Re-immaginare le politiche culturali dei musei ecclesiastici
In quella occasione ho ricordato come nell’immaginario collettivo il termine museo sia ambiguo, certamente polisemico, ma comunque raramente associato al futuro. Ho richiamato la definizione di museo dell’ICOM del 2007, ovviamente ho esaminato la Lettera Circolare della Pontificia Commissione di Arte Sacra emanata nel 2001 e l’Accordo di collaborazione tra MIBACT e AMEI sottoscritto nel 2016.
Quest’ultimo, all’articolo 4, descrive le azioni programmatiche e strategiche e tra l’altro afferma:
1. Le azioni volte a dare seguito alle finalità di cui al precedente articolo 3 sono individuate prioritariamente nelle seguenti:
a) favorire progetti culturali mirati a promuovere efficaci attività di tutela, conservazione, ricerca, valorizzazione e ottimizzazione della fruibilità del patrimonio culturale custodito dai Musei ecclesiastici, in stretta connessione con il territorio e con gli edifici di culto ai quali tali beni afferiscono;
Oltre quindi ai compiti di tutela, corretta conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico, propri di ogni istituzione museale, i musei ecclesiastici devono porsi come obiettivo quello di restituire all’oggetto esposto la memoria della sua funzione originaria, così da farne emergere il duplice significato artistico e religioso, ricucendo il nesso:
- sia con la comunità territoriale cui il bene apparteneva;
- sia con lo spazio sacro per il quale fu realizzato.
Sempre nel mio precedente intervento avevo richiamato il dizionario Treccani della lingua italiana - ed. 2016 – che definisce il territorio nel diritto e nell’etologia:
- diritto
- etologia
Queste due definizioni ci aiutano dunque a delineare il territorio come: una porzione di terreno di una estensione definita che costituisce:
a) un’unità giurisdizionale e amministrativa che identifica;
b) un’area difesa da un individuo o un gruppo animale omogeneo dall’ingresso di individui considerati estranei della stessa specie.
Tale definizione teorica oggi è in crisi, direi addirittura superata nella realtà. A questo proposito Giuseppe Galasso in un editoriale pubblicato domenica 19 novembre 2017 su Il Sole 24Ore dal titolo Identità e pluralità che fondano l'Italia ricorda che “… le comunità umane, gli stati, le nazioni sono certamente influenzati da fattori che dipendono dalla loro collocazione geografica e strategica, ma rimangono sostanzialmente il frutto di processi storici. Questi ultimi sono il risultato del lavoro che gli uomini hanno sempre fatto per trovare condizioni di vita più soddisfacenti. Comunità territoriale dunque come scelta di gruppo e non come imposizione di caratteri predeterminati dallo spazio e dalla natura, campo della libertà e non dell'obbligo alla coabitazione. Stati e Nazioni sono dunque il frutto della pluralità che è naturale figlia del tempo e non del marchio originario di una stirpe”.
…dunque…
Quale territorio per quale museo?
Di fronte a questa articolazione della contemporaneità la reazione istintiva di molti è conservatrice, va nella direzione di rappresentare il vecchio nel nuovo attraverso riedizioni nostalgiche, declinate con forme rassicuranti e facilmente riconoscibili; lo slogan potrebbe essere: avanti … verso il passato.
Dall’America di Trump alla Turchia di Erdogan e all’India di Modi, dalla Brexit all’Est Europa: ci si rinchiude nei valori della tradizione, si cercano le radici ancestrali.
Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso abbiamo iniziato a galleggiare: riusciamo forse ad arginare alcune falle nel presente, ma non a pensare e progettare il domani.
In questo clima politico e culturale segnato dall’incertezza globale e dalla crisi della modernità, dalle pratiche di interdipendenza, non da luoghi ma da iperspazi, parlare di identità territoriale potrebbe sembrare un’impresa fuori tempo e persino reazionaria.
Considerando la frequenza con cui viene citata – da amministratori locali, politici, associazioni, parti sociali e imprenditori, piuttosto che da comitati di cittadini – di identità territoriale è invece necessario parlarne, affinché di questo concetto rilevante se ne faccia un uso consapevole, così che da problema si traduca in opportunità concreta di miglioramento per i territori e le collettività che li abitano.
Una considerazione dell’antropologo indiano Arjun Appadurai, nel libro La grande regressione, mi ha particolarmente colpito: “in assenza di un’economia nazionale di cui gli stati moderni possano rivendicare la protezione e lo sviluppo, non sorprende la tendenza generale, nei paesi a guida autoritaria e in molti ambiziosi movimenti populisti, a declinare la sovranità nazionale nei termini della cultura identitaria, del nazionalismo etnico….”. In altre parole, la perdita di sovranità economica spinge ovunque a enfatizzare la sovranità culturale.
