Riuso e trasformazioni degli spazi a vocazione culturale e creativa: un driver per lo sviluppo, ma a quali condizioni?
Le esperienze di trasformazione e rigenerazione sono un'importante leva di valorizzazione di beni del patrimonio pubblico e rappresentano un fenomeno ampio in cui la vitalità delle idee molto spesso si scontra con difficoltà normative, tecniche e finanziarie. Un contributo a cura della Fondazione Fitzcarraldo tratto dal rapporto 2015 "Io sono Cultura" di Symbola - Fondazione per le Qualità Italiane
Il tema della rivitalizzazione, della rigenerazione, del riuso degli spazi vuoti, dormienti, abbandonati, indefiniti o in transizione attraverso l’arte, la cultura e la creatività ha assunto, negli ultimi anni, una dimensione quantitativa e qualitativa che merita un surplus di analisi e di attenzione critica capace di disincagliare la riflessione da alcune false mitologie e da una lettura facile e un po’ glamour sul tema della rigenerazione creativa. Innanzitutto partendo dal riconoscimento della grande eterogeneità degli interventi realizzati o in fase di progettazione generata dalla galassia in espansione degli attori e dei beneficiari coinvolgibili, dai contesti socio-economici e culturali di riferimento, dai diversi sistemi proprietari e dalle regole di ingaggio tra i vari pubblici e i molti privati, dal perseguimento di finalità e utilità a maggiore o minore connotazione pubblica e collettiva. Ne deriva un arcipelago in cui affiorano esperienze che variano dalla riappropriazione di luoghi e contenitori attraverso forme spontanee di auto-organizzazione e presidio civico, alla concessione di spazi pubblici per l’intrapresa culturale profit e no-profit, all’insediamento di istituzioni e di flagship culturali per riconvertire aree in difficoltà, alla pianificazione di veri e propri cluster urbani creativi spesso fortemente intrecciati ad operazioni di natura immobiliare e speculativa .
La disponibilità crescente di spazi, generata principalmente da processi di deindustrializzazione e di delocalizzazione produttiva, ma anche dalla necessità di riconversione di infrastrutture pubbliche (stazioni ferroviarie, caserme, edifici scolastici, tribunali, presidi socio-assistenziali, edilizia pubblica, etc.) e da una più generale attitudine alla densificazione urbana che favorisce il riuso come risposta ai processi di nuova edificazione e di consumo di suolo, è un primo importante dato di partenza.
Una recente indagine ha valutato che poco meno del 3% di tutta la superficie costruita nelle aree urbane italiane è costituita da aree industriali dismesse. Secondo Giovanni Campagnoli (Riusiamo l’Italia, 2014) nel nostro Paese sono circa 6 milioni gli spazi vuoti, di diverse tipologie (abitativo, industriale, commerciale, pubblico) e di epoche che vanno dal ‘700 a oggi. Di questi, tra il 3 e il 6% riguardano spazi / capannoni /aree industriali in buona condizione che non necessitanti di importanti interventi di ripristino (qualcosa come 21.000 capannoni e 6.000 negozi).
In Italia abbiamo, inoltre, più di 1.700 stazioni impresenziate della Rete Ferroviaria Italiana che il Gruppo delle Ferrovie Statali sta concedendo tramite contratti di comodato d’uso gratuito alle associazioni e ai comuni affinché siano avviati progetti sociali e culturali che abbiano ricadute positive sui territori. Si tratta di un processo già avviato che, ad oggi, ha visto l’assegnazione di 345 stazioni per una superficie di oltre 63 mila mq. Fanno parte di questa partita anche 3.000 km di linee ferroviarie dismesse, di cui 325 km sono stati destinati a piste ciclabili e percorsi verdi accessibili a tutti (rifacendosi al modello spagnolo), riservati alla mobilità dolce.
Inoltre le Caserme che sono state e saranno dismesse dal Ministero della difesa comprendono circa 75 immobili per più di 730 mila mq di superfici coperte.
Molti di questi immobili, di proprietà pubblica o privata, subiscono un problema di progressiva erosione di valore derivante da un inasprimento del carico fiscale, da obblighi di classificazione energetica e sismica, da cambiamenti nella legislazione sulla sicurezza ambientale, dall’usura del tempo derivante dall’abbandono. Da questo punto di vista le esperienze di trasformazione e rigenerazione rappresentano un’autentica leva di valorizzazione di beni del patrimonio pubblico disponibile dei Comuni italiani costituendosi, spesso, tra le più rilevanti infrastrutturazioni sociali e culturali di valore nelle nostre città. Il completo utilizzo del valore d’uso del patrimonio pubblico disponibile dei comuni italiani costituisce oggi un’esigenza evidente a fronte delle difficoltà di mobilizzazione dei valori in campo (oggi stimati in circa 330 miliardi di euro) e degli oneri manutentivi a carico dei bilanci comunali per mantenerne intatto il valore patrimoniale.
