Il dio del bambù e lo spirito dell’agorà
Roma. In Giappone, nell’epoca Sung (960-1279 d.C.) influenzata dal buddhismo C’han, la pittura del bambù diventa una pratica spirituale. La tensione di questa pianta perenne verso il cielo, le parti cave tra i nodi, immagine della «vacuità del cuore», incarnano per il buddhista e il taoista il simbolo di un itinerario interiore. Per alcuni maestri il suo fruscio è segnale dell’illuminazione raggiunta. Per anni dediti a un’arte di area concettuale e alla fotografia, gli statunitensi Doug e Mike Starn si sono interrogati sulle ragioni per cui hanno individuato nel bambù l’elemento con cui costruire gigantesche architetture naturali. Il loro pensiero sembra coincidere con i principi buddhisti: «Il bamboo è l’invisibile della vita e di ogni cosa vivente. Ogni persona, ogni cultura è stata costruita con questa architettura e in questo modo le azioni diventano interazioni, le traiettorie intersecandosi danno luogo a crescita o cambiamento».
Dall’11 dicembre al Macro Testaccio è allestita la loro installazione «Big Bambú», vincitrice della sesta edizione di Enel Contemporanea, progetto promosso da Enel, la società che nel 2012 ha festeggiato il cinquantesimo compleanno, e curato da Francesco Bonami. Gemelli omozigoti, Doug e Mike Starn (1961) hanno lo studio a Beacon, nei pressi di New York. Nel 1987 s’imposero alla Biennale del Whitney, per poi entrare nella scuderia di Leo Castelli. La loro poetica verte su tematiche di interconnessione e interdipendenza, caos, tempo, sistemi e strutture organiche.
Nel 2010, sempre a New York, realizzarono «Big Bamboo: You Can’t, You Don’t and You Won’t» sul tetto del Metropolitan: una squadra di arrampicatori liberi unì oltre 7mila tronchi di bambù, fino a dare corpo a una specie di onda marina che raggiungeva 20 metri di altezza. L’opera che ha aperto la strada alla serie «Big Bambú» è stata «Sphere of influence» (1991), una sfera di cinque metri costituita da tubi di ferro, piegati attraverso la pressione di morsetti. «Il primo istinto è stato quello di utilizzare i tubi di metallo, spiegano i due artisti, ma alla fine abbiamo scelto il bambù perché in sintonia con la vita e la crescita. La costruzione può a prima vista sembrare casuale, ma non si deve confondere il caos con la chance, ogni posizionamento di un palo e ogni nodo legato è una serie di decisioni, prese dagli arrampicatori, durante il tempo necessario alla costruzione, forse nel corso di settimane o mesi. “Big Bambú” è insieme semplicità e la complessità».
Al Macro Testaccio gli Starn e la loro squadra hanno intrecciato circa 8mila tronchi di bambù balinese, del tipo più resistente, che permette all’opera, alta 25 metri, di durare il più a lungo possibile. Sono partiti da un’impalcatura di tre tronchi, impiegando funi colorate per dare risalto alle connessioni degli elementi. L’alternanza è regola: nessuno deve lavorare a lungo sulla stessa parte per non rendere ovvio lo sviluppo dell’installazione. Al suo interno è stata ricavata una sorta di agorà, dove si può sostare, incontrarsi, intrecciare progetti comuni, ma anche seguire dei percorsi al suo interno, come in un’architettura arcaica. Verrebbe da pensare che le opere degli Starn siano concepite in una forma che contrasti la concezione urbanistica di una metropoli, ma gli autori sono di altro avviso: «La crescita non strutturata è tutta intorno a noi, specialmente nelle città. “Big Bambú” permette una visione più ampia dell’evoluzione delle cose ed è nelle caratteristiche del bambù aiutare a rendere più chiara ogni situazione, soprattutto in questa fase di crisi epocale».
© Riproduzione riservata
da Il Giornale dell'Arte numero 326, dicembre 2012