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L’ampia visione di Eva

  • Pubblicato il: 10/11/2012 - 23:57
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

Nella settimana Torinese delle arti contemporanee, ad Artissima si incontrano le più importanti gallerie del mondo e i blue chip artists del sistema dell’arte globale.
In un sistema in cui si manifesta una sempre più grave discrepanza tra il valore economico e il valore culturale dell’arte, un posto di primo piano viene finalmente riconosciuto al ruolo educativo dell’arte che ad Artissima conquista un grande spazio: «Musei in mostra».
I più importanti musei e istituzioni culturali torinesi e piemontesi portano in fiera un’opera dalle loro collezioni mentre la rete dei rispettivi dipartimenti educazione, Zonarte, propone approfondimenti e attività per «capire l’arte», un tentativo di  significazione che nella sua millenaria irrisolutezza si carica di profondo senso.
Ad Artissima anche Resò, il programma di residenze per giovani artisti nato nel 2010 dalla collaborazione tra le principale istituzioni per l’arte contemporanea della Regione e la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT e che promuove lo scambio tra gli artisti del territorio che vengono ospitati da istituzioni straniere e artisti stranieri che arrivano in Italia ospiti delle istituzioni partner. In mostra tra gli artisti della seconda edizione Eva Frapiccini che racconta la sua esperienza al Cairo presso Townhouse Gallery.

Il progetto Resò costituisce una grande opportunità di formazione per giovani artisti piemontesi: allontanarsi dal proprio territorio per esplorare le possibilità di nuovi orizzonti.
Raccontaci la tua esperienza al Cairo presso Townhouse Gallery. Un Paese che vive grandi stravolgimenti politici e sociali. Come ha influenzato e arricchito la tua ricerca artistica?
La mia esperienza di vita al Cairo è meravigliosamente indefinibile, e vorrei restasse così.
Al mio arrivo ho dovuto far fronte a una metropoli di 20 milioni di abitanti, che non si fermano mai.
I negozi restano aperti dalle 10 del mattino all' 1 di notte e il rumore del traffico coi suoi clacson cessa alle 5 del mattino, e solo per un paio d'ore. In questo vortice di suoni e luci si sono aggiunte le prime elezioni politiche dopo 30 anni di dittatura. Questo vuol dire trovarsi a vivere un momento importante della Storia di un Paese. Ogni giorno gli slogan delle manifestazioni entravano dalla finestra del mio appartamento e mi richiamavano al presente, all'attualità dell' Egitto. Tutte le conversazioni coi miei amici artisti e curatori di origine libanese, egiziana, palestinese mi sono servite a togliermi in parte gli occhiali da europea.
Mentre esploravo la città, munita dal mio Ipod anti-harrassement, ho iniziato una ricerca sul rapporto tra il potere e l'architettura egiziana e grazie a questo progetto ho conosciuto i ragazzi della Cinematèque e del collettivo Mosireen (trad. I determinati), e ho visto che la rivoluzione non è più in piazza Tahrir, è una lenta onda di cambiamento spinta dai giovani, che si organizzano, filmano, fotografano e denunciano su Twitter gli abusi della polizia. Con loro ho iniziato a capire che per noi è impossibile leggere la situazione politica, perché molte delle notizie e delle decisioni sono ben confezionate per il pubblico.
Al Cairo il confine della porta di casa è molto importante per una donna bianca e bionda, senza uomo al fianco, e senza bambini per mano. Non è facile far capire ai passanti, o all'egiziano medio, che tu sia lì per lavorare e non per essere «corteggiata». Diventa difficile camminare, figuriamoci fare riprese o fotografare. Quindi ho passato due settimane a portare dentro il mio confine casalingo il Cairo, per tessere collaborazioni, e farmi conoscere come professionista.
Questa doppia realtà pubblico/privato mi affascina molto, ed è sempre presente nella cultura egiziana. Tutte le ragazze che ho conosciuto cambiano completamente, quando sono in casa, o tra donne, e quando in strada, o con uomini.
Così come il visibile e l'invisibile sono ugualmente importanti, la difficoltà per me stava nell'aggirare gli ostacoli della religione e della differenza di genere, in cui vengono educati gli egiziani. Ma con il progetto di archiviazione dei sogni sono tornata alla tradizione egiziana della lo interpretazione, già presente nella cultura degli antichi egizi.

Quale invece il ruolo di Torino?
Torino mi ha permesso di sperimentare, grazie al basso costo della vita, come a Berlino. A Torino si allarga il campo di azione per un artista. Inoltre, a Torino, ho molti amici e i miei affetti sono la mia casa. Io sono nomade, potrei vivere e lavorare ovunque, negli ultimi 18 anni ho vissuto in 7 città e cambiato più di 30 case. Ogni luogo per me è casa, mi basta potermi mantenere da sola. Se hai radici profonde e hai cose da dire, puoi andare ovunque.