Per converso è cresciuta e si è evoluta la domanda di spazi ibridi a vocazione culturale e creativa in cui progettare, incubare, lavorare, produrre, distribuire, aggregare, partecipare e fruire da parte di associazioni, imprenditoria profit e non profit, organizzazioni del terzo settore, collettivi informali e società civile. Una, seppur breve, sedimentazione storica consente di rilevare come siano crescenti i casi in cui singole e isolate domande di “luoghi” (di sperimentazione, di lavoro, di socialità, di aggregazione e di produzione) si coagulano e assumono una dimensione progettuale grazie alla presenza-opportunità di un determinato spazio fisico da potere riutilizzare e gestire. In questo ambito di azione la variabile tempo può giocare un ruolo poco considerato, ma cruciale nel definire la natura e le logiche di sostenibilità delle avventure di riuso: gli ambienti sono spesso a disposizione per un tempo limitato, a volte per un tempo alterno, nei “vuoti” e nelle transizioni che si trovano all'interno della programmazione pubblica.
Ne conseguono situazioni di intervento che si configurano come frutto della progettazione e della partecipazione dal basso di micro-comunità, in alcuni casi animate dalla volontà di recuperare un bene architettonico pubblico dall’abbandono per dedicarlo alla crescita sociale e culturale del quartiere e della città; in altri esempi, l’obiettivo consiste nel dotare zone cittadine “difficili” o marginali di spazi di creazione artistica e di esercizio di cittadinanza attiva da parte della comunità, nel restituire senso e destino nuovi a luoghi che hanno rappresentato elementi identitari importanti come mercati, caserme, teatri e fabbriche.
Tra i segnali di attenzione e di sostegno a questa tendenza da parte degli attori istituzionali pubblici si segnala per la rilevanza economica e la diffusione territoriale il progetto Laboratori urbani della Regione Puglia mentre nell’ambito del mondo delle Fondazioni spiccano i bandi di Fondazione con il Sud e di Fondazione Unipolis.
Il progetto Laboratori urbani ha cofinanziato il recupero di oltre un centinaio di immobili dismessi di proprietà dei comuni pugliesi, affidandone la gestione attraverso bandi pubblici a associazioni e imprese per attività culturali, servizi sociali, attività di impresa.
La Fondazione con il Sud ha proposto già tre edizioni del Bando storico- artistico e culturale, che promuove l’uso “comune” dei beni culturali delle regioni meridionali, allo scopo di favorire una più ampia fruibilità da parte della collettività come strumento di coesione sociale; tra i criteri di assegnazione la sostenibilità sociale ed economica nel tempo, l’accessibilità e la fruibilità.
Il progetto bando Culturability - spazi d’innovazione sociale, della Fondazione Unipolis per l’edizione 2015, ha privilegiato proposte innovative con l’obiettivo di riqualificare spazi urbani abbandonati o degradati, creando occasioni di rigenerazione urbana e di sviluppo a vocazione culturale. Le 996 domande da tutta Italia, di cui una parte significativa aventi come tema quello del riuso e della trasformazione degli spazi e dei contenitori, testimoniamo le dimensioni del fenomeno.