La cultura dunque viene utilizzata non come strumento di conoscenza oggettiva del mondo, di dialogo e inclusione, ma bensì di chiusura e separazione; non come pietra per lastricare la strada, ma bensì per erigere le mura e non riuscendo più lo Stato ad avere una sovranità economica, si serve della cultura: identità culturale per una identità nazionale; qui risiede l’equivoco.
L’identità territoriale
Che cosa si intende per identità?
Identità significa la coincidenza di una cosa - “res” - alla sua rappresentazione/descrizione, l’immagine reale che di essa si ha; la coincidenza tra l’oggetto e la sua descrizione (la sua carta d’identità). Identità territoriale è allora la fotografia di un territorio descritto per come è configurato.
Identità e uniformità/omogeneità quindi sono termini che esprimono due categorie mentali diverse e non assimilabili.
Se invece facciamo coincidere identità e identità territoriale con uniformità/omogeneità, allora poniamo una serie di preconcetti che sfalsano la descrizione che di quel territorio noi abbiamo.
E’ interessante a questo proposito interrogarsi sul rapporto tra interpretante e realtà oggetto di interpretazione.
Nella recente geografia umana l’identità è concepita come sopra abbiamo descritto: sempre in riferimento alle specificità dei territori e dei legami che intercorrono con le comunità che li abitano e sottolineandone, a differenza del passato, il carattere processuale e dinamico, la costruzione sociale che ne è alla base, l’impostazione aperta, complessa e plurale.
Il geografo Giuseppe Dematteis afferma che i processi di ridefinizione in atto non portano al superamento dell’identità territoriale, ma piuttosto al cambiamento dei suoi principi e delle sue logiche, con l’affermarsi di nuove territorialità attraverso cui essa si costruisce e si rappresenta1.
L’identità territoriale quindi non si definisce più solo sulla base della prossimità culturale dei soggetti, non si crea per condivisione passiva di un certo territorio, ma deriva da un’azione sociale, dall’agire in comune dei soggetti nella costruzione di progetti collettivi, dalla mobilitazione degli interessi dei gruppi e delle istituzioni territoriali, da un processo di costruzione collettiva a partire dal livello locale.
L’attenzione, in Italia in particolare, si deve rivolgere agli ambiti locali del Paese – corrispondenti a un quartiere urbano piuttosto che a un aggregato di pochi comuni - ma tutti rilevanti nella prospettiva dell’identità territoriale, perché è a questa scala che le priorità programmatiche delineate a livello internazionale (in particolare quelle riconducibili alla sostenibilità, alla valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, alla tutela del paesaggio, alla partecipazione ai processi decisionali, che vedremo nei capitoli successivi) si intrecciano a quell’insieme di vissuti, esperienze e pratiche quotidiane che fanno del territorio locale un luogo, ovvero uno spazio di significazione collettiva.
Prendersi cura dei luoghi, dunque, come assunzione di responsabilità, come coscienza di luogo, concetto che rimanda al pensiero di Heidegger (1976) e alla pratica dell’imparare ad abitare. In un suo scritto il filosofo tedesco sostiene che “progettare è, nel suo essere, abitare. Soltanto quando abitiamo possiamo progettare…”.
Entro quali margini allora è possibile parlare oggi di luogo collettivamente inteso, considerando il territorio nella prospettiva di chi lo abita, lo pratica, oltre che di chi ne parla in teoria?
Luogo generativo: la nuova identità
Mentre il territorio è una entità geografica/spaziale, il luogo è un'entità socio-culturale e quindi rendere “luogo” un territorio, significa lavorare sulla valorizzazione dell’identità culturale - così come l’abbiamo sopra descritta - sulla conoscenza del paesaggio e sulla qualità dell’ambiente, che non possono limitarsi alla protezione passiva, ancorché indispensabile, ma richiedono impegno politico, culturale e tecnico affinché il luogo diventi generatore di nuove identità e valori e non solo attrattore di turisti e testimone del passato.
Le colonne di questo processo sono: la Cultura, la Comunicazione e la Cooperazione .
- La Cultura è il fattore primario della generatività poiché è una risorsa che affonda le radici nella storia dei territori e dei paesaggi e protende i suoi rami nel futuro. Le risorse culturali, quindi, non si devono limitare ad attraversare la storia e l’arte, non si devono accontentare di attivare eventi e manifestazioni temporanee, ma debbono costruire luoghi e occasioni di incontro per la comunità, articolarsi in servizi.
- Il secondo fattore di generatività è la Comunicazione, cioè la capacità di informare, divulgare e coinvolgere in tempo reale gli abitanti e, sempre di più, i molteplici fruitori che attraversano i luoghi, che li permeano, che li connettono con altre realtà, in una sempre più vasta rete culturale globale.
- Infine, il terzo fattore, collegato ai due precedenti, è la Cooperazione, intesa come forma attiva di partecipazione, di integrazione tra le differenze, nella comune tensione verso la collaborazione. Il luogo generativo non è solo aperto, multiculturale e multietnico, ma è capace di mobilitare le sue diversità verso il nuovo progetto di comunità, realizzando luoghi di prossimità dove agevolare il confronto, individuando nuove “identità multiculturali”.