Come nasce Dreams' Time Capsule?
«Dreams' Time Capsule» nasce dall'esigenza di testare il concetto di inconscio collettivo junghiano. Perchè? Perché mi interessa capire se al di là della diffusa colonizzazione delle merci, qualcosa di diverso e più intimo, oggi, associ gli uomini e le donne, gli archetipi. La mia ricerca, ruota attorno all'invisibile e alla memoria collettiva rimossa o nascosta. Durante la preparazione della mia personale alla galleria Peola, ho iniziato a riflettere a quanto sapere non consideriamo importante, o come sostiene il regista Watkin, come il linguaggio della trasmissione di nozioni ormai determini la sua veridicità. Quindi sono tornata alle fonti dirette, alla raccolta di testimonianze e, oltre al sapere «convenzionale», raccolto nelle biblioteche e nei server, mi affascina l'idea di un archivio di immaginari, intimi e sinceri come le nostre esperienze oniriche.
Vivi e lavori tra Rotterdam e Torino oltrepassando costantemente confini non più politici ma di sicuro identitari, spesso ancora forti nel nostro Paese, legati a una tradizione e una storia molto radicate.
Negli ultimi mesi, tra il Cairo e il mio contratto di insegnamento in accademia, non sono tornata spesso in Olanda. E non so se tornerò. Vado dove mi porta il mio lavoro. Io apprezzo l'efficienza del sistema artistico olandese ma sono lontana dall'estetica della maggior parte delle mostre, legata ad aspetti esteriori, o estetizzanti del reale. I confini esistono, ma la vera ricchezza è capire perché esistono e decidere quali varcare, quali tenere come radice. Ciascuno sa che cosa è meglio per sé stesso, non mi interessa l'etichetta dell'artista che vive all'estero, penso sia meglio far parlare i lavori.

Com’è l’Italia – e la tua città in particolare - vista da fuori e come vista da dentro? Cosa da e cosa toglie ad una giovane artista il nostro territorio?
In Italia, dal 2008 le cose sono progressivamente peggiorate: per chi ha quasi dieci anni di mostre alle spalle, come me, ma soprattutto per gli emergenti, che non hanno più visibilità, se non pagando. Solo a Torino, è scomparso il workshop con visiting professor «Proposte», gratuito e promosso dalla Provincia; e la mostra collettiva con rimborso spese, «Nuovi Arrivi», promossa dal Comune e dal Gai. Se scompaiono queste prime opportunità di visibilità c'è da chiedersi come può emergere, un artista. E infatti fioccano i concorsi a pagamento, piccole quote.
E’ passata l'idea che fare l'artista è un lusso, o forse in Italia non è mai scomparsa. Senza una politica di sostegno sia i giovani che i mid-career sono condizionati nella loro produzione artistica. Ne risultano solo pezzi per la vendita, non progetti di ricerca. Questa è una situazione tutta italiana.
All'estero essere italiano diviene sinonimo di «zero budget», questo ci fa essere europei solo sulla carta, e non passa inosservato alle istituzioni che mi invitano per i miei lavori. Perdiamo prestigio.

Ne «La storia che non ho vissuto» - la collettiva al Castello di Rivoli in cui sei protagonista insieme a Francesco Arena, Rossella Biscotti, Patrizio Di Massimo, Flavio Favelli, goldiechiari e Seb Patane - ti poni come testimone indiretto di anni cruciali nella storia del nostro Paese, che ovviamente per la tua giovane età non hai vissuto.
Cosa ti ha spinto ad indagare quei luoghi «pubblici» ma che rievocano momenti delicati e intimi (privati) in coloro che vissero direttamente quei drammatici anni?
Avevo l'esigenza di conoscere Torino, avevo vinto l'unica borsa di studio per studiare Fotografia, ma la città mi respingeva. Venivo da Bologna, molto accogliente per gli studenti. Per la prima volta mi sono sentita immigrata, quindi ho cercato di scoprire la storia delle sue vie, mi sono chiesta se può rimanere una traccia di un fatto avvenuto nel passato. Ho pensato che una morte violenta segna più di altre, e di qui ho indagato gli omicidi durante il terrorismo di sinistra solo perché era un periodo e un fenomeno a me sconosciuti. Una serie di corollari. Man a mano che procedevo nelle ricerche d'archivio, ho seguito il progetto. Il mio metodo era tornare alla stessa ora e nello stesso mese, per cercare di «sentire»» di più l'episodio, nella sua dinamica.

Cosa vuole e può restituire il tuo sguardo distante (nel tempo)?
Non so, non credo ci sia un fine. Ho capito che tra gli articoli di giornale che mi hanno accompagnato e il mio indagare il posto, lo spazio fisico, c'è la stessa domanda: avvicinarsi per capire meglio. Di fatto, rimane una domanda senza risposta. Perché le cose accadono, e non si comprende tutto. Rimane l'evento, il fatto, persino una fascinazione per l'evasione dal normale corso delle cose, fascinazione mia, fascinazione dei giornalisti di 30 anni fa. Questo ci riporta al passaggio della storia, e in qualche modo ridimensiona l'individuo all'interno di un meccanismo più grande. Come diceva Jung «con la crisi dei valori del cristianesimo, l'europeo ha perso la sua fede nell'ignoto e quindi passa da momenti di super-ego a momenti di frustrazione e annichilimento. Si può abbracciare la scienza, o altri sistemi di pensiero, ma è importante mantenere una visione più ampia dell'esistenza».

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