Dal punto di vista geografico e territoriale non sembrano emergere condizioni particolarmente discriminanti. Sono moltissimi e diffusi su tutto il territorio - dalle grandi polarità metropolitane, ai centri medio-piccoli della provincia italiana, ai territori di frontiera - gli spazi pubblici e industriali su cui l’amministrazione e i privati (siano essi proprietari o gestori) sono chiamati a sperimentare nuovi approcci di rivitalizzazione e nuove regole di ingaggio in alternativa a logiche e costi di demolizione o dormienza spesso insostenibili. Non potendo qui raccontarli tutti, si cita, a titolo di esempio, il grande progetto di riuso dell’Ex Ansaldo di Milano, quasi 6.000 mq affidati dal comune di Milano, mediate bando, ad una associazione di imprese costituita da Esterni, Avanzi, Make a Cube, Arci Milano e H+. Il percorso di insediamento delle funzioni sarà articolato sull’interpretazione di un concetto integrato e contemporaneo di produzione culturale dove incubazione, produzione e fruizione coesisteranno in uno spazio pensato per ibridare e far convivere formazione, creatività, eventi, imprenditoria, ristorazione ed evasione. Per le dimensioni complessive dell’immobile e dell’investimento, la collocazione nel cuore creativo della metropoli lombarda, il momento storico e il contesto culturale ed economico nel quale è venuto a crearsi, l’Ex Ansaldo rappresenta sicuramente un caso di riuso urbano a scopi sociali e creativi (obbligato però a trovare il giusto bilanciamento con la componente commerciale ed economica) a cui guardare con interesse per la scelta di insediamento e progressiva saturazione funzionale degli spazi fortemente processuale, ma anche per i nodi amministrativi e burocratici che stanno accompagnando le fasi di elaborazione e perfezionamento contrattuale e per le dinamiche di ascolto e di negoziazione tra pubblico e privato che si generano in corso d’opera, tipiche di questa tipologia di interventi.
La complessa relazione tra enti concedenti e organizzazioni concessionarie per l’affidamento e l’uso degli spazi (intesa nel senso più ampio della casistica possibile) raccoglie e cumula ulteriori elementi di criticità che è utile comprendere per individuare interventi sia di natura politica e amministrativa che di cambiamento culturale e di accrescimento delle competenze di tutti i soggetti coinvolti, ambedue condizioni indispensabili perché il fenomeno dispieghi le sue potenzialità:
- il valore spesso sperimentale dell’azione di recupero e valorizzazione degli immobili pubblici dismessi ha, come contraltare, l’assenza di consuetudine, da parte degli Enti pubblici concedenti, a sottrarre l’impianto convenzionale degli atti concessori dal quadro logico di riferimento culturale e dai conseguenti vincoli normativi che pretendono redditività dall’utilizzo di tali beni;
- sono poche le esperienze realmente consolidate a livello nazionale di utilizzo di beni immobili per scopi di interesse pubblico in genere e soprattutto relativi alle politiche di sostegno all’associazionismo spontaneo ed all’aggregazione giovanile;
- molte di queste esperienze segnalano una impreparazione degli uffici amministrativi degli enti pubblici territoriali, in particolari di piccole dimensioni, nella gestione dei procedimenti concessori e convenzionali, e gli esiti conseguenti denunciano difficoltà relazionali e di chiarezza nella predisposizione degli atti amministrativi che regolano i rapporti tra concedente e concessionario soggetto gestore, con margini di incertezza interpretativa che aprono la strada a rischi e contenziosi ;
- le organizzazioni responsabili della conduzione dei beni non hanno, salvo rare eccezioni, maturato esperienze di governo di relazioni di questo tipo e/o di gestione di immobili o spazi pubblici; la fragilità delle capacità gestionali si traduce in una sostanziale debolezza negoziale nella relazione con l’Ente concedente o, al contrario, genera atteggiamenti di natura meramente rivendicativa;
- le convenzioni non riportano generalmente riferimenti di merito, se non a carattere generale/tematico, sul progetto o sulle attività o sui servizi a svolgersi all’interno degli spazi concessi con difficoltà nell’allineamento tra contenuti operativi e regolazione dei rapporti ;
- le convenzioni hanno sovente una durata troppo breve, tale da scoraggiare investimenti e manutenzione con mezzi propri da parte dei soggetti gestori nell’immobile pubblico concesso, per giunta a fronte di condizioni abitualmente di forte degrado e di alti costi di manutenzione, trattandosi di edifici storici .
L’impressione generale è che permanga una situazione di grande vitalità e di fragilità al contempo. Gli interventi di riuso rappresentano una risposta pertinente alle molte domande plurali di cambiamento che stanno facendo condensa e, pur non rappresentando ancora una narrazione unitaria capace di interloquire efficacemente con la politica, si stanno dimostrando un campo di pratica privilegiato per sperimentare modelli innovativi di governance e di integrazione tra attività economiche e funzioni socio-culturali.
E’ un fenomeno ampio, talora sostenuto, ma con difficoltà di ogni genere – normative, tecniche ed economico-finanziarie, dai governi locali con la prospettiva di sostenere l’integrazione delle risorse espresse dalle giovani generazioni e di supplire, nell’epoca della crisi, alla deflagrazione dei sistemi di welfare e delle politiche pubbliche nazionali.