In questa prospettiva i musei possono svolgere il ruolo di facilitatori del processo generativo, comunicando la storia in forme nuove e con linguaggi adatti ai diversi tipi di pubblico, interagendo con i cicli di vita della comunità e con i modelli di sviluppo, lavorando su modelli di gestione efficaci, in grado di farli agire come propulsori della qualità della vita degli abitanti, e non solo dei turisti.
Così il luogo diventa il genoma su cui costruire un futuro migliore: diviene generativo di sviluppo sostenibile, di nuovo paesaggio, custode della memoria e tutore della storia, generatore di nuove economie della cultura e non semplice attrattore di risorse intellettuali o di investimenti.
A titolo esemplificativo, in questa dinamica di identità territoriale multipla dove il museo entra nella società e può dare un contributo di comprensione, invito a conoscere il progetto di Paola Antonelli già direttrice di dipartimento al MoMa, presentato in una sua intervista de Il Sole24ore di domenica 29 ottobre 2017 dal titolo “Così il museo entra nella società”.
Provocatoriamente ritengo che l’equipe museale debba avere una caratteristica fondamentale che sintetizzo con una metafora: restare bambino.
Platone nel Timeo presenta un vecchio sacerdote egizio che dice a Solone: “voi Greci siete sempre bambini” e con questa affermazione intende esprimere la vitalità intellettiva, spirituale di quel popolo. Esiste una gioventù e una vecchiaia dei popoli (…)
Re-immaginare le politiche culturali dei musei ecclesiastici
Richiamo le riflessioni strutturate all’interno di “Re-shaping Cultural Policies” (2015), il rapporto dell’UNESCO sulle politiche attive per il patrimonio culturale materiale e immateriale come motore di sviluppo sostenibile, creativo e intelligente. Il Rapporto attualizza e valuta l’impatto della “Convention on the Protection and Promotion of the Diversity of Cultural Expressions” (2005) sulle politiche, piani e programmi orientati allo sviluppo culturale sostenibile.
Il documento sostiene la necessità che le imprese culturali e creative siano integrate nelle politiche per la sostenibilità. La pianificazione deve, con sempre maggiore impegno, riconoscere il contesto culturale in cui i piani di sviluppo sono messi in atto, attivando il ruolo dinamico che le imprese culturali e creative (e i musei ecclesiastici lo sono) possono svolgere nel raggiungimento degli obiettivi economici e sociali sia a livello locale che regionale. Un principio essenziale dello sviluppo culturalmente sostenibile sottolineato dall’UNESCO è l’equità nei confronti dei gruppi più vulnerabili della società, attuando strategie mirate per superare lo svantaggio nell’accesso alla partecipazione culturale, ma anche incrementando la vigilanza per garantire che le politiche culturali in alcuni settori – soprattutto quelle relative alla valorizzazione – non abbiano effetti collaterali negativi, riducendo l’ampiezza degli effetti nei confronti del capitale sociale. Il Rapporto, quindi, invita i governi, i tecnici e le comunità a re-immaginare le politiche culturali, rimodellandone le componenti costitutive al fine di attivare adeguate progettualità culturali e creative in grado di produrre i necessari fattori abilitanti dello sviluppo sostenibile.
In sintesi una cultura che si proponga come servizio, non come affermazione di dominio, come strumento per una maggiore consapevolezza dei valori comuni tra le comunità, per disegnare gli spazi di un luogo di contaminazione generativa.
La metafora della contaminazione
In italiano il termine contaminazione indica l’atto di condizionare qualcuno, spesso accostato ad una malattia virale.
Da questo concetto il contenuto che gli attribuiamo si può ampliare fino ad assumere i connotati di un manifesto che sintetizzi i contorni di una accresciuta maturità, tanto personale quanto sociale; come un invito ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita, per potenziare le nostre capacità di intelligenza della realtà e di resilienza.
Un fatto poco considerato, seppur interessante a questo proposito, è che nel secolo scorso a tutte le epidemie sviluppatesi a livello globale sono corrisposti periodi di cambiamenti politici e sociali.
Se la contaminazione si diffonde attraverso il contatto e l’interazione sociale, allora il suo antidoto – come un vaccino – può verosimilmente trovarsi nella sua stessa logica di trasmissione da persona a persona: ovvero nella capacità di ciascun individuo di compiere scelte generatrici che condizionano altri individui: questo è il potere anche di un gruppo che dal basso può influenzare il cambiamento.
Contaminazione come sintomo ma anche come cura, come piattaforma di dialogo plurale per mediare attraverso molteplici punti di vista e in questo senso i nostri musei possono diventare luoghi di sperimentazione generativa.
Estratto dal convegno AMEI – Associazione Musei Ecclesiastici italiani “Costruire ponti per il dialogo interculturale e interreligioso
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