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Dario Franceschini: addio a quota 50 (in euro 200 milioni)

  • Pubblicato il: 16/03/2018 - 08:01
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Alessandro Martini, da Il Giornale dell'Arte nr 383, febbraio 2018

Numeri record di visitatori e introiti. Sui musei il ministro concentra la sua ambizione di lasciare un segno permanente
Rubrica di ricerca in collaborazione con il Museo Marino Marini


Roma. Dario Franceschini: «Il bilancio della riforma dei musei è davvero eccezionale: dai 38 milioni di visitatori del 2013 ai 50 del 2017. Record per l’Italia, ottimi risultati nel Mezzogiorno». Opposto il contenuto della lettera aperta di 80 accademici ed ex funzionari del Mibact: «Franceschini svende la cultura. Sistema nel caos».

Se a inizio gennaio il ministro uscente, grazie all’annuncio dei musei statali in crescita esponenziale di visitatori e di introiti, aveva catalizzato l’attenzione della stampa, quasi altrettanto riscontro si sono guadagnati gli studiosi ed ex soprintendenti (da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo) che hanno pubblicamente criticato proprio Franceschini. Anzi, in particolare, hanno attaccato quella riforma di cui il ministro è vero e, politicamente, unico artefice: una riforma a cui Franceschini, nel momento di lasciare dopo quattro anni il Mibact, non soltanto attribuisce il successo dei musei statali («+5 milioni di ingressi e +20 milioni di euro dal 2016 al 2017», con oltre la metà degli ingressi totali concentrati proprio nei suoi «supermusei»), ma a cui intende consegnare le proprie ambizioni politiche: sarà la «riforma Franceschini» a garantirgli quel ruolo «storico» negato alla stragrande maggioranza dei suoi predecessori, perlopiù dimenticati? Non pare uomo che si accontenti dei pur lusinghieri successi letterari (è da poco uscito Disadorna e altre storie, La Nave di Teseo) e neppure della Légion d’honneur assegnatagli per bonus cultura e caschi blu.

Il ministro e i «suoi» musei

Non stupisce quindi che la più recente comunicazione di Franceschini dedichi ampio spazio ai musei statali. I numeri paiono dargli ragione. Da una parte, grazie alla spinta propulsiva promossa dai «superdirettori» dei venti (e poi dei nuovi dieci) musei e siti archeologici dotati di autonomia, chiamati tramite concorso proprio a rivitalizzare istituti storicamente vittime di mancanza di visione (oltre che, ancora più spesso, di finanziamenti e personale). Dall’altra, grazie a iniziative come le domeniche gratuite (con il record del mese di maggio: 385mila ingressi, 3,5 milioni in tutto il 2017: e non è vero, come scrive Vittorio Emiliani su «il Fatto Quotidiano», che i conteggi sono con il «contapersone» e quindi non credibili).

I dati forniti dal ministro, elaborati dall'Ufficio Statistica del Mibact, sono quindi definiti «davvero eccezionali»: +31% dei visitatori in quattro anni (ma Museo Egizio di Torino e Venaria non sono musei «statali», bensì fondazioni private partecipate dal Mibact) e +53% negli incassi, che nel 2017 hanno sfiorato i 200 milioni di euro (ma il prezzo medio dei biglietti è aumentato del 5,23%). Conferma per i «top five»: Colosseo, Pompei, Uffizi, Accademia di Firenze, Castel Sant'Angelo. Migliori variazioni percentuali (+22% circa) per Caserta, Pitti e Capodimonte. Su base regionale la maggiore crescita è stata in Liguria, Puglia e Friuli-Venezia Giulia (ai vertici si confermano Lazio, Campania e Toscana, con crescite a due cifre).

Gli 80 (più gli imbavagliati) contro la riforma

C’è chi fa notare come i «mirabolanti» 200 milioni di introiti dei musei statali corrispondono a meno del doppio di quanto incassato dal solo Louvre con 8 milioni di visitatori all’anno. E chi sottolinea che i numeri non sono tutto (ovvio) e che i musei non sono «macchine per fare soldi» (altrettanto ovvio). Lo stesso Franceschini precisa che i maggiori incassi non sono un valore in sé (per fortuna), ma «risorse preziose che contribuiscono alla tutela del nostro patrimonio e che tornano regolarmente nelle casse dei musei attraverso un sistema che premia le migliori gestioni e garantisce le piccole realtà con un fondo di perequazione nazionale. Al successo di visitatori e incassi corrisponde una nuova centralità nella vita culturale nazionale, un rafforzamento della ricerca e della produzione scientifica e un ritrovato legame con i territori». Così, appunto, Franceschini.

Di tutt’altro avviso, tra gli altri, i firmatari della lettera aperta, tra cui Andrea e Vittorio Emiliani, Licia Vlad Borrelli, Maria Pia Guermandi, Vezio De Lucia, Bruno Toscano, Lucia Fornari Schianchi: tutti docenti, ambientalisti ed ex funzionari delle Soprintendenze, perché gli attuali sarebbero «imbavagliati» dall’attuale codice etico del Mibact che non consentirebbe loro di «denunciare l’attuale situazione di caos e paralisi». E proseguono: «L’errore di fondo è la pretesa di fare soldi con i beni culturali. I soldi si fanno col turismo, che è un indotto di beni storici e paesaggi». Nessuna risposta è arrivata da Franceschini. In attesa del prossimo ministro.

da Il Giornale dell'Arte numero 383, febbraio 2018

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