Lo scenario attuale, in Italia più che nel resto d’Europa, è caratterizzato da un pullulare di iniziative in cui svettano casi di eccellenza capaci di garantire innovazione sociale, modelli alternativi di produzione e fruizione culturali e forme di resilienza agli effetti della crisi nelle comunità locali, pur in un contesto generale di precarietà e gracilità dal punto di vista dello start finanziario e della sostenibilità economica.
Tali difficoltà rimandano a una più ampia debolezza della cornice istituzionale e normativa, a partire dal livello centrale delle politiche pubbliche nazionali, più concentrate sul tema della spending rewiew, con scarso successo per quanto attiene la valorizzazione del patrimonio pubblico piuttosto che sull’opportunità di costituirne piattaforma generativa di comunità e di produzione di benessere sociale urbano e cultura. A differenza di altri paesi Europei (la Francia in primis) non esistono, infatti, politiche pubbliche che a livello nazionale siano orientate a sostenere la nascita o lo sviluppo di progettualità culturali e creative complesse che producano anche rigenerazione e rivitalizzazione urbana. E’ doveroso ricordare che incidenze rilevanti (pari anche all’80%) dei budget operativi (e anche, spesso degli investimenti strutturali iniziali) dei grandi centri culturali indipendenti in Europa (si pensi ad esempio al caso celebrato della Friche La Belle de Mai di Marsiglia) sono molto sovente garantite da ingenti finanziamenti iniziali e da contributi pubblici a sostegno delle attività.
Nel caso italiano ulteriori elementi di debolezza strutturale nel dispiegamento delle potenzialità della nuova generazione di spazi culturali e sociali al servizio delle comunità sono rappresentati dalla assenza / riluttanza del sistema creditizio e assicurativo, con scarsissime eccezioni, a rispondere con strumenti rigorosi, ma efficaci e flessibili alle esigenze che emergono dalle esperienze di trasformazione e di gestione degli spazi.
Fanno eccezione alcuni grandi progetti di trasformazione a vocazione culturale concepiti con la solidità e la prospettiva di una visione culturale ed economica “illuminata”, quali ad esempio il MAST, la Manifattura di Arti Sperimentazione e Tecnologia voluta dall’imprenditrice Isabella Seràgnoli e di Open Mind il centro di divulgazione della scienza realizzato negli spazi dell’ex Sabiem (circa 8000 mq) dalla Fondazione Golinelli, entrambi a Bologna .
Le potenzialità del fenomeno impongono una diversa assunzione di responsabilità e di protagonismo da parte delle politiche e delle macchine amministrative che assecondi queste nuove traiettorie di intrapresa e di riorganizzazione dell’offerta culturale. A loro si chiederebbe di agire come attivatori di contesti abilitanti che, ad esempio, favoriscano la biodiversità dei soggetti operanti (profit e no profit innanzitutto), la collaborazione tra gli attori delle governance, lo sviluppo delle competenze degli operatori sui diversi fronti, l’incubazione di nuove realtà, l’abbattimento selettivo dei vincoli burocratici, la creazione di “zone franche” in cui agevolare ricerca e investimenti privati, la creazione di piattaforme che aiutino a generare economie di competenza, a favorire integrazione verticale e a internazionalizzare profili e mercati.
Questi processi potrebbero essere ulteriormente accelerati e potenziati da investimenti del mondo economico e del mondo delle fondazioni, in logiche sia di rischio imprenditoriale sia di interventi di venture philantrophy che di agevolazione alle risorse per l’avvio di progetti (quali la messa a disposizione di garanzie, prestiti a lungo termine, equity e competenze gestionali).
A loro volta i soggetti che si candidano o che già esercitano la gestione di spazi pubblici potranno compiere un salto di qualità e di credibilità nel rapporto con gli attori economici e istituzionali del territorio, se sapranno superare l’autoreferenzialità, elaborando visioni imprenditoriali evolute, qualificando il proprio operato come risorsa al servizio delle comunità, sviluppando la realizzazione di attività e servizi attraverso processo di ascolto e coinvolgimento dei pubblici e della cittadinanza.
© Riproduzione Riservata
Ugo Bacchella è Presidente Fondazione Fitzcarraldo
Alessandro Bollo è Responsabile Ricerca e Consulenza Fondazione Fitzcarraldo
Franco Milella è Esperto di politiche pubbliche e comunitarie, Fondazione Fitzcarraldo