La figlia del falegname ha la memoria lunga
Roma. Risale al 1994 una grande retrospettiva di Louise Nevelson (1899-1988) a Roma, curata da Germano Celant a Palazzo delle Esposizioni. Dal 16 aprile al 21 luglio a proporre una nuova mostra della scultrice americana è il Museo Fondazione Roma nella sede di Palazzo Sciarra, curata da Bruno Corà in collaborazione con la Louise Nevelson Foundation di Filadelfia e la Fondazione Marconi di Milano (catalogo Skira). Sono esposte oltre settanta opere, prestate da musei stranieri, collezioni private, ma per la maggior parte provenienti dalla Fondazioni Marconi di Milano, nella cui galleria la scultrice tenne una personale nel 1972.
La mostra segue il filo rosso delle stanze tematiche, che meglio restituiscono il ruolo occupato dall’artista nella scultura moderna. Negli anni Cinquanta a New York, a fronte di colleghi che come lei indagavano nel territorio nuovo della Junk Sculpture, in altre parole l’arte dell’assemblaggio di materiali di recupero tipici dei centri urbani, la Nevelson preferì l’uso del legno e in particolare la costruzione di contenitori di oggetti, una sorta di libreria della memoria, come sembra suggerire la stesura di un colore monocromo su tutta l’installazione. A ispirare alla Nevelson l’utilizzo del legno concorse il suo vissuto personale. Il padre, ebreo ortodosso, commerciava legname a Kiev; quando emigrò, da solo, in America, Louise ne rimase traumatizzata. Nel 1905 lo raggiunse con il resto della famiglia, mentre il padre compiva la scalata al successo come costruttore e poi come agente immobiliare.
Negli anni Trenta, dopo la separazione dal marito, Louise si volse agli studi artistici, viaggiò in Europa, diventando allieva di Hoffman a Monaco, analizzò il lavoro delle avanguardie e dei loro protagonisti, tra cui Giacometti, dal quale apprese la forza di uno spazio immobile, solenne ma denso di avvenimenti. Divenne quindi assistente di Rivera a New York e a Città del Messico, dove scoprì la cultura precolombiana. La retrospettiva prende avvio dagli anni Trenta, con disegni e terrecotte, assemblaggi in legno dipinti di nero, tipici degli anni Cinquanta, come «Night Sun I» (1959, Fondazione Marconi, Milano). Seguono capolavori degli anni Sessanta e Settanta, tra cui «Column. Dawn’s Wedding Feast» (1959, The Menil Collection, Houston), incentrato sul tema duchampiano della sposa e del matrimonio e la più grande installazione in mostra, «Hommage to the Universe» (1968, da collezione privata). Il percorso termina con tre sculture dorate, colore utilizzato dai primi anni Sessanta, quando nel 1962 nel padiglione statunitense della Biennale di Venezia creò tre spazi segnati da un colore diverso: nero, bianco, oro.