 anni, la stessa dell’attuale compagine governativa, ma, rapportata a una mostra di arte contemporanea, decisamente elevata. Com’è accaduto con la rielezione di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, la cospicua presenza in mostra di veterani indica che anche Gioni si affida ai nonni, anzi ai trisnonni: su 150 artisti, più di un quarto sono scomparsi. Il giovane curatore, in tal senso, conferma, rafforzandola, una tendenza che alla Biennale ha preso piede da qualche edizione. Se nel 2003 l’età media degli oltre 300 artisti della mostra diretta da Bonami era di circa 41 anni e nel 2005 (direzione Corral-Martínez) non toccava i 44 anni, nel 2007 Robert Storr impostò la rassegna centrale in chiave fortemente museale e l’età media degli artisti salì a 48 anni. Una quota mantenuta due anni dopo con Birnbaum e che si abbassò nel 2011 a 43 anni con Bice Curiger, ma anche la curatrice svizzera, come Storr e Birnbaum, al di là dell’anagrafe dei viventi, fece ricorso a illustri defunti (addirittura a Tintoretto). Il che è come voler puntellare «edifici» espositivi forse non così stabili con riferimenti affidabili e riconoscibili, veri e propri spiriti guida. Dunque la tendenza è in atto (lo stesso Bartolomeo Pietromarchi, nel Padiglione Italia, si tiene a distanza di sicurezza dallo sperimentalismo, ma lo si vede anche nelle fiere commerciali). Gioni non è un’eccezione, ma è significativo che un giovane curatore al di sopra di ogni sospetto (al New Museum le sue mostre sono sempre mirate all’attualità) nel momento in cui dirige una biennale (accadde anche a Gwangju) senta la necessità di appellarsi, oltre che alla storia, a un insieme di «saperi»non soltanto artistici. Lo ha fatto anche Carolyn Christov-Bakargiev a Documenta, affidandosi a un centinaio di maîtres à penser come consiglieri; lo rifà Gioni con gli autori dei testi in catalogo tramite un ampio ricorso alla filosofia. È come se, con tutto questo appellarsi a nonni e bisnonni e comunque ai saggi di turno, si denunciasse una crisi d’identità dell’arte più attuale. E, se non proprio una sfiducia nei giovani, emerge forse un certo scetticismo nella potenza intrinseca dell’opera d’arte, se mai come oggi, oltre alle didascalie sempre più diffusamente e lapalissianamente esplicative, per reggerne l’impatto espositivo sono indispensabili i pareri e le riflessioni dei non artisti. Li si spera capaci, questi, di collocare l’opera in una dimensione sostenibile, se non meno enigmatica, rispetto a un pubblico che, proprio negli anni di «crisi» (se tale è) dell’opera, ne affolla le sedi deputate con numeri da record.
Tramontati i tempi delle top list di «Cream» e altre classifiche, dove i critici integralisti si ergevano ad arbitri insindacabili del gusto, eccoci nell’era dei governi di coalizione. Ma non illudiamoci che riusciranno ad attuare le necessarie «riforme» a un sistema altrettanto stagnante, nei suoi meccanismi, di quello della politica italiana e dei suoi partiti: alla fine, chi governa, non sono gli Auriti o gli Jung, ma i Nauman e i Tino Sehgal.
da Il Giornale dell'Arte, edizione online, 31 maggio 2013