Gae Aulenti (1927-2012): la natura etica del mestiere di architetto
Non si può uscire dal Museo d’Orsay senza sentire pareri contrastanti. Come ogni architettura che segna un tempo, anche la ristrutturazione dell’antica stazione ferroviaria schiera e divide i suoi visitatori. Lo fece da subito, perché l’allestimento inaugurato nel 1986 andava ben al di là dell’ordinamento di pur famosissime opere d’arte: costruiva dentro uno spazio una sua architettura. Lo faceva mutando radicalmente il volto dell’architettura di Victor Laloux. Imponendosi con strutture che erano, anche formalmente, il contrario dell’architettura in ferro e vetro che la precedeva. Gae Aulenti aveva un segno forte come architetto. E «costruire dentro» rimase una sua scelta progettuale e formale, come testimonia , forse con ancor più evidenza, il Palavela di Torino, realizzato per le Olimpiadi torinesi del 2006 e tutt’altro che mimetizzato sotto la vela di Franco Levi. Un edificio che ha generato prese di posizioni forse ancor più radicali. A Torino aleggia ancora la nostalgia per quei pochi mesi in cui la vela era stata liberata dal progetto di Annibale e Giorgio Rigotti e si stagliava monumento, non architettura, nei prati , un po’ desolati, di Italia ’61. Un segno forte che trova forse la sua espressione più compiuta nel Museu National d’Art de Catalunya di Barcellona. Questo museo dalla lunga gestazione, dal 1985 al 2004, fondamentale per la sempre più ricercata identità catalana, rivoluziona l’allestimento precedente, segnando quegli spazi eclettici, con forme geometriche che non concedono mimetismi o ammiccamenti. Anche in questo caso, lo stacco tra l’edifico e il museo non potrebbe essere più forte.
Gae Aulenti riesce a caricare le sue architetture di valori simbolici persino quando gli elementi del progetto sono pannelli solari, come nella scuola di Perosa Argentina, dove questi ormai inseparabili compagni del nostro paesaggio contemporaneo diventano vele triangolari, o quando, come nella Old Library di San Francisco, che ospita dal 2003 l’Asian Art Museum, dove il segno forte è questa volta lo scavo dei cortili, per ricavare quelle gallerie urbane coperte da lucernari che segnano il carattere di quest’architettura. Gae Aulenti esprimeva un’idea molto netta e, se si può dire, monumentale dell’architettura, anche quando - come nel caso del riallestimento delle scuderie papali al Quirinale a Roma - trionfa il bianco, il colore che meglio interpreta la ridefinizione geometrica di spazi che davvero nulla, anche in questo caso, condividono con la storia precedente.
Un’idea singolare per un architetto che nasce alla professione nella Olivetti post Adriano, disegnando showroom e continua in questo mestiere che condivide con alcuni dei più importanti architetti italiani, come Scarpa, lavorando successivamente per la Fiat e poi per molte industrie del mobile lombarde. Gae Aulenti ha in realtà posto per più di trent’anni alla cultura architettonica - e non solo - italiana un problema scomodo: l’essere architettura - e con pari dignità - anche il progetto di interni, come per altro avevano già fatto trionfare, all’inizio della nostra modernità, i fratelli Adam. Purtroppo oggi nelle facoltà di architettura italiane il dilagare di anglismi ha fatto diventare tutto design: il mobile, l’arredo, il progetto di architettura di un interno. Con il nome - architettura d’interni - è però quasi scomparso anche l’insegnamento, consegnando torme di laureati ad un mestiere da apprendere facendo spesso desolanti bizzarrie a troppi inerti clienti.
La scelta per il carattere monumentale, quasi corporeo, dell’architettura degli interni, ben si sposava con la difesa, rivendicata sino al suo ultimo intervento pubblico, due settimane or sono, della natura etica del mestiere di architetto. Molto più del suo essere donna in un ambiente fortemente maschilista, era questa rivendicazione a segnare i tratti di un comportamento schivo, quasi scorbutico. Come per quelli che con una semplificazione si chiamano gli architetti rivoluzionari, Boullée su tutti, la forma geometrica e la scelta monumentale erano strettamente connessi alla dimensione etica dell’architettura, di un’architettura civile, per ritornare non solo e non tanto alla società milanese in cui era cresciuta e viveva, ma alle radici illuministe di questo suo modo di essere architetto. Come per l’architettura degli interni, anche questo rimarcare con tanta forza e insistenza, la natura civile dell’architettura scricchiola oggi fortemente in facoltà di architettura attraversate, in tutto il mondo, da formalismi tecnologici e tecnocratici di quasi ogni tipo. Certo che poi sia una donna architetto a rigettare la palla nel campo dell’etica fa ancor più pensare e sottolinea la caratura intellettuale di Gae Aulenti.
da Il Giornale dell'Architettura, edizione online, 3 novembre 2012