La cultura & la crisi
La crisi sta ridefinendo i parametri e gli standard che regolano i singoli territori della vita collettiva in Italia, compreso quello culturale.
In autunno, l’amministrazione comunale di Faenza ha dichiarato di non voler più ospitare il festival dell’arte Contemporanea, un evento che era riuscito a proiettare la cittadina romagnola e la sua identità su uno scenario internazionale. Più di recente, in un succedersi quasi vertiginoso di annunci drammatici da parte di istituzioni ed amministrazioni, il Museo Riso di Palermo ha annunciato la chiusura, smentita a gran voce dalla Regione, a causa di fondi europei (12,5 milioni di euro) che misteriosamente si arenano e della mai avvenuta attivazione della Fondazione (istituita sin dal 2010); il MADRE di Napoli, nella bufera da tempo, ha licenziato il suo direttore e pare prossimo alla chiusura, a meno di clamorosi sviluppi; la Galleria Civica di Trento si avvia ad entrare nell’orbita del MART di Rovereto (attraverso una joint venture di cui non si conoscono ancora i dettagli), perdendo di fatto la sua autonomia. Infine, oscuri presagi si addensano sul MAN di Nuoro dopo alcune allarmanti dichiarazioni della Provincia, mentre il Castello di Rivoli, anch’esso al centro di pesanti polemiche negli ultimi mesi, dovrebbe entrare a far parte della “super-fondazione” per l’arte attesa per febbraio. E potrebbe essere solo l’inizio di una valanga iper-negativa per il contesto culturale nazionale, già molto disastrato da un trentennio almeno di vessazioni, imposizioni e negligenze.
Tutto questo mentre in altri Paesi europei (tra gli altri Francia, Regno Unito, Svizzera, Nordic Region-Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda), proprio nel bel mezzo della crisi socio-economica più grave dal 1929 e pur tra enormi difficoltà, si tentano spesso con successo strategie alternative di sostegno all’arte ed alla cultura. Che contemplano, per esempio, modalità intelligenti e innovative di fusione intelligente tra risorse pubbliche e private, oppure l’attivazione di distretti e network, nazionali ed internazionali, interamente dedicati alle imprese creative. Ponendosi dunque sempre nell’ottica di un’economia, e (soprattutto) di una società, della conoscenza.
E da noi? Gli eventi citati sopra sono figli di quella cultura dell’emergenza che da parecchi decenni ormai affligge la nostra società. Di una visione (o di un’assenza di visione) ampia ed asfissiante, che si può sintetizzare così: “in questo momento, ci sono cose ben più importanti a cui pensare: ci dispiace, ma non possiamo pensare anche alla cultura”. Il pensiero sottinteso è, naturalmente: la cultura è un lusso, un bene voluttuario, un “vuoto a perdere” che non ci possiamo più permettere.
Non ci potrebbe essere quasi nulla di più sbagliato e controintuitivo, proprio in un momento del genere. Ridurre, comprimere, soffocare, eliminare la produzione e la fruizione culturale vuol dire, molto semplicemente, segare il ramo su cui si è seduti. Cancellare le proprie chance presenti e future; condannarsi all’impermanenza.
È un errore grossolano e pericoloso, come quello - purtroppo molto diffuso - di pensare che la crisi prima o poi passerà. Che sia solo, in definitiva, una sospensione dell’ordine naturale delle cose, del loro stato normale. E che, una volta trascorsa, quello stesso ordine si ristabilirà. No. Nulla tornerà come prima. E sta a noi, solo a noi, decidere come sarà la realtà del dopo.
La crisi (come indica l’etimologia stessa del termine κρίσις: distinzione, valutazione, discernimento) è la transizione consapevole da uno stato della realtà ad un altro, inevitabilmente diverso. La crisi è una soglia, e al tempo stesso una trasformazione. Che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la nostra percezione del mondo. E non c’è nulla come la cultura che riesca ad assolvere questa funzione, nella maniera più completa ed efficace. La cultura ci addestra a trovare soluzioni inedite a problemi che ci paiono insormontabili, mutando i punti di vista sui fenomeni, stabilendo connessioni tra eventi e idee, articolando livelli molteplici di interpretazione.
Del resto, sono proprio le epoche di crisi quelle in cui nascono e fioriscono i più grandi ed ambiziosi progetti culturali. Peter Sloterdijk ci spiega come la fondazione nel 387 a.C., da parte di Platone, della prima Accademia della storia fosse di fatto una potentissima e sublime reazione culturale al fallimento della pólis. E, come scriveva Eugenio Garin nel 1964, il Rinascimento non è affatto il riflesso di una società ideale, ma un progetto collettivo che nasce in risposta a traumatiche mutazioni storiche ed economiche: “Nato sul terreno della cultura, e soprattutto su quello dell’arte, solo su quel piano il moto rinascimentale mantiene il suo valore “positivo” di conquista e di affermazione di certi valori umani, di certi progressi teorici e morali, contro una realtà che li negava, in un mondo in travaglio agitato da crisi profonde. I regni di Saturno, l’età dell’oro, sono vagheggiati con maggiore forza proprio perché sembrano tanto lontani dalla terra” (La cultura del Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 2006, p. 12).
È abbastanza chiaro che l’esigenza di far rinascere una civiltà si manifesta proprio quando un’altra sta morendo, o è già morta. È inutile e dannoso tergiversare sulla soglia, per paura di ciò che c’è al di là: occorre attraversarla.
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Christian Caliandro, storico dell’arte contemporanea e studioso di Cultural Studies, è docente di “Media e narrative urbane” presso l’Università IULM di Milano. È autore, con Pier Luigi Sacco, di “Italia Reloaded. Ripartire con la cultura” (Il Mulino 2011).