Come devono cambiare i musei italiani?Iniziamo a sfruttarne i marchi
MILANO. Come ogni crisi che si rispetti, anche quella che stiamo vivendo sta giocando il suo ruolo nel mostrarci i nodi critici che rallentano - o interrompono - la nostra capacità di visione, di innovare e di migliorare.
Se parliamo di musei italiani, di nodi ne scopriamo molti e, a guardarli bene, si rivelano essere sempre gli stessi. Tra gli altri: una preponderante attività di conservazione rispetto alla produzione di nuova cultura, uno scarso orientamento alla diversificazione delle fonti di finanziamento, una bassissima capacità di monetizzare lo sfruttamento dei marchi.
Quest'ultimo punto è stato l'incipit della tavola rotonda organizzata da Marco Carminati al Terzo Summit Arte e Cultura del Gruppo 24 Ore, che si è tenuto ieri nel Palazzo di Renzo Piano in Via Monte Rosa.
Perché, a vent'anni dalla legge Ronchey, la maggioranza dei musei italiani non ha depositato il proprio marchio e attivato una seria strategia di valorizzazione dello stesso, combattendo anche il merchandising illecito delle piazze delle città d'arte? Forse, perché tale iniziativa sarebbe dovuta arrivare dal centro. E dall'alto.
In Francia, ha raccontato Anne Mény-Horn - amministratore generale aggiunto del Musée d’Orsay - «la svolta c'è stata con la pubblicazione di un rapporto sull'economia dell'immateriale commissionata dal Ministero per l'Economia e le Finanze, che ha dimostrato quanto lo sfruttamento dei beni immateriali fosse il settore con la più alta prospettiva di sviluppo».
Il rapporto è uscito a fine 2005, l'accordo per il Louvre Abu Dhabi[1] è stato firmato solo due anni dopo. Un tempo record, perché da quel rapporto è stata immediatamente istituita l’agenzia nazionale per la gestione dei marchi delle istituzioni pubbliche, che si è messa in moto per far fruttare il patrimonio immateriale dello Stato, ad esempio, gestendo lo sfruttamento delle immagini dei dodici musei dell’Agenzia Internazionale dei Musei di Francia, incamerando entrate e ridistribuendole ai musei. Una sorta di SIAE per la circolazione delle immagini e lo sfruttamento dei brand della cultura, che può rappresentare anche un importante centro di dati e informazioni per la misurazione del soft power francese.
Tornando in Italia, l’avvocato Gabriel Cuonzo ha tenuto a precisare che «le dimensioni sono diverse: in Italia abbiamo 200 musei statali, in Francia sono solo 30. Dal modello francese dobbiamo imparare che tutto è partito grazie al governo, che ha capito l’importanza della proprietà intellettuale, ma dobbiamo sviluppare un modello tutto nostro. In Italia il discorso non è “con la cultura non si mangia”, ma “ se non valorizziamo la cultura rischiamo di non mangiare”».
Su questi stimoli e chiedendosi se i musei italiani stanno andando verso la definizione di nuovi modelli culturali, si sono confrontati Mattia Agnetti, Segretario Organizzativo Fondazione Musei Civici di Venezia, Patrizia Asproni, Presidente Confcultura, Sandrina Bandera, Soprintendente e Direttore Pinacoteca di Brera, Angelo Crespi, Presidente Palazzo Te, Direttore Scientifico IED Venezia, Luigi Di Corato, Direttore Generale Fondazione Musei Senesi , Roberto Grossi, Presidente Federculture, Enrica Pagella, Direttore Palazzo Madama e Aldo Spivach, Responsabile Sviluppo Partnership Strategiche Google Italia.
Tra vecchie lotte – le difficoltà di Brera nella gestione dei servizi di guardiania, la burocrazia del Ministero, le troppe leggi – e nuove opportunità – la rete e gli strumenti di partecipazione diffusa – non è emerso un vero e proprio modello, ma alcuni temi chiave sono stati condivisi da tutti:
- consolidare gli esperimenti di governance iniziati negli anni ’90, a favore di quegli organismi (come alcune fondazioni di partecipazione) che centralizzano la gestione dei musei del territorio generando importanti economie di scala, migliorando i servizi erogati al pubblico e riducendo i tempi dal decision making all’implementation process in cooperazione pubblico-privato;
- comprendere che la sostenibilità di un’istituzione culturale non può essere solo economica ma deve essere in primo luogo sociale. I musei devono essere gli avamposti di nuovi modelli di sviluppo territoriale a base culturale, che operano per portare il patrimonio culturale a disposizione del cittadino. «Il digitale è una risorsa per la democratizzazione del patrimonio e perché il patrimonio possa ritornare verso la comunità come capitale sociale collettivo» ha spiegato Di Corato.
- sperimentare con la rete. Enrica Pagella è riuscita a far ripartire le acquisizioni di Palazzo Madama (interrotte dal 2008, con il crollo degli stanziamenti pubblici) con il crowd-funding e una ricca strategia di partecipazione della cittadinanza alla vita del museo di cui il 40% del pubblico è un pubblico di ritorno.
- insistere per la creazione e la conduzione di una seria politica culturale nazionale.
La strada si intravede. Prima, risolviamo i nodi.
© Chiara Tinonin
[1] Accordo firmato dall'allora Ministro francese della cultura Renaud Donnedieu de Vabres e dallo sceicco sultano Bin Tahnoon Al Nahyan con 525 milioni di dollari pagati da Abu Dhabi per essere associata al «brand Louvre», 747 milioni per le opere in prestito ricevute dai musei pubblici, le mostre speciali e la consulenza manageriale. Il nuovo museo donerà anche 25 milioni di euro al Louvre per rinnovare il patrimonio di opere internazionali di un’ala del Pavillon de Flore, e finanziamenti per un nuovo centro di ricerca artistico in Francia e per il restauro del teatro di Château de Fontainebleau, che prenderà poi nome dallo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